Rivista "IBC" XV, 2007, 3

territorio e beni architettonici-ambientali / convegni e seminari, progetti e realizzazioni, leggi e politiche

Le occasioni perdute nella storia dell'architettura contemporanea di Bologna possono indicare una prospettiva nuova per il prossimo futuro.
Sette città possibili

Glauco Gresleri
[architetto]

Il dibattito che dagli anni Sessanta del Novecento divide il campo dell'architettura italiana tra "innovatori" e "conservatori" nel corso del tempo ha trovato un punto di equilibrio nella comune consapevolezza che il progetto contemporaneo è uno strumento per la valorizzazione e la conservazione dell'antico, non una minaccia per la sua integrità. Oggi, a partire da casi concreti, la controversia sembra riaccendersi, anche nella nostra regione. Tra aprile e giugno 2007, per contribuire alla riflessione, l'Istituto regionale per i beni culturali, l'Istituto nazionale di urbanistica - Emilia-Romagna e l'Urban Center del Comune di Bologna hanno organizzato una rassegna di dodici incontri con studiosi, artisti e professionisti. Il ciclo, intitolato "La città storica contemporanea" e curato da Mario Piccinini, Piero Orlandi e Francesco Evangelisti, ha affrontato il tema a partire dall'illustrazione di interventi recenti, in corso o già completati, per offrire una ricognizione multidisciplinare sulla città storica nel momento in cui essa affronta una nuova realtà demografica, sociale e culturale. Il testo che presentiamo riproduce l'intervento dell'architetto Glauco Gresleri, pronunciato nell'incontro del 12 aprile sul tema "L'architettura contemporanea a Bologna".

 

L'architettura contemporanea a Bologna è un tema aperto. Dovremmo analizzare quella che c'è? Oppure quella che non c'è? Oppure quella che dovrebbe esserci? Oppure, ipotesi più drammatica, quella che non ci sarà mai se non cambieranno i presupposti (che forse però sono già all'orizzonte)? Perché i momenti forti dell'architettura sono sempre stati conseguenti a momenti forti della società, del momento, del sito. Posso dire l'Atene di Pericle, ma anche la Firenze di Lorenzo dei Medici, ma anche la Roma di Mussolini. Momenti forti di cui la Bologna dell'oggi per ora sembra mancare. Perché l'architettura, per nascere e crescere, non ha bisogno solo di un grande interprete, l'architetto, ma di una atmosfera capace di generare l'interesse a un tale evento. E, soprattutto, vi deve essere un coacervo d'insiemi in grado di far lievitare il fenomeno della nascita architettonica come accadimento generato da una grande dimensione del fenomeno.

L'architettura è come un albero: ha bisogno di una struttura d'insieme come il bosco, perché è nella reciproca relazione che gli alberi crescono e si proteggono tra loro. Così le architetture si autoaffermano quando si compongono in insiemi corali, in enclavi di ampia dimensione, in rioni, in quartieri, in parti di città, in un vero ambiente antropomorfizzato di carattere omogeneo. La ragione di questo fenomeno è presto detta. È che l'architettura non è fatta solo da sé stessa, ma dagli spazi che genera. Un solo soggetto architettonico genera un'energia d'irradiazione limitata. Due oggetti architettonici generano una tensione spaziale; tre generano uno spazio, quattro producono un sistema, ove il momento dell'"emozione architettonica" si esalta.

Questo può essere vero anche in un intervento singolo a taglio moderno che si colloca in un tessuto esistente di altra natura stilistica, quando vale il principio della qualità che permette l'accostamento differenziato degli stili. Allora avviene che un inserto moderno di qualità può inserirsi in un tessuto storico (esso stesso di qualità) in modo naturale, generando quella situazione spaziale di reciproca esaltazione energetica che noi andiamo cercando. Ma nella periferia, di solito, il caso precedente non si realizza. Perché l'oggetto nuovo, anche di qualità eccelsa, trapiantato in un magma anonimo senza carattere spaziale e ambientale, risulta povero; la sua energia non si riflette, ma si perde; l'intorno è tale che non "fa spazio" con esso; tutto risulta squallido e si appanna nel fastidio. Questo è anche, purtroppo spesso, il caso di Bologna e rari sono gli episodi notevoli che abbiano potuto, da soli, fare senza una qualità d'appoggio.

