Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / mostre e rassegne, pubblicazioni

Con la mostra alla Galleria d'arte moderna di Bologna si è conclusa la prima fase dell'indagine sul patrimonio regionale di architettura contemporanea. I prossimi passi dovranno mettere a frutto le conoscenze accumulate dall'inventario.
Il volto del nuovo

Maristella Casciato
[docente di Storia dell'architettura all'Università di Bologna]

Dall'11 ottobre al 13 novembre 2005 la Galleria d'arte moderna di Bologna ha ospitato la mostra "Quale e Quanta. Architettura in Emilia-Romagna nel secondo Novecento" promossa dall'Assessorato programmazione e sviluppo territoriale e dall'Istituto per i beni culturali (IBC) della Regione, con il patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturali. In esposizione una serie di fotografie, video, disegni, progetti e plastici relativi a circa 200 edifici censiti nel corso di un programma di ricerca e di successiva catalogazione affidato all'IBC. Il progetto - nato nel quadro delle attività promosse dalla Legge regionale n. 16 del 2002 per la valorizzazione dell'architettura contemporanea, e realizzato con la collaborazione di una commissione scientifica formata da docenti delle università di Bologna e Ferrara - ha catalogato gli edifici di rilevante qualità architettonica realizzati fra il 1945 e il 2000. Sugli sviluppi futuri del progetto, destinato a proseguire nel tempo, interviene Maristella Casciato, docente di Storia dell'architettura all'Università di Bologna e presidente di "Docomomo International", associazione internazionale per la documentazione e conservazione del patrimonio architettonico moderno ( www.docomomo.com), che insieme a Piero Orlandi ha curato il catalogo della mostra.

 

La larga diffusione, in regioni geografiche e culturali molto diverse, di progetti indirizzati all'elaborazione di inventari delle opere d'architettura del Novecento, mette in evidenza la novità di queste indagini rispetto alle storie dell'architettura frutto di percorsi conoscitivi e interpretativi più tradizionali. L'inventario non è certo il solo strumento per costruire un'altra storia del moderno e del contemporaneo, ma ne costituisce uno dei capisaldi. L'inchiesta, appena conclusa, sull'architettura portoghese del XX secolo può essere presa a modello di questa nuova prassi conoscitiva. Il progetto, elaborato dall'Ordine degli architetti portoghesi, fu proposto con grande tempestività all'Unione europea nell'ambito del programma "FEDER"; il rilevante contributo economico ricevuto da Bruxelles ha permesso a un nutrito gruppo di ricercatori portoghesi di operare, nell'arco di due anni, uno screening assai puntuale sull'intero territorio, il cui esito è un inventario di circa cinquemila architetture.

Prima di passare a una breve valutazione di questa esperienza, i cui risultati sono stati recentemente esposti nel corso di una conferenza internazionale, mi sembra utile approfondire il metodo e i criteri usati nella classificazione, perché questi forniscono indicatori interessanti, da tenere in considerazione per la prosecuzione del lavoro di indagine conoscitiva sul patrimonio architettonico emiliano-romagnolo contemporaneo, la cui prima fase si è conclusa con la mostra presso la Galleria d'arte moderna di Bologna e la pubblicazione del catalogo.1

Un'iniziale osservazione riguarda la cronologia e l'opportunità di suddividere l'arco temporale d'indagine secondo una periodizzazione, che diventa implicitamente criterio di classificazione. L'individuazione di queste fasi deriva da una riflessione a tutto campo sulle vicende storico-culturali che caratterizzano il territorio in esame, da cui si deduce una segmentazione che può non trovare diretta corrispondenza in fasce temporali già codificate nella storiografia (per esempio, prima o dopo i conflitti mondiali, quando si prende in esame l'intero XX secolo), ma piuttosto tende a introdurre segmenti di durata variabile, ossia una flessibilità nella scansione e nella lunghezza dei periodi, con l'unico obiettivo di indirizzare la cronologia al servizio della catalogazione delle architetture. Più che una forzatura della storia, questa procedura diventa il primo passo per un'interpretazione dello sviluppo storico come strumento conoscitivo per l'inventario.

