Rivista "IBC" XXVII, 2019, 1

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi

Il progetto architettonico e urbanistico non è un modello approvato una volta per tutte e da replicare, ma il frutto variabile di un pensiero che deve calarsi in profondità per risolvere il caso specifico.
I tabu del paesaggio urbano

Piero Orlandi
[Architetto]

Si pubblica la sintesi dell’intervento “Il troppo stroppia” tenuto da Piero Orlandi il 17 gennaio 2019 nella sede dell’associazione culturale FactoryBO sul tema dei tabu nell’architettura contemporanea.

 

L'assenza di veri contenuti nel discorso politico di solito è dimostrata dai toni rabbiosi con cui sono asserite verità inconfutabili e viene impedito un dialogo costruttivo. Per fare un esempio ben noto, il rifiuto dello straniero è tanto più urlato quanto meno sostenuto da un'idea di umanità. Credere nella non eguaglianza degli esseri umani è uno dei tratti distintivi del pensiero di destra sopravvissuto alla dissoluzione delle ideologie e all'avvento del pensiero debole: chi minaccia la mia identità deve restare fuori dai nostri confini (miei e dei miei simili), punto e basta. Chi ragiona in questo modo non vuole che gli sia “prossimo” chi considera diverso e attribuisce alla diversità un valore senz'altro negativo.

Sembra che da qualche tempo lo stesso principio sia transitato nel campo dell'urbanistica, che pare spaventata dal rischio di accogliere le novità e di accettare il cambiamento, più spesso di quanto non sembrerebbe logico per una disciplina nata per governarlo, non per rifiutarlo. Il governo della città ha nella nostra regione una lunga tradizione di sinistra. Ma negli anni Sessanta, alle origini delle politiche di contenimento dello sviluppo urbano e di conservazione dei valori storici, il risanamento dei quartieri popolari e il contrasto all'espansione edilizia avevano ragioni congruenti con precisi obiettivi sociali - difesa delle classi svantaggiate, lotta alla speculazione, creazione di spazi e servizi pubblici - mentre oggi la conservazione pare avere assunto un significato più che politico, psicologico: purché nulla cambi. A lungo andare, l'opinione pubblica si è convinta che per non sbagliare, per non arrecare danni alla città, al paesaggio, all'ambiente, la cosa migliore è rifiutare tutto. Le trasformazioni dello spazio urbano sono precedute e seguite da polemiche prive di precise motivazioni e piene della stessa paura per la diversità che anima il rifiuto del migrante. Diversità delle forme, in questo caso: chi è ostile al cambiamento inveisce contro la introduzione nel recinto della città identitaria – identificata di solito in quella costruita prima della seconda metà del Novecento - di qualunque cosa, anche se utile e necessaria. Toccare gli edifici, le strade, le piazze è diventato ormai un tabù.

Ma non si può dimenticare che le forme che hanno via via composto l'immagine urbana provengono spesso da luoghi lontani, dove sono nate. Sono state copiate e adattate a nuovi contesti, infine accolte dalla comunità e divenute simboli e valori collettivi. Hanno creato un meraviglioso palinsesto di architetture diverse, amalgamate dal lento lavoro del tempo e dalla nostra abitudine ad averle sotto gli occhi e a riconoscerle come nostre. Si sono integrate, come si dice a proposito delle generazioni dei migranti. Per restare a Bologna, pensiamo al complesso delle Sette Chiese, costruito sul modello del Santo Sepolcro di Gerusalemme, al San Francesco che replica le chiese gotiche francesi, ai palazzi rinascimentali di gusto toscano, alle chiese barocche alla romana, alle strade postunitarie disegnate in base alle concezioni urbanistiche del Secondo Impero.

Un certo eccesso di retorica nell'uso del concetto di tradizione lo ha banalizzato al punto di dargli il significato di qualcosa di sempre uguale, ripetuto nel tempo senza mai ammettere deroghe. Al contrario, le città della tradizione italiana sono frutto di continue aggiunte, demolizioni, sostituzioni, di rifacimenti e adeguamenti al gusto contemporaneo, in tutte le epoche storiche. La tradizione ha certo a che fare con il peso e l'evidenza della storia, ma in un senso più sottile: è “continuità del tradimento”, come affermava Frank Lloyd Wright nel difendere il suo famoso progetto del Masieri Memorial sul Canal Grande: un edificio progettato negli anni cinquanta, mai realizzato, che non voleva essere un'architettura che imitava Venezia, ma che la interpretava, tradendola secondo l'intelligenza e la sensibilità dell'autore per i luoghi e per il contesto.

