Rivista "IBC" XXI, 2013, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, interventi, pubblicazioni

Gli edifici realizzati negli anni del boom raccontano sequenze di adattamenti, modificazioni, valorizzazioni e successioni. Prima di interrogarci sul loro futuro, è il momento di iniziare a ricostruirne le vicende.
Storie di case, in prospettiva

Federico Zanfi
[architetto, ricercatore al Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di MIlano]

L'invito di Piero Orlandi a stendere queste note costituisce l'occasione per iniziare a condividere alcune riflessioni sul senso di un'esperienza di ricerca che mi ha coinvolto recentemente - riflessioni che finora erano state scambiate solo entro una cerchia piuttosto ristretta di amici e colleghi - oltre che per iniziare a interrogarmi su quali siano le prospettive di un percorso di ricerca che verso tale esperienza è molto debitore.

Storie di case è un'opera collettiva, che raccoglie 23 biografie di edifici e complessi residenziali costruiti tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento in tre grandi città italiane: Milano, Torino e Roma.1 Nasce all'interno di un programma di ricerca universitario per giovani ricercatori, dedicato allo studio delle architetture costruite dai - e per i - ceti medi nelle città italiane durante il boom edilizio del secondo dopoguerra.2 Quello che nel volume viene posto sotto osservazione è un patrimonio di edifici ordinari, molto rilevante sia sotto l'aspetto quantitativo (lo stock edificato in quegli anni costituisce ancora oggi circa la metà dell'edificato complessivo di molte città italiane) sia sotto l'aspetto sociale (a quella fase di esplosione edilizia e al raggiungimento della proprietà dell'abitazione è intimamente legata l'affermazione dei ceti medi nel nostro paese), un patrimonio tuttavia poco esplorato, se non del tutto trascurato, dagli studi sulla storia dell'architettura e della città.

Senza soffermarmi qui sulle ragioni di questa rimozione,3 vorrei provare a riflettere sulla scelta metodologica attraverso la quale Storie di case ha proposto ai suoi lettori di iniziare ad avventurarsi all'interno dell'immenso patrimonio edilizio del boom. O, detto in altre parole, vorrei provare a riflettere sul perché valga la pena di ricostruire, oggi, storie di edifici. Una domanda a cui, a mio avviso, si possono far seguire due considerazioni.


In primo luogo, la ricostruzione della storia di un edificio richiede di tenere insieme uno sguardo retrospettivo, che cerca di far luce su elementi collocati nel passato (come la fase di progettazione o il cantiere) con un'attenzione rivolta al presente o al passato recente, che va a osservare le pratiche abitative e le trasformazioni a noi contemporanee o cronologicamente più vicine. Due tipi di sguardo che, volendo semplificare un poco, sono stati spesso esercitati in modo disgiunto: da un lato il canonico approccio mantenuto dallo storico dell'architettura, che racconta un edificio attraverso il suo progetto, e raramente si interessa a ciò che accade dopo che la costruzione è stata ultimata; dall'altro lato l'indagine sul campo praticata da architetti e urbanisti, attenti a una fenomenologia di pratiche d'uso e di trasformazioni spaziali tutta collocata nel presente.

Scrivere la storia di un edificio non soltanto richiede di non separare questi due registri, ma di praticarli insieme. Richiede di riflettere sull'esito, misurato all'oggi, di certe scelte progettuali o di certe soluzioni costruttive adottate quando l'edificio è stato concepito e costruito; di leggere e interpretare alcune pratiche abitative emergenti alla luce dei processi di cambiamento sociale e urbano che si sono dispiegati in un arco temporale più lungo; soprattutto richiede di non ridurre un oggetto dinamico, quale è un edificio, a una descrizione riferita a un'unica soglia temporale - o a una serie di soglie - ma piuttosto di restituire un processo, di restituire il farsi di un frammento di città, comprendendo tanto la sua costruzione materiale quanto una sua continua evoluzione sotto l'influenza degli abitanti e delle più ampie dinamiche di trasformazione urbana, sociale, culturale. Lungo questa linea di evoluzione, ci si potrà poi domandare cosa ne potrebbe essere, in un futuro prossimo, di questo frammento di città, scoprendo allora di avere a disposizione qualche elemento in più rispetto sia allo storico, sia a chi si è arrestato all'indagine della sua condizione presente (ma su questo punto ritorneremo più avanti).