Nel caso portoghese il XX secolo è stato suddiviso in cinque periodi, che riflettono i momenti cruciali della storia di quel paese: l'inizio della dittatura, la fase dello "stato nuovo", la riflessione sulla "casa portoghese" (successiva alla pubblicazione, nel 1947, di un seminale saggio di Távora), gli anni Sessanta e la guerra in Africa, la "rivoluzione dei garofani" estesa a comprendere l'ultima decade del secolo, corrispondente al riconoscimento internazionale della "scuola" portoghese. È evidente che non si tratta di intervalli astratti, né di decadi fisse, ma dell'incrocio fra la scansione degli eventi storico-politici e il modo in cui l'architettura ha reagito alle trasformazioni della società o ne ha interpretato, criticamente, le sollecitazioni. Ne consegue che questi segmenti temporali non sono contenitori rigidi, anzi essi mantengono una certa dose di permeabilità o meglio di dilatazione, necessaria ad accogliere processi di longue durée.

Il confronto fra una più generica suddivisione geografica del paese in sei aree, di cui due insulari, e la periodizzazione ha messo immediatamente in risalto quanto, in alcune fasi, siano state due regioni - quella della capitale Lisbona e quella settentrionale di Porto - le sole in cui si sia potuto rilevare una significativa risposta dell'architettura ai programmi lanciati dal potere politico o alle modificazioni delle condizioni culturali e ambientali che si producevano nella società portoghese.

Ferme restando queste differenze, gli intervalli temporali sono stati mantenuti come comune denominatore che attraversa tutte le aree geografiche. Ora che l'inventario si è concluso, la periodizzazione permette di misurare i diversi gradienti di impatto dell'architettura moderna sulla storia del paese. Per esempio, si è potuto verificare l'influenza sulla struttura urbanistica della capitale Lisbona, e le ricadute sull'identità architettonica del paese, di un evento catalizzatore come l'Esposizione mondiale portoghese del 1940, un programma in cui nazionalismo e modernismo erano assunti a indicatori del progetto politico di riaffermazione internazionale del regime. L'eco di quella spinta fortemente ideologica comporterà, dopo il 1947, la nascita di una riflessione critica, una fase di introspezione, che nutrirà quella fertile humus da cui si svilupperà la straordinaria stagione dell'architettura portoghese di fine secolo.

Il fatto che l'arco temporale preso in esame dalla ricerca sull'architettura contemporanea in Emilia-Romagna sia circoscritto alla seconda metà del Novecento, non comporta alcun ostacolo a un'utile integrazione fra periodizzazione e inventario. Inizialmente si erano individuati cinque segmenti temporali, che in seguito sono però diventati un dato accessorio, che non ha più trovato alcun riscontro nel registro delle opere, elencate in base alla semplice appartenenza cronologica. Così facendo la cronologia ha finito per diventare un indicatore "muto", privato di qualsivoglia interferenza con altri parametri di scansione della storia, e di conseguenza non è servito a segnalare né accelerazioni, né accumulazioni, né fasi di stagnazione nei processi di costruzione dell'architettura.

Nel riprendere in mano la ricerca sarà quindi opportuno riconsiderare, da una parte, la validità storico-culturale dei segmenti temporali già indicati, e, dall'altra, la loro relazione con la cronologia, costruendo veri e propri campi che scandiscono il registro delle opere. Attraverso questi campi, e attraverso il numero di architetture presenti in ciascun campo rispetto alle diverse realtà urbane o provinciali censite, sarà possibile passare a una valutazione del modo con cui l'attività edilizia si sia distribuita sul territorio regionale nell'arco dei cinquanta anni in esame.

L'enfasi sull'opera, a cui il registro delle architetture implicitamente non può sottrarsi, piuttosto che sul progettista (progettisti o gruppo di progettazione) è un'altra delle voci dell'inventario su cui è necessario un approfondimento. È solo una questione di ricerca anagrafica? Tutt'altro; l'individuazione delle fasce generazionali dei progettisti attivi nella regione va letta in relazione alla provenienza e ai luoghi di formazione, così come andrebbe sottolineato se una certa opera censita è, per caso, un'opera prima, ecc. Queste sono indicazioni che rendono più chiaro il fenomeno delle migrazioni, degli spostamenti, della scomparsa di alcuni nomi, magari per cause naturali, della formazione di veri e propri "domini" o aree di appartenenza, ecc. Sia ben chiaro: l'obiettivo non è costruire una storia dei localismi, quanto leggere la complessità del progetto di architettura, come risultato delle molteplici articolazioni che si stabiliscono, inevitabilmente, fra centro e periferia (articolazioni culturali, ambientali, socio-economiche, politiche, generazionali, linguistiche, ecc.).

