Rivista "IBC" XI, 2003, 3
territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, mostre e rassegne, leggi e politiche
La Legge regionale n. 16 del 15 luglio 2002 aggiorna la normativa sul recupero edilizio e ambientale degli insediamenti storici, promuovendo il miglioramento della qualità architettonica dei centri urbani e il ripristino dei valori paesaggistici del territorio. Nell'ambito delle azioni di supporto previste da questa legge, il Servizio programmazione e sviluppo dell'attività edilizia della Regione Emilia-Romagna ha affidato a Guido Guidi, Paola di Bello e Vittore Fossati una campagna fotografica in alcuni territori comunali. Obiettivo: una ricognizione delle opere "incongrue" con il paesaggio. I comuni coinvolti sono Parma, Castelnuovo ne' Monti (Reggio Emilia), Sassuolo (Modena), Castelmaggiore (Bologna) e Cattolica (Rimini).
Da questa ricerca fotografica, coordinata dall'associazione culturale "Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea", prende le mosse la mostra "Paesaggi dissonanti" organizzata dal 15 novembre all'8 dicembre 2003 presso la Galleria d'arte moderna (GAM) di Bologna. L'esposizione è promossa dall'Assessorato regionale alla programmazione territoriale, politiche abitative, riqualificazione urbana e dalla GAM, in collaborazione con "Linea di Confine" e i cinque comuni coinvolti. Dal catalogo - pubblicato dall'Editrice Compositori di Bologna in collaborazione con l'Ufficio stampa IBC - abbiamo tratto l'intervento del coordinatore del progetto e curatore della mostra.
Il nostro paesaggio è diventato più brutto. Sono cresciute le periferie, le vecchie case contadine sono state inglobate dallo sviluppo edilizio, le zone artigianali e commerciali hanno raggiunto coste, fiumi e montagne, le strade si infilano tra le valli, nei boschi, negli alvei dei fiumi. È come se il paesaggio fosse stato invaso. Da un eccessivo numero di costruzioni, di cose, di persone. Non è questo, ciò che abbiamo di fronte agli occhi? Non è una invasione, quella che abbiamo visto avvenire incessantemente negli ultimi quarant'anni, dal boom economico in poi?
Prenderne atto ci spaventa. Diciamo che il paesaggio è diventato più brutto a seguito di una constatazione di tipo estetico, in cui però la paura ha un peso determinante. Abbiamo paura perché prima ancora di esser brutta, questa invasione di cose che si sovrappongono ai luoghi che noi amiamo è minacciosa, è il segno di qualcosa di inarrestabile. Il filosofo e sociologo francese Raymond Aron, già sul nascere di quelli anni Sessanta portatori di incredibili trasformazioni economiche e sociali, aveva individuato nella bombe, la bomba atomica, e nel nombre, il numero degli individui che vivono sul pianeta, i due problemi del nostro tempo. E se il primo, almeno in parte, ha allentato - ha allentato? - la sua minaccia, mai come oggi il secondo, il numero dei viventi, ci stringe nella sua morsa: meno spazio, meno risorse naturali, troppi consumi energetici, danni irreversibili all'ambiente.
Quello che forse suona un po' stonato è la meraviglia con cui molti prendono atto dei cambiamenti indotti nel paesaggio dalla pressione del fattore numero. È invece stupefacente proprio che si sottovaluti tanto la forza del numero nel produrre effetti così devastanti. A un recente convegno modenese sulla riqualificazione delle aree dismesse, lo storico dell'arte Eugenio Riccomini sosteneva che, a partire dagli anni Venti-Trenta del Novecento, tutto diventa brutto. Provare per credere, diceva: guardiamo l'architettura, le città, le campagne, entriamo anche in uno showroom di lampadari, e ne fuggiremo atterriti per la bruttezza delle forme. Le regole valide per millenni sono state spazzate via dai nuovi principi dell'estetica dell'età delle macchine e della produzione seriale. Portatemi a esempio, dice Riccomini, una brutta architettura, un oggetto brutto, fino a tutto l'Ottocento: non ne troverete. Il kitsch è un concetto del Ventesimo secolo, e non per caso: nasce il concetto del cattivo gusto proprio perché nascono gli oggetti di cattivo gusto, e questi ultimi nascono perché la quantità tende a soppiantare la qualità.