Non ammettere questa posizione implica assumere il divieto come unica regola e rifiutarsi a un vero confronto. Il progetto architettonico e urbanistico non è un modello approvato una volta per tutte e da replicare, ma il frutto variabile di un pensiero che deve calarsi in profondità per risolvere il caso specifico. Chi deve esaminarlo e accertarne l'ammissibilità ha il compito di interrogarlo a fondo, fino a capirlo. Perché l'ammissibilità deve derivare dalla accertata qualità del progetto, non dal semplice rispetto di leggi e consuetudini; solo con questo modo di procedere un eventuale rifiuto è valido, diversamente è un pregiudizio. Un tabù, appunto.

Chi ha per unico obiettivo quello di conservare immodificato ciò che ci ha lasciato il passato motiva il rifiuto del nuovo con principi generali – la storia, le norme, la sacralità del luogo – e mai con vere considerazioni di merito. ( 1) Sono gli anatemi, non i giudizi articolati, che vengono poi trasmessi, attraverso i social e i vari media, all'opinione pubblica, con toni scandalizzati che non ammettono repliche e azzerano una vera discussione.

Un caso recente è la petizione “Salviamo Palazzo dei Diamanti” ( 2) a Ferrara, lanciata dalla Fondazione Cavallini Sgarbi, che richiama alla mente il caso delle Gocce nel centro storico di Bologna, di una quindicina di anni fa. ( 3) Così, i tabù riguardanti l'architettura e la forma urbis contano sempre di più nel valutare le decisioni da prendere, le complicano, le rallentano inutilmente. Quando addirittura – e anche questa sta diventando un'abitudine nazionale – non azzerano processi giunti alla fase finale, con evidente spreco di tempo, di denaro, e soprattutto privandosi di ciò che serviva.

Alcuni anni fa, sempre a Bologna, l'innocua facciata bianca di un piccolo edificio appena terminato comparve in via Riva di Reno. Italia Nostra gridò allo scandalo, sostenendo che di questo passo in breve tempo avremmo assistito alla distruzione dell'intero centro storico. Fu quindi organizzato un incontro pubblico nella Biblioteca Guglielmi dell'IBC, con un titolo suggerito da Andrea Emiliani, Le varianti del gusto. ( 4) La discussione ebbe momenti di interesse, ma una volta di più servì a mostrare l'opportunità di un dialogo piuttosto che a fornire soluzioni.

È troppo ovvio ricordare che la vita è cambiamento continuo, che l'evoluzione biologica comune a tutti gli esseri viventi ha analogie con la stratificazione delle fasi di crescita di una città, che la metamorfosi di ovidiana memoria è sempre occasione di una rinascita e al contrario la fissità richiama il desiderio vano di opporsi alla morte imbalsamando i corpi. Poiché la realtà organica impedisce ai corpi viventi di metamorfizzarsi, i miti classici intervengono con le loro meravigliose invenzioni; ma per gli edifici non è la stessa cosa, la rinascita è possibile, vi sono esempi strabilianti di strutture millenarie che hanno vissuto non una ma decine di vite.

Il caso emblematico è il Mausoleo di Augusto. Riemerse dopo secoli di oblio come fortezza dei Colonna, fu spazio ortivo nel Medioevo, sito di esplorazione archeologica nel Cinquecento, giardino di statue e marmi e abitazione del monsignor Francesco Soderini, ammiratissimo da artisti e antiquari. Di nuovo fu area di scavo nel Settecento, poi arena di spettacoli popolari - giostra di animali visitata da Goethe e combattimento di tori nel racconto di Stendhal - anfiteatro Correa, cava di marmo e perfino auditorium, l'Auditorium Augusteo, inaugurato nel 1907 e utilizzato fino all' isolamento fascista degli anni trenta. ( 5)

La stessa adattabilità dimostrano anche le seconde ed ennesime vite di tanti edifici nel tessuto urbano, primi tra tutti i conventi dopo le soppressioni napoleoniche, che sono divenuti caserme, ospedali, scuole. Il territorio è paesaggio così com'è e nel suo divenire continuo.Ogni epoca ha lasciato tracce nel presente, il lavoro dell'artista è sempre contemporaneo: non possiamo nemmeno contare le chiese barocche che hanno trasformato quelle romaniche e gotiche e i tanti edifici rinascimentali che nascendo hanno causato la scomparsa del tessuto edilizio medievale. Oggi la nostra sensibilità per la storia e la memoria ci ammonisce a ogni passo. Ma questa sensibilità è una risorsa, non può divenire un vincolo. I vincoli sono dei tabù che si insinuano nelle coscienze e rendono “troppo” tutto ciò che esce dai confini: il troppo grande, il troppo alto, il troppo evidente sono vissute come colpe, azioni inique che sporcano il mondo.