Certo potrei citare casi precisi di risonanza spaziale di opere moderne bolognesi: la Johns Hopkins di Zacchiroli; le unità residenziali di via Tolmino e di via degli Orti di Paolo Andina e Silvano Casini; la bellissima sede centrale Unipol di via Stalingrado di Ettore Masi e Andrea Guidotti; la casa di vetro di Gianfranco Masi a porta Galliera; la chiesa di Melchiorre Bega a Casalecchio, e certo anche Borgo Masini di Trebbi Cervellati e Gresleri, opera significativa per l'impianto progettuale che ha inglobato nel progetto stesso la preesistenza della chiesa del Borgo contrapponendo al suo pieno lo spazio vuoto circolare della piazza, che genera, come eco di risonanza, gli edifici alti come onde di riflesso. Ma credo che un programma urbanistico di ampio respiro debba puntare sull'ipotesi che nel tessuto antropomorfizzato in trasformazione si possano generare degli episodi a scala di sito più ampia.

Il problema generale è poter generare delle situazioni d'insieme in cui vi siano "parti di città" come oggetto d'intervento, per far sì che si possa procedere non con elementi singoli ma per nuclei, e non per espressione delle masse edificate ma per intensità degli spazi generati. E a proposito del problema della grande dimensione, in grado di incidere concretamente sulla trasformazione moderna della città contemporanea, ritengo che qui si possa fare un excursus storico all'indietro nel tempo per riscontrare quali occasioni straordinarie la nostra città abbia perso negli ultimi centocinquanta anni come sottrazione di potenzialità moderna, per capire cosa almeno non dovrebbe più ripetersi.

È facile oramai piangere sulla demolizione delle perdute nostre mura urbane, dettata ai primi del Novecento da una pretesa di pseudopopulismo che voleva rendere "uguali" gli abitanti del centro e quelli del forese senza più la cinta muraria, che dividendo le aree divideva le "classi" dei cittadini. Ma se quel fatto, pur così magmatico, ha avuto l'effetto di farci perdere un elemento monumentale ed espressivo, un fenomeno a mio avviso estremamente più grave per la perdita di potenzialità urbana è presente nella storia moderna della nostra città (e la nostra attenzione critica storico-artistica sembra ignorarlo, quasi a volerne nascondere la memoria). Intendo la demolizione silenziosa (la Stille Zerstörung dei tedeschi) del famoso "Vallo Fanti", iniziato nel 1859 e portato a termine nel giro di 17 anni, nel momento storico precedente l'Unità d'Italia che vedeva i comuni della pianura padana, già eretti in libero governo, a rischio di un ritorno da parte dello Stato pontificio e degli imperi d'Austria e di Francia.

Il Vallo consisteva in una cintura fortificata, lunga 16 chilometri, fatta di rilevati di terra ma con impianti fortilizi in muratura, le cosiddette "lunette" (almeno una dozzina di strutture territoriali a forte connotato monumentale), in grado di ospitare centinaia di pezzi d'artiglieria (400 cannoni e obici): una cintura che cingeva la città dal fiume Savena al fiume Reno, risalendo anche sulla collina con opere di difesa e depositi di munizioni. Quando parte il primo Piano regolatore della città, nel 1889, il Vallo Fanti aveva 30 anni ed era ancora intatto. Se guardiamo la pianta del Piano (un modello era esposto nella mostra del 2001 "Norma e Arbitrio. Architetti e ingegneri a Bologna 1850-1950") ne vediamo la raffigurazione esatta e notiamo come il Piano ignori tali strutture "scantonandole" letteralmente, ed è questo che suscita meraviglia. Il Piano procede cioè disegnando una maglia urbana senza carattere, senza gerarchie, senza procedere per gangli successivi, senza articolare l'organismo per membra (come succede nel corpo umano), quando invece avrebbe avuto la possibilità di "adottare" i luoghi emblematici e già caratterizzati delle lunette come punti notevoli, atti a generare piazze, slarghi, centri di interesse, poli sportivi, luoghi del verde urbano, punti in cui poter collocare centri commerciali scolastici o parrocchiali... Un delitto di lesa urbanità.