Va detto, per amore di obiettività, che è anche verosimile che il banale o il mediocre - se non vogliamo arrivare a parlare del brutto - che pure nasceva anche nei secoli passati, sia scomparso, inghiottito dalle rovine e dall'oblio. E dunque, in realtà non lo vediamo più, perché l'uomo ha ostinatamente contrastato il tempo nel cercare di salvare e tramandare ciò che riteneva il meglio. Sappiamo anche che il bello che c'è pur stato nel Novecento dell'estetica delle masse, del consumismo e dell'obsolescenza rapidissima degli oggetti, non è certo ignoto, e sta nei musei dell'industria e del design. E molti altri esempi stanno nelle nostre città, in attesa di essere riconosciuti, e soprattutto di non essere più misconosciuti. Comunque sia, la meraviglia per l'invasione del paesaggio mi sembra piuttosto immotivata, se si pensa che tutte le politiche pubbliche del secondo dopoguerra sono state mirate ad assecondare il grande numero, i suoi bisogni, poi anche i suoi desideri: bisogno di case, di ospedali, di scuole per tutti, desiderio di automobili, televisione e tempo libero per tutti. E alla lunga, tutti con la seconda casa, tutti in movimento sulle autostrade, tutti nei luoghi di vacanza, con la conseguenza di una invasione del territorio e del paesaggio. Avendo per anni inseguito certi obiettivi sociali, perché ci si deve meravigliare delle loro conseguenze territoriali? Perché stupirsi se questi oggetti, queste costruzioni e queste persone sono lì, presenti e vivi e moltiplicati? La nostra società ha scelto il numero a scapito del bello, mentre nei secoli scorsi accadeva esattamente l'inverso.
In realtà ciò che si intende dire è che c'è bisogno di buone (e belle) risposte alle esigenze del grande numero, di qualità e quantità allo stesso tempo. Ma questo è un altro discorso, difficile e affascinante. Che però va impostato da un punto di partenza equilibrato e ragionevole. In primo luogo, prendendo atto che non abbiamo più il paesaggio preindustriale, ma abbiamo questo, quello che abbiamo costruito. Questo c'è e quello non c'è più, almeno nella maggior parte del nostro territorio, la parte più urbanizzata, dove la gente vive e lavora. L'obiettivo che dobbiamo porci non è di ricostruire isole felici di paesaggio preindustriale, ricercandone ossessivamente i relitti semiscomparsi. Il compito più utile e urgente è riprendere il controllo estetico sul paesaggio "comune". Ce lo dicono importanti documenti europei, principalmente la Convenzione del paesaggio siglata nel 2000, secondo cui non dobbiamo continuare a pensare che il territorio sia fatto di parti belle e di parti brutte, curando solo le prime, salvaguardando i centri storici e nel frattempo costruendo periferie senza valore. Diamo invece regole proprio là dove finora sono mancate: diamo luoghi centrali alle periferie, spazi pubblici, servizi di livello urbano. Studiamo il moderno, diamogli più considerazione, distinguendo il buono dallo scadente e dal brutto, per conservare ciò che merita e riqualificare o eliminare il resto. E diamoci orientamenti culturali più aperti a veder convivere nuovo e antico, storia e contemporaneità, perché oltre tutto la coesistenza di elementi contrastanti è tanto più da perseguire quanto più si vive in una società multietnica e multiculturale.
Molte di queste cose stanno ora in una nuova legge regionale, la 16 del luglio 2002 (www.regione.emilia-romagna.it/edilizia/recupero-edilizio-LR16). Che punta a rilanciare una politica della conservazione attiva, allargata anche al moderno e integrata con il sostegno alla produzione di architettura contemporanea di qualità. E che indica nella individuazione delle opere incongrue con il paesaggio e nella loro eventuale demolizione uno dei compiti per i comuni che puntano al miglioramento del paesaggio urbano ed extraurbano. In questi ultimi mesi si è scritto molto su un disegno di legge governativo dai contenuti analoghi a questi. Lo hanno fatto, tra gli altri, Arturo Carlo Quintavalle sul "Corriere della Sera" e Salvatore Settis su "la Repubblica". È un peccato che non si sia data alcuna attenzione al fatto che in una regione d'Italia esiste già una normativa che offre strumenti - vedremo poi se e quanto sufficienti - per raggiungere fini che tutti i commentatori giudicano positivi, salvo avanzare mille distinguo preventivi. In Emilia-Romagna si è deciso pragmaticamente di sperimentare gli effetti di questa nuova norma, pubblicando un bando che mette a disposizione risorse finanziarie per progetti che abbiano la qualità architettonica e paesaggistica come obiettivo primario.