In secondo luogo, la ricostruzione della storia di un edificio permette di ragionare sui molteplici soggetti che hanno avuto un ruolo nella sua costruzione e nella sua trasformazione, e di rileggerne insieme i diversi tipi di lascito. Implicita, in questo approccio, è un'idea dell'architettura quale oggetto sociale complesso, oggetto il cui racconto dovrebbe essere non solo un racconto di spazi, ma anche un racconto delle forze che stanno dietro la loro edificazione e la loro modificazione nel tempo. In questa prospettiva, Storie di case ha tentato di mettere al lavoro un gruppo multidisciplinare, e ha proposto un registro narrativo a più piani, tessendo parole e immagini, voci d'individui e documenti d'archivio, frammenti di cronaca e letteratura disciplinare, fotografie d'autore e istantanee amatoriali.

Che esperienza ci consente, tenendolo tra le mani, il prodotto di questa articolata operazione di montaggio? I disegni tecnici provenienti dagli archivi pubblici e professionali ci mostrano gli spazi costruiti: planimetrie generali di complessi residenziali, piante e sezioni di ambienti abitabili. Con i loro timbri, le loro annotazioni e correzioni a margine delle eliografie, questi disegni ci parlano anche di un percorso burocratico e di un ruolo d'indirizzo e negoziale svolto dai tecnici comunali, un ruolo che è stato tanto decisivo per la definizione di questi manufatti quanto del tutto trascurato dagli studiosi della città.

Le voci delle persone, raccolte attraverso interviste, ci permettono poi di incrociare le storie degli edifici con le parabole imprenditoriali e le vite individuali: sono voci di costruttori, venditori, abitanti vecchi e nuovi, frequentatori assidui o occasionali delle case, appartenenti a diverse generazioni, ciascuno col proprio tono colloquiale. Ci raccontano di quanto sia stato centrale il tema della casa - la sua costruzione, la sua proprietà, la sua valorizzazione - nelle vite della generazione che ha ricostruito e abitato l'Italia dopo il secondo conflitto mondiale.

Gli opuscoli pubblicitari, le brochure promozionali e gli annunci commerciali usciti dagli archivi privati ci consentono poi di osservare l'edificio studiato in rapporto agli stili di vita e ai modelli di consumo che andavano affermandosi in quegli anni. Stili di vita fissati anche da alcune fotografie provenienti dagli album di famiglia, che ci mostrano come quelle stesse pareti domestiche fossero la scena dei momenti di tempo libero, le feste, le riunioni famigliari.

Uno sguardo fotografico contemporaneo, infine, ritrae le case dall'esterno e dall'interno, ne mostra la materialità, lo stato di conservazione.4 Ma soprattutto registra come i loro spazi siano oggi occupati da una serie di oggetti e di pratiche certamente non prevedibili al momento della costruzione. Ci parlano quindi di un diffuso ma non sempre semplice processo di adattamento, che tenta di ottenere il massimo dallo sfruttamento dell'esistente, e di far accomodare nuove esigenze in spazi ereditati.


Nel lavorare a questa operazione di montaggio, ma soprattutto nell'entrare dentro le case a fianco di Stefano Graziani - fotografo con cui avevo già una consuetudine di collaborazione, e che nell'ambito di Storie di case si è occupato degli edifici milanesi, che a me è toccato seguire più da vicino - maturavo un pensiero riflessivo e andavo paragonando il lavoro che stavamo conducendo ad altre esperienze di ricerca, nel cui solco mi ero formato e che avevano costituito per me dei modelli di riferimento. In particolare, paragonavo il nostro lavoro alle ricerche sull'urbanizzazione diffusa, che negli anni Novanta avevano visto numerosi studiosi produrre altrettante letture di diversi contesti insediativi italiani, e che avevano in un certo senso codificato uno stile narrativo ben riconoscibile.