Ma non è bastato: i nove piani regolatori della città che si sono succeduti hanno continuato lo stesso criterio lasciando disperdere tali emergenze (salvo quelle di Gamberini e di via Saliceto) senza riuscire a utilizzarle come momenti compositivi della nuova città. La pianificazione di Bologna, che ha vissuto il momento forte nella messa a punto dei processi amministrativi di controllo tecnico e della redditività fondiaria, ha ignorato la presenza di questi punti forti che avrebbero potuto costituire dei capisaldi di irraggiamento qualitativo urbano-architettonico nel tessuto d'accrescimento urbano.

Di contro, un momento positivo di programmazione va citato. Ed è quello che si verifica quando il cardinale Lercaro, a fronte di un piano regolatore carente di strutture per una integrazione tra popolazione e servizi, immagina che si debba intervenire con la creazione di centri potenziali di vivificazione civica. E, con l'apporto culturale di Dossetti, concepisce che possano essere le strutture dei centri parrocchiali, con i loro prolungamenti funzionali e fisici, a costituire i gangli per una organizzazione urbana della "seconda Bologna", come lui chiamava la periferia. Lavorando perché le strutture architettoniche di tali organismi potessero dilatarsi e articolarsi, coinvolgendo la maglia urbana tramite spazi aperti e organizzazioni architettoniche in grado di costituirsi come "brani di città". L'idea era che l'organismo architettonico progettato ad hoc in quel sito e per quel sito potesse divenire strumento di caratterizzazione urbana attraverso il controllo della composizione dei corpi edilizi e degli spazi di contorno.

L'epica battaglia per le "nuove chiese", che aveva sollevato tanta perplessità nella "Bologna bene", non era volta solo alla realizzazione di punti per la presenza pastorale nelle nuove aree di espansione urbana, ma aveva un obiettivo a scala maggiore: costituire nodi potenziali di vitalità urbana totalmente disattesi dal Piano regolatore del 1948. Lercaro arriva a concepire, tra i primi, l'idea che questi nodi di tessuto avrebbero dovuto generare un enclave energico di potenzialità urbana, aprendo in quel momento all'idea del quartiere, come possibile cellula del comporre urbano, la cui trattazione teorica si doveva al famoso "libro bianco" di Dossetti. Un criterio poi assunto dal Comune di Bologna nella reale concretizzazione dei quartieri sino al riconoscimento della legge istituzionale nazionale.

Se vi fu una sproporzione tra l'alto contenuto dell'ideale e la concreta realizzazione, dovuta al forzato allontanamento di Lercaro dalla Diocesi, proprio a questa fase va ascritto il momento più eclatante della potenzialità di caratterizzazione urbana di Bologna, che alla fine degli anni Sessanta visse una epopea progettuale riecheggiata nel mondo intero (anche se una deliberata obsolescenza storica locale ha voluto poi nascondere il più possibile l'evento e cancellarne le tracce). Mi riferisco al momento magico dell'incontro politico amministrativo tra il cardinale Giacomo Lercaro e il sindaco di Bologna Guido Fanti, quando i due personaggi (dotati di un alto carisma personale, come la città non aveva avuto da oltre duecento anni) decisero che Bologna dovesse compiere un salto strutturale nella sua conformazione urbana, perché la periferia potesse avere la stessa qualità del centro. Superando il concetto delle regole grammaticali con cui la pianificazione cittadina si era distinta, senza peraltro arrivare a dare "forma" alla città, immaginarono la possibilità di un grande progetto moderno per l'unico settore nord-est ancora aperto tra il forese e il centro, un settore inteso come gate-porta verso la città.

Fu così che per il nuovo Piano regolatore per le quote di sviluppo a nord-est viene chiamato Kenzo Tange, in quel momento il più grande costruttore di città (Skopje e la nuova Tokyo). E in cinque anni di intenso lavoro l'équipe di Tange-Watanabe, coadiuvata dai gruppi di Bologna (il Centro studi per l'architettura sacra con gli architetti Trebbi, Scolozzi e Gresleri, e il settore comunale con gli architetti Carrieri e Mattioli e l'assessore Sarti), producono un piano strutturale (funzione e forma strettamente congiunti) che, organicamente collegato a tutta la compagine urbana, zona collinare compresa, dava alla città l'impronta urbanizzativa ed espressiva di nuova città moderna.