Un tempo si costruivano edifici grandiosi, che oggi rispettiamo come simboli di antichi poteri e gloriose dinastie. La facciata della Reggia di Versailles misura seicento metri, e altrettanto quella del Real Albergo dei Poveri del Fuga a Napoli, ma nessuno si sogna di considerarli edifici brutti; sono invece ecomostri quelli moderni che si sviluppano in lunghezza, come il Forte Quezzi a Genova o il Corviale a Roma e il Gallaratese a Milano, per quanto i loro autori siano architetti famosi del Novecento.

Sappiamo che in America, dove sono nati con la scuola di Chicago, non c'è mai stata ostilità per gli edifici alti. Al contrario, in Europa, dove pure le città storiche pullulavano di torri, le costruzioni in altezza consentite dalle nuove tecnologie a partire dall'Ottocento non furono subito accettate. La Tour Eiffel fu definita mostruosa da Maupassant, e per venire al secolo scorso, la Torre Velasca a Milano, capolavoro dello studio BBPR fu a lungo incompreso, mentre oggi è uno dei simboli della città, così come il Pirellone di Giò Ponti. Solo negli anni recenti le costruzioni in altezza hanno ripreso a crescere, a CityLife e nella zona di Porta Nuova, da quando si è compreso che c'è la necessità di densificare la città per fermare il nuovo consumo di suolo.

La tradizione dell'antico e la sua presunta opposizione al contemporaneo è uno dei corsi e ricorsi della cultura italiana. Bruno Zevi nella sua lunga carriera di critico, celebrata proprio lo scorso anno in una mostra al Maxxi di Roma, ha lottato a lungo per liberare la cultura architettonica dall'accademismo e dallo storicismo che riducevano il progetto a un esercizio compilativo. Citava Camillo Boito, architetto, restauratore e autore della novella Senso, da cui Visconti trasse il suo celebre film: “Siamo un popolo inquieto e pigro; non istudiamo l'antico e combattiamo il nuovo”. ( 6)

Un combattimento che ancora oggi, anche quando non è sostenuto da ragioni di merito, fa sempre proseliti. Per giunta, chi indica gli scempi urbanistici non è mai responsabile della loro realizzazione: sono stati sempre gli altri. Chi siano gli altri, spesso non è dato sapere. Per Italo Calvino almeno un nome era possibile farlo: era Quinto, il protagonista de La speculazione edilizia, il suo romanzo del 1963; si era nel pieno dell'espansione urbana legata al boom economico. Ma oggi le cose sono assai diverse.

Oggi la popolazione mondiale è di 7,5 miliardi di persone, il triplo che nel 1950, ed è questa la ragione per cui il paesaggio è cambiato, solcato da infrastrutture, invaso dallo sprawl urbano che si è perfino arrampicato sulle colline e le coste. Nessuno può ragionevolmente chiamarsi fuori, se ha partecipato a questo modello di sviluppo: chi c'era è comunque responsabile. Come potrebbe il paese essere uguale anche solo a cinquant'anni fa, dopo tutto quello che è cambiato a livello sociale, economico, culturale? Chi sono coloro che hanno comprato le auto e usato le autostrade, acquistato le seconde case al mare, e dunque creato questo nuovo paesaggio così vituperato? Noi, ognuno di noi. Accettare questo non vuol dire apprezzare il paesaggio degradato, ma fare uso di una dose minima di onestà intellettuale per giudicare i fatti passati e presenti e per tenerci esenti da tabù nuovi e antichi.

Viene in mente un episodio che ha recentemente raccontato Francesco Piccolo ( 7): Goffredo Parise, verso la metà degli anni settanta, nella sua rubrica sul Corriere della Sera pubblicò la lettera di un lettore che gli chiedeva di condividere il suo sdegno per il degrado delle Alpi Vicentine. Rispose invece che non si sentiva di dargli ragione, e citò “ la forza delle cose che ha mutato profondamente il volto del nostro Paese”, per cui “l'Italia di trent'anni fa è lontana, lontanissima, in tutti i suoi aspetti, politici, culturali, linguistici, fonici, agricoli, non soltanto paesaggistici […] la realtà del nostro paese essendo profondamente mutata, sento la necessità di vivere oggi, non ieri”. Piccolo osserva: “Parise si carica addosso la responsabilità del presente, non lo scaccia come un'epoca medievale; sente il dovere di caricarselo, lo riguarda direttamente, visto che vive – vuole vivere – ora, e quindi lui c'entra con quello che accade ora. […] Non vuole in nessun modo partecipare al lamento reazionario della tensione verso il passato; e sta partecipando al presente così com'è.”