Quelle esperienze avevano proposto un abbinamento stretto tra il testo e l'immagine, tra la parola e la fotografia. Alla base di tale abbinamento vi era una ragione precisa, ben nota e dichiarata: a spingere ad adottare altri tipi di sguardo era l'insufficienza delle tradizionali modalità di rappresentazione dell'urbanistica - come del suo punto di vista zenitale e distante - all'atto di descrivere i materiali edilizi e le regole insediative che caratterizzavano le nuove forme di urbanizzazione. In quel particolare contesto, la fotografia funzionava molto bene (talvolta gli autori delle immagini erano gli stessi ricercatori, talvolta erano fotografi che affiancavano gli urbanisti nell'indagine sul campo), poiché consentiva di registrare praticamente in tempo reale l'apparire dei "nuovi fatti urbani", di campionarli, di dargli un'evidenza visiva che con l'utilizzo della sola carta tecnica non si sarebbe potuta ottenere.

Così fa per esempio Edoardo Marini nelle fotografie che illustrano il volume Il Territorio che cambia sulla regione urbana milanese. Così fa Gabriele Basilico nelle Sezioni di paesaggio italiano che presenta insieme a Stefano Boeri alla Biennale di Venezia. Così fanno Sisto Giriodi, nel suo Atlante sul territorio del Piemonte, Guido Guidi, accompagnando lo studio sull'area centrale veneta di Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi, e Chiara Merlini, nel suo studio Cose/viste sull'urbanizzazione nelle valli marchigiane. Al netto delle flessioni stilistiche che gli autori conferiscono di volta in volta alle immagini, a me sembra che in buona sostanza, durante quella stagione di ricerche, al fotografo, o all'urbanista fotografo, bastasse dire che quegli edifici stavano lì dove lui li rappresentava. È la loro presenza, la loro posizione e la loro forma architettonica, la novità che merita di essere registrata, ciò che in quel momento - in una fase di forte crescita di quelle nuove forme urbane - è importante testimoniare.

Se torniamo a visitare oggi gli stessi territori, se torniamo a passeggiare tra i filamenti urbanizzati di case di famiglia e di capannoni industriali (ed è quello che Stefano Graziani e io abbiamo iniziato a fare negli ultimi anni, dapprima in alcuni ambienti insediativi costieri nel Mezzogiorno, poi in diversi distretti al Centro-Nord)5 il paesaggio apparentemente non è cambiato. Tutti quei manufatti stanno ancora al loro posto. Certo, qualche insegna è stata sostituita, l'intonaco è talvolta sbiadito, si nota un po' d'erba non tagliata nei giardinetti di alcune villette o palazzine di uffici, ma sostanzialmente quello che ci raccontavano le fotografie delle ricerche che abbiamo richiamato è quasi esattamente quello che potremmo raccontare noi, se scattassimo le stesse immagini oggi, negli stessi luoghi.

Il fatto significativo, però, è quel paesaggio sta cambiando, ma non dal di fuori. Sta cambiando dal di dentro. Sta cambiando nelle preferenze e nelle pratiche abitative della società che lo ha costruito, nelle sue risorse individuali e nei modelli di consumo, nei modi e nei luoghi del produrre. Sono - per riportare soltanto due esempi banali - i due coniugi anziani che ormai abitano la loro casa isolata solo al piano terra, per risparmiare sul riscaldamento, e non prendono più neppure in considerazione l'idea di fare manutenzione all'edificio. È la piccola o media azienda che ha portato la produzione in qualche paese a basso costo del lavoro - o che ha chiuso i battenti, per la concorrenza di qualche paese a basso costo del lavoro - e non riesce a valorizzare il suo capannone, una banale scatola prefabbricata con un'accessibilità non ottimale, perché non c'è più alcuna domanda per questo genere di spazi.6

Come lo colgo questo cambiamento? Certamente non soltanto rimanendo all'esterno dell'edificio e scattando una fotografia, ma forse neppure attraverso il ridisegno più analitico dei volumi costruiti. Oggi, a mio avviso, per capire come stanno cambiando i territori dell'urbanizzazione diffusa - ma il discorso potrebbe valere per tutti quei settori della città contemporanea che si trovano ormai a fare i conti con trasformazioni non più appartenenti alla stagione della crescita, non più additive - è richiesta una strategia descrittiva diversa, una strategia che probabilmente richiede uno sforzo maggiore. Oggi a mio avviso è necessario entrare dentro gli edifici e osservarli dall'interno, ascoltare le storie individuali, ricostruire le vicende richiamando e mettendo al lavoro una molteplicità di fonti, di immagini, di voci, di oggetti. Se rimango all'esterno, la dimensione del cambiamento non la colgo più.