Allo stesso tempo si è pensato opportuno approfondire la riflessione sul tema di ciò che può intendersi incongruo con il paesaggio. Nel marzo 2003 è stata emanata una direttiva regionale, prevista dalla nuova legge, dal contenuto piuttosto aperto, tutt'altro che prescrittivo. Ai comuni spetta ora il compito di applicarla, nel quadro dei propri poteri di pianificazione del territorio. Come ulteriore strumento di ricerca e di studio la Regione ha affidato a Guido Guidi, Paola di Bello e Vittore Fossati una campagna fotografica per la ricognizione del tema della "incongruità" in alcuni comuni, come esercizio preventivo alla effettiva individuazione di oggetti o aree specifiche. I comuni che si sono fatti coinvolgere in questa attività sperimentale sono Parma, Castelnuovo ne' Monti (Reggio Emilia), Sassuolo (Modena), Castelmaggiore (Bologna) e Cattolica (Rimini). Sono stati scelti con un criterio: rappresentare situazioni territoriali diverse, sia per caratteri naturali (montagna, costa, pianura) che economico-demografici (cintura del capoluogo di regione, capoluogo di provincia, centro del distretto ceramico). Queste diversità strutturali potrebbero, in ipotesi, generare una diversità di "ricevimento" del tema dell'incongruo. Ovvero essere predisposti in modo diverso a fenomeni di incongruità. La quale potrebbe essere in certi luoghi più evidente ed eccezionale, in altri più "naturale", più ordinaria e diffusa, in altri ancora una questione avvertita già da tempo dalla popolazione e rappresentata in modo emblematico da quel preciso edificio.
Mi sembra che l'esperimento sia riuscito, e spiego perché. Non credo che le immagini prodotte da questa ricerca debbano essere osservate comune per comune, o autore per autore. Ma, piuttosto, tema per tema. Proprio per riconoscere quali e quanti concetti di incongruo emergono. Proviamo cioè a trovare alcuni temi con cui l'incongruità paesaggistica si presenta nelle diverse situazioni territoriali. Proviamoci semplicemente descrivendo ciò che si vede nelle immagini, ciò che esse mostrano.
A Castelmaggiore vediamo automobili, manifesti pubblicitari, infissi di alluminio, cartelli, divieti, insegne, due grandi tuje in un cortile, serrande, distributori di benzina, attese alla fermata dell'autobus, vetrine di offerte immobiliari, motorini, piante di orientamento nella città (quelle con la scritta "Voi siete qui"), recinzioni. Cosa c'è di speciale? Niente, è una città come tante altre: penso che chiunque, guardando queste immagini, riconosca il proprio ambiente urbano. "Ma qui non c'è niente!" potrebbe dire il visitatore della mostra allestita con queste fotografie. Più che qualcosa di incongruo, queste immagini mostrano la forza della banalità, la sua paradossale ricchezza. Non c'è niente: né cattedrali, né palazzi o teatri, portici, battisteri, ponti. Non c'è la città che di solito viene fotografata. Potremmo dire che qui siamo in presenza dell'incongruo ordinario, quello a cui siamo tanto abituati che, appunto, assomiglia al niente.
Poi c'è una incongruità che, possiamo dire, ha superato il limite, la soglia della sopportabilità, o della decenza, dell'usabilità, e si avvia al degrado definitivo, o se va bene alla riqualificazione. Di solito assume l'aspetto di capannoni cadenti, con la gente lì vicino che guarda e commenta, muri ciechi, vuoto desolato, un cane sdraiato al sole, sterpaglie, silenzio (il silenzio si vede, nelle foto!), piccole attività residuali che sloggeranno di lì a poco, e oltre i tetti si legge qualche lontana insegna di hotel. Questa è una incongruità che ha origini di tipo economico: attività dismesse, trasferite altrove perché inquinanti o generatrici di traffico, obsolete, fuori mercato, aziende familiari che chiudono perché i giovani non fanno più quel mestiere. Un'incongruità malinconica, non cupa. Mentre è cupa quella che racconta Paola di Bello: l'isolamento della palazzina per immigrati dai paesi d'origine, dalla città che sta intorno, dalle relazioni con la gente, è perfino superiore a quello - siamo sempre a Sassuolo - del brutto edificio vicino alla stazione per Modena, che (a proposito di isolamento) crea una sorta di isola urbana circondata dalle strade e svuotata di funzioni. Insomma, queste immagini raccontano di un disagio urbano in termini economico-sociali e invocano urgentemente interventi di riqualificazione. Di che tipo, si potrà e si dovrà discutere; ma certamente questo tipo di incongruità nuoce non solo alla immagine, ma alle relazioni sociali, alla crescita economica e civile, e infine alla città stessa.
Castelnuovo ne' Monti con le sue stalle - e in particolare con quella ormai famosa, che ha già un nomignolo, l'"ecomostro di Felina" - presenta indubbiamente la specie più nota di incongruità: quella che si palesa in contesti naturali o storici di qualità, integri, se appunto non fosse per quel mostro. Ma la solitudine del mostro non ce lo rende alla fine più vicino? Come se perseguitarlo fosse una vigliaccheria e non valesse invece la pena esercitare gli sforzi progettuali cercando tecniche di mitigazione, integrazione e recupero ambientale, magari puntando a un riutilizzo che risponda anche a finalità sociali. Ci sono, in regione, molti altri esempi noti di incongruità eccezionali di questo tipo. E viene quasi da pensare se non convenga progettarne il recupero importando nella prassi urbanistica principi tipici dei movimenti pacifisti: ovvero non rispondere, alla iniziale violenza sul paesaggio di cui questi edifici sono i testimoni, con una ulteriore violenza: sull'oggetto - distruggendolo, amputandolo, negandolo - e dunque, ancora, sul paesaggio che intorno a esso si è costruito.
Le immagini di Parma suggeriscono altre due considerazioni. Guardando il lungofiume saltano agli occhi le incoerenze di forme, colori, dimensioni, nella serie delle facciate. Ma non si dovrebbe forse pensare che basterà una manutenzione unitaria di questi edifici per dar loro una omogeneità significativa e con ogni probabilità sufficiente, come del resto è accaduto ovunque e nei secoli? In altri termini, è pur vero che architetture di epoche diverse hanno potuto coesistere una a fianco dell'altra nei nostri centri storici, formando anzi tutte insieme la forza espressiva dell'ambiente urbano, anche essendo difformi in altezza, nei rapporti tra vuoti e pieni, nello stile, nella tipologia delle forature. E questo grazie anche alla cosiddetta patina del tempo, che altro non è se non il comune assoggettamento a fasi ripetute di manutenzione, seguite da fasi di degrado e nuovamente di manutenzione. Lo stesso potrà avvenire anche oggi, ovunque vi sia - nelle periferie urbane, nell'urbanizzazione continua lungo le vie di comunicazione, nelle nuove frazioni del territorio rurale - un insieme eterogeneo di oggetti edilizi. Assoggettandolo a un buon piano di manutenzione unitaria. E dunque, anche la manutenzione può essere un antidoto contro l'incongruo, non soltanto la demolizione.
Un'altra osservazione proviene dal caso parmense. Le baracche che sopravvivono nell'area limitrofa al parco ducale, a due passi dalle zone centrali della città, sono, si dice, inadeguate al contesto. La parola contesto è spesso usata dai paesaggisti, anche nella accezione di regola per la progettazione di nuove architetture. Nel senso che queste, per essere di qualità, devono rispondere, oltre che a regole compositive interne, a una sorta di protocollo di relazioni con l'esterno, costituito da adeguati rapporti prospettici, cromatici, dimensionali, stilistici, spaziali con il contesto, appunto. Ma non bisogna nascondersi il rischio connesso a un uso ideologico di questo concetto. Le casupole di Parma sono incongrue in sé o soprattutto perché nelle loro adiacenze c'è la città ricca e ufficiale, quella che non ammette diversità al proprio cospetto? Dobbiamo fare attenzione a che la città non fagociti ogni diversità, riproducendosi secondo modelli più o meno ricchi, ma standardizzati e uniformi, sia al proprio interno che verso fuori. In altre parole, non deve essere un contesto sbagliato a condannare un incongruo che potrebbe avere il diritto di sopravvivere con qualche modesto aggiustamento, dando risposta al bisogni di verde e di servizi pubblici tipici delle aree centrali. Penso a quanto ancora può insegnarci una città come Ferrara, che a pochi metri da piazza Ariostea conserva ancora campi coltivati dentro le mura, memoria del paesaggio precedente all'addizione di Ercole d' Este.
Questa ricerca fotografica, coordinata dall'associazione culturale "Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea" di Rubiera (Reggio Emilia) e realizzata in collaborazione con i cinque comuni sarà ospitata dal 15 novembre all'8 dicembre 2003 dalla Galleria d'arte moderna di Bologna, che ha riconosciuto l'interesse della convergenza tra fotografia, urbanistica e arte, visto anche il livello degli autori. È una ricerca che programmaticamente non mostra concetti già definiti, mostra problemi e dubbi interpretativi. I testi di Giulio Mozzi vanno nella stessa direzione: è giusto, è produttivo, è risolutivo di qualcosa che non sia la condanna di quel singolo oggetto edilizio, vedere l'incongruità rappresentata in un mostro? O piuttosto dobbiamo riuscire a riconoscere modelli errati di comportamento - di tutti noi: urbanisti, progettisti, imprenditori, amministratori pubblici, cittadini - per crearci una sorta di antidoto, una consapevolezza del mediocre che sospinga più in alto possibile le nostre aspettative estetiche, il modello civile e sociale a cui tendere?
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