Inoltre, ogniqualvolta i dati sui progettisti sono messi in relazione con i segmenti temporali, si arriva a rileggere anche il ruolo di alcune amministrazioni nell'affidamento degli incarichi, oppure si giunge a mettere in luce il peso dell'edilizia privata in alcuni periodi e in determinati ambiti territoriali. Queste osservazioni suggeriscono la necessità di avviare una ricerca sulle figure degli architetti, un dato questo da cui l'inventario non può prescindere.

Un altro criterio per la selezione delle opere è certamente quello bibliografico, vale a dire la presenza delle stesse nella letteratura nazionale e internazionale, e la loro ricorrenza nelle riviste specializzate. Anche in questo caso è necessario procedere su due binari: da una parte, selezionare rigorosamente la bibliografia di riferimento "primaria" (storie dell'architettura, dizionari, guide e altri inventari, opere monografiche, saggi specialistici), oltre a un significativo numero di riviste; dall'altra, riconoscere dignità anche a una letteratura "secondaria", spesso prodotta localmente, ma non per questo di minore qualità. Non si può negare, per esempio, il ruolo di mecenatismo di alcune istituzioni private (banche, fondazioni, ordini professionali, ecc.), che attraverso pubblicazioni di qualità hanno fatto conoscere opere o esperienze di architettura, altrimenti destinate a rimanere poco note.

Infine, affinché le notizie raccolte su ciascuna opera siano il più possibile complete, ossia il risultato dell'incrocio fra dati provenienti da fonti dirette (gli uffici delle amministrazioni, gli studi dei progettisti, ecc.) e dallo spoglio bibliografico, altre due fonti andrebbero prese in considerazione: l'ufficio statistico regionale e almeno una testata giornalistica, dando la preferenza a quella che abbia sempre mantenuto un forte legame con il territorio. A chiusura di questa riflessione mi interessa richiamare alcuni principi generali e indicare alcuni obiettivi a breve termine.

Quando, nei primissimi anni Novanta, George Kubler si interrogava su cosa gli storici potessero fare per gli architetti, pensava ancora a un ruolo di maître à penser, di mentore, e certamente non poteva immaginare che la nozione di patrimonio moderno avrebbe modificato il modo in cui gli storici interpretano e scrivono la storia dell'architettura contemporanea. In questo processo in cui cultura materiale e aspetti delle scienze antropologiche e sociali hanno ridisegnato l'evoluzione della storia dell'architettura del XX secolo, l'inventario delle opere moderne e contemporanee, in prima battuta strumento di conoscenza, assume il ruolo di strumento di interpretazione e pone fra le sue priorità la salvaguardia di alcuni di quei manufatti come patrimonio.

Se il punto di partenza è quello della storia come processo, l'inventario non può che appartenere a quello stesso processo e quindi non è mai esaustivo. Parimenti anche la selezione è per sua stessa natura parziale, così come i criteri di valutazione non possono non tener conto del valore oggettivo, come di quello soggettivo di un'opera. Infine, vale la pena ricordare che l'inventario è un repertorio di cose reali, di opere costruite per rispondere a un programma, alle esigenze di un luogo e della sua gente, ai desideri del progettista. L'inventario è la materializzazione di un universo che presenta molteplici connessioni, che va studiato in profondità, che va conosciuto e fatto conoscere, che va usato per conservare e valorizzare quei contenuti patrimoniali che sono una risorsa collettiva.

Che fare di un inventario mentre la ricerca è ancora in corso? Come evitare che esso resti una classificazione anodina, un elenco statistico, o ancor peggio una raccolta di stereotipi? In prima battuta, e ciò è possibile nel caso del lavoro fin qui svolto in Emilia-Romagna, si può aprire un sito web attraverso cui rendere pubblici gli elenchi, attivando un forum che permetta di valutare le ragioni e le finalità della selezione delle opere; costruire, sempre attraverso la rete, una serie di mappe tematiche e di itinerari virtuali che intreccino la storia dei luoghi e quella delle architetture selezionate; infine, agendo sulle amministrazioni e sulle istituzioni, promuovere una cultura della qualità dell'architettura, che sia una sfida lanciata dalla modernità all'età della globalizzazione.

 

Nota

(1) Quale e Quanta. Architettura in Emilia-Romagna nel secondo Novecento, a cura di M. Casciato e P. Orlandi, Bologna, IBC-CLUEB, 2005.

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