Ecco, dunque, che torniamo alle storie. È attraverso la ricostruzione delle storie degli edifici che, a valle della stagione della crescita, possiamo forse tornare a cogliere un mutamento che non ha quasi più una dimensione quantitativa, e che pervade tutti quegli oggetti che proprio la lunga stagione della crescita aveva lasciato sul territorio. Un mutamento che oggi riguarda modi d'uso, valori immobiliari, modelli culturali e di consumo, dinamiche di avvicendamento e trasmissione ereditaria tra generazioni. Se questo è l'orizzonte della trasformazione, forse è proprio attraverso la ricostruzione di biografie di edifici che diventa possibile non solo accendere una luce sulla loro condizione presente (cosa che già molti di noi hanno imparato a fare) ma soprattutto rimettere questo presente in tensione con le dinamiche di medio e lungo periodo che lo hanno generato, e da qui immaginare plausibili traiettorie di trasformazione.

Le storie delle case costruite negli anni del boom, con la loro parabola lunga ormai cinque decenni, ci raccontano di un'articolata sequenza di adattamenti, modificazioni, valorizzazioni, successioni. La descrizione prospettica di questi processi è a mio avviso il primo e imprescindibile passo per riuscire a formulare progetti e politiche che su questo patrimonio edilizio possano innestarsi in modo fertile: incontrando le predisposizioni diffuse nei proprietari e attivando le risorse residue in una direzione sensata. Lo stesso vorremmo poter dire - e questo è un campo ancora tutto da esplorare - di quella moltitudine di oggetti, suoli e tessuti edificati che oggi nel nostro paese si mostrano in una condizione incerta, senza più un uso e apparentemente senza una prospettiva. Prima di interrogarci sul loro futuro, prima di formulare strategie di riuso, è forse il momento di iniziare a ricostruire le loro storie.


Note

(1Storie di case. Abitare l'Italia del boom, a cura di F. De Pieri, B. Bonomo, G. Caramellino e F. Zanfi, Roma, Donzelli, 2013.

(2) Il programma Firb-Futuro in Ricerca "Architetture per i ceti medi nell'Italia del boom. Per una storia sociale dell'abitare a Torino, Milano e Roma" ha coinvolto ricercatori dei politecnici di Torino e Milano e dell'Università La Sapienza di Roma. Per informazioni sulle diverse attività svolte nell'ambito del progetto: www.middleclasshomes.net.

(3) Lo fa Filippo De Pieri nel suo testo Storie di case: le ragioni di una ricerca, che introduce il volume.

(4) I fotografi che hanno collaborato alla ricerca Storie di case sono Michela Pace, Fabio Severo e Stefano Graziani; quest'ultimo è anche l'autore del saggio fotografico che apre il volume, oltre che delle immagini che accompagnano queste note.

(5) Alcuni primi esiti di queste perlustrazioni si trovano in: F. Zanfi, Città latenti. Un progetto per l'Italia abusiva, Milano, Bruno Mondadori, 2008; F. Zanfi, Dopo la crescita: per una diversa agenda di ricerca, "Territorio", 2010, 53, pp. 110-116; F. Zanfi e S. Graziani, Un adeguarsi difficile. Appunti sul cambiamento degli spazi produttivi in Brianza, in A. Lanzani, A. Alì, D. Gambino, A. Longo, A. Moro, C. Novak e F. Zanfi, Quando l'autostrada non basta. Infrastrutture, paesaggio e urbanistica nel territorio pedemontano, Macerata, Quodlibet, 2013, pp. 206-215.

(6) Alcune prime riflessioni su questi fenomeni si trovano in: A. Lanzani e F. Zanfi, Piano Casa. E se la domanda fosse quella di ridurre gli spazi?, "Dialoghi internazionali - Città nel Mondo", 2010, 13, pp. 126-145; F. Zanfi, I nuovi orizzonti della città diffusa. Dinamiche emergenti e prospettive per il progetto urbanistico, "Urbanistica", 147, 2011, 147, pp. 100-107

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