Note 

[1].   Il concetto di passato indistinto è un lascito nella mentalità collettiva che proviene dalla replica acritica di alcune politiche conservative degli anni '60: il principio del ripristino tipologico indicava infatti la necessità di ricostruire tornando a un “prìstino”, un originario non precisato. Che ogni cosa per essere interessante debba essere antica, che il passato sia un altrove temporale di grande fascino è una idea molto radicata ad esempio nella mentalità turistica, che ostacola però la vera comprensione dei fenomeni urbani. Si veda: M. Aime, D. Papotti, L'altro e l'altrove. Antropologia, geografia e turismo, Einaudi, Torino, 2012.

2.   La petizione è stata lanciata per bloccare l'attuazione di un concorso pubblico. Il progetto vincitore del concorso prevede una piccola addizione nel prato retrostante il cortile, un padiglione necessario per completare il percorso espositivo, ma la petizione sostiene che il palazzo rinascimentale viene “aggredito”. Il ministro per i Beni e le Attività Culturali Alberto Bonisoli ha accolto la petizione, che ha raggiunto oltre 38.000 firme contro le 10.000 circa a favore del progetto dello studio Labics di Roma (consultazione del sito www.change.org del 24 gennaio 2019). Labics a Bologna ha progettato il Mast, una delle architetture di maggior qualità degli ultimi decenni. Gli architetti di Labics, Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori, hanno difeso il progetto in un articolo pubblicato sul Giornale dell'Architettura:

http://ilgiornaledellarchitettura.com/web/2019/01/30/architettura-viva

3.   La sdegnata sollevazione popolare - qualcosa di più di una vivace discussione - che portò alla rimozione dei padiglioni ovali trasparenti costruiti come accesso al primo urban center bolognese in piazza Re Enzo ha lasciato una memoria persistente in città. Nel maggio del 2004 la rivista Gomorra (Meltemi editore) dedicò l'intero numero 7 (e la copertina, con una fotografia di Nunzio Battaglia) alla questione di “Bologna. La metropoli rimossa”.

4.  L'incontro si tenne il 19 gennaio 2012, ed intervennero lo stesso Emiliani, Franco Farinelli, Pier Luigi Cervellati, Angelo Varni e chi scrive. Il biasimo di Italia Nostra nei confronti dell'edificio bianco progettato dall'architetto Gianluca Brini, è così totale che a distanza di quasi sette anni la fotografia della facciata è contenuta come monito perenne nella locandina del convegno Il diritto alla città storica, tenutosi il 12 novembre 2018 a Roma per iniziativa dell'Associazione Bianchi Bandinelli: http://www.bianchibandinelli.it/newsite/wp-content/uploads/2019/01/Il-Diritto-alla-Città-Storica.pdf

5.   Cfr. A. M. Riccomini, La ruina di sì bela cosa. Vicende e trasformazioni del Mausoleo di Augusto, Electa, Milano, 1996.

6.   Zevi cita questo passo nel suo Architettura. Concetti di una controstoria, Newton Compton Editori, Roma, 2006, pag. 84.

7.   F. Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, Torino, 2013, pag. 178 e segg.
Personalmente, ho la netta percezione di quanto la mia famiglia sia stata partecipe di molti degli avvenimenti sociali ed economici che hanno trasformato il paesaggio italiano nel Novecento. Bisnonni e nonni sono stati prima braccianti agricoli, poi mezzadri e via via piccoli proprietari nella provincia di Macerata tra fine Ottocento e metà del Novecento; mio padre emigrò a Bologna negli anni Trenta per laurearsi in quella che era ritenuta la scuola di medicina per eccellenza. Ognuno degli eventi capitali della mia microstoria familiare si inquadra alla perfezione nella macrostoria del paese, dalla migrazione verso il nord all'abbandono delle campagne, alla ricostruzione, alla lottizzazione di terreni agricoli, all'acquisto di una casa per vacanze in un villaggio turistico sulla costa. Niente di illecito, ma un costante, naturale appartenere ai propri anni. Ho descritto in dettaglio gli eventi relativi alla costruzione della nuova casa all'inizio del Novecento da parte dei miei nonni ex contadini, per abbandonare la vecchia, così come hanno continuato a fare per tutti i decenni successivi i loro colleghi nelle campagne di tutt'Italia: si veda F. Mantovani, P. Orlandi, G. Zaffagnini, 6.5. Una casa, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2018. Alcune delle foto contenute nel libro sono qui riportate, insieme a quelle di altri autori, fotografi, pittori e fumettisti, ospitati nelle diverse tappe della programmazione espositiva dell'Associazione culturale Spazio Lavì! ( www.spaziolavi.it), nelle due sedi di Sarnano (Mc) e Bologna (la data si riferisce all'anno in cui si è svolta la mostra). Spazio Lavì! è stata fondata per dar vita a un progetto culturale i cui contenuti rispondono a molti dei concetti esposti in questo scritto.

 

 

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