Rivista "IBC" XXI, 2013, 1
Dossier: Ospitiamo la cultura
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
Il ciclo delle grandi esposizioni ai Musei San Domenico, realizzate in sette anni dalla Fondazione della Cassa dei risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì, costituisce un vero e proprio progetto culturale elaborato dalla fondazione sulla città e l'insieme del territorio di competenza, che annovera altri sedici comuni del comprensorio forlivese. Nel 2005 siamo partiti con "Palmezzano e il Rinascimento nelle Romagne", poi in questi anni abbiamo realizzato mostre sui Macchiaioli, su Cagnacci, Canova, Melozzo... fino all'esposizione in corso fino alla metà di giugno del 2013: "Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre".
Andrebbero ricordati anche molti altri appuntamenti estivi e autunnali, o collegati con le grandi esposizioni, realizzati nello stesso periodo su un territorio più vasto che abbraccia l'intera provincia di Forlì-Cesena e quella di Ravenna: la mostra fotografica "Le terre del Palmezzano" (che ha interessato, nell'estate del 2006, i comuni di Cesenatico e Sarsina); "I disegni di Silvestro Lega" a Modigliana, durante la mostra forlivese. E poi "Maceo, gli anni romani (1933-1944)"; e "L'arte della Pubblicità, il manifesto italiano e le avanguardie (1920-1940)", nell'autunno del 2008 presso i Musei San Domenico. Quest'ultima mostra, esposta a Villa Torlonia, a Roma, nella primavera del 2009, denota anche la capacità di realizzare un prodotto culturale condivisibile su un piano nazionale. "L'officina neoclassica. Dall'Accademia dei pensieri all'Accademia d'Italia", realizzata a Palazzo Milzetti di Faenza nel 2009 durante la mostra canoviana. Per finire con "Giuseppe Palanti", ospitata ai Magazzini del sale di Milano Marittima nella primavera-estate del 2012, in occasione del centenario di fondazione di quella cittadina.
Ma le grandi mostre al San Domenico rappresentano un ciclo unico, piuttosto unitario, sia per la tipologia, sia per il metodo. Il modello inaugurato alla fine del 2005, in un binomio pressoché inscindibile con il ristrutturato complesso di San Domenico, ha superato il severo collaudo della critica e del pubblico: con l'esposizione dedicata a Wildt, in sette anni, si sono complessivamente superati i seicentomila visitatori. Mentre le altre esposizioni minori hanno sfiorato complessivamente le novantamila presenze.
Le mostre sono state lo strumento per rispondere a una domanda: come riscoprire l'identità storico-culturale della città e del suo territorio al di fuori di una chiave di lettura meramente provinciale? Come individuare una pratica dell'identità che non fosse localistica? E, così facendo, come proiettare l'immagine della città e del suo territorio in una dimensione nazionale? Certo si potevano organizzare eventi o ricerche (era stato fatto, e bene, in passato), si potevano individuare narrazioni specialistiche, conservare e ordinare la propria memoria, la propria storia, ma i risultati già ottenuti non avevano oltrepassato l'interesse del pubblico locale o di qualche singolo specialista.
L'idea stessa di mettere mano al restauro del complesso monumentale del San Domenico, trasformata dalle amministrazioni comunali in progetto e in concreta realizzazione a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, era innovativa ma fortemente rischiosa, perché sovradimensionata rispetto al solo bacino di utenza di una città come Forlì, se non si fosse limitata all'originale progetto del trasferimento della Pinacoteca civica.
Da una parte l'impianto specialistico locale, dall'altra, come facevano già molte città, l'avventura dell'evento consumato in fretta, organizzato come prodotto puramente commerciale. La lezione delle grandi mostre scientifiche del trentennio Sessanta-Ottanta del Novecento, in genere elaborate da grandi musei e dalle rispettive sovrintendenze, aveva lasciato il vuoto, anche per il progressivo venir meno dei finanziamenti statali alla cultura museale e per la progressiva scomparsa di una generazione di grandi critici.
Ci siamo domandati se ci fossero uno spazio e una via diversi dall'attualità, che riprendessero la lezione di quel passato, e l'idea di inaugurare il San Domenico restaurato con una grande mostra ci ha fornito l'occasione per un tentativo. Quando nell'ottobre del 2005, con Antonio Paolucci, decidemmo di cambiare nome alla mostra di Palmezzano - che nella pubblicità precedente aveva un titolo diverso, dedicato alla città di Forlì - e lo inquadrammo nell'ambito più ampio del Rinascimento, imboccammo una strada nuova. Una strategia compiutamente messa a punto con la mostra su Silvestro Lega: prendere un argomento di riferimento in certo modo locale, un autore che aveva avuto a che fare con queste terre e la loro storia, o un'opera particolarmente significativa, e produrre una narrazione in chiave più generale, inserendo lo studio particolare, specifico dell'autore o dell'opera, in un processo artistico e culturale più ampio, facendone un'occasione per leggere non solo quell'autore o la sua opera, ma la trama di relazioni della sua arte e della storia culturale che lo aveva contaminato.
Non si doveva esaltare quell'artista, rivendicandone la gloria locale, ma guardarlo per così dire dall'universale. Bisognava rovesciare il cannocchiale. Analogamente doveva accadere per il pubblico: dovevano essere