Il Piano, la cui testimonianza storica è raccolta dal n. 1 della rivista "Parametro" del luglio 1970, fu approvato 37 anni or sono dalla Giunta e adottato dal Consiglio comunale, quindi divenne operativo e pronto alla sua trascrizione in piano normativo. Ma la storia remò contro e non volle che Bologna potesse diventare una città moderna, ma preferì che continuasse il suo piccolo cabotaggio con una periferia alienante: Lercaro fu interdetto e allontanato, e Guido Fanti, che aveva guardato a questa fase urbana con il cuore dell'uomo generoso e lungimirante, dovette cedere il campo ad altri per passare alla presidenza della Regione, che aveva bisogno di un uomo forte per affermarsi. Chi venne dopo ebbe paura del "cambiamento" e preferì impegnarsi nella piccola dimensione dei centri sociali di sola utilità di servizio, ma senza la capacità di incidere sulla vitalità formale e strutturale della città, e il grande piano fu ritirato e nascosto.

Ma oltre a questi due episodi, debbo citare ancora un caso negativo risalente anch'esso a ben 20 anni fa. Nel 1987 la XVII Triennale di Milano lancia un progetto per l'Italia invitando le nove città più importanti a indire un concorso di idee, con il coinvolgimento di nove gruppi di progettazione per ognuno dei nove centri; obiettivo: individuare in ciascuna delle città scelte un'area debole ove proporre un progetto forte in grado di portare alla città un contributo inventivo per aiutare la crescita di qualità. Bologna, per scelta del commissario Giuliano Gresleri, indica la zona di via Stalingrado come punto critico del sistema periferico della città e fornisce alla Triennale i nominativi dei nove pool progettuali da impegnare.

Nasce così per questa area negletta l'occasione eccezionale di vedere approntare e quindi di poter disporre di nove progetti di alta qualità, tra i quali si distinguono nomi di valore mondiale come Seligmann e Oubrerie, e apporti locali: Zacchiroli, Masi, Rosa, Carmassi, il gruppo di Trebbi coi Gresleri e Cervellati, quello di Mattioli, Capponcelli e Mannelli. Bologna, purtroppo, rimane sorda. Quello che è accaduto per altri dei nove casi, dove le proposte hanno generato indirizzi di comportamento amministrativo per la pianificazione delle aree interessate, non è accaduto per Bologna, dove il Piano regolatore ha ignorato tali contributi e ha proceduto per altra strada. Inutile il raffronto con quello che sta sorgendo ora sull'area già oggetto del Piano Tange e della rosa dei nove contributi della Triennale...

Il "mea culpa" per le gravi perdite di occasioni importanti nel secolo scorso, che qui ho voluto interpretare come cittadino di Bologna e come membro della categoria degli architetti, vuole sottolineare il problema: l'architettura contemporanea in questa città ha già tentato, anche se per tre volte senza risultato, la strada per cercare una nuova dimensione, che non può più essere quella della soluzione iconica di qualche edificio ma che deve poter agire a livello strutturale.

Si apre ora uno spiraglio di speranza (sono i presupposti auspicati in apertura): si tratta del Piano strutturale comunale portato avanti dalla Giunta sotto la guida dell'assessore Virginio Merola, un piano in cui al concetto di "quartiere" che la metà del secolo scorso aveva individuato come "scala" per una valorizzazione nodale del tessuto antropomorfizzato, superando l'eufemistica divisione tra centro storico e periferia, si sostituisce la forte intuizione delle "città" da integrare, sette per l'esattezza: la città della ferrovia, quella della tangenziale, quella della collina, quella del Reno, quella del Savena, quella dell'Emilia ponente, quella dell'Emilia levante. È in questo cambio di scala nell'intervento di controllo della antropomorfizzazione del territorio che forse va ricercata e perseguita la presenza ordinatrice e di caratterizzazione formale su cui far convergere i processi di una, se possibile, futura architettura contemporanea di Bologna.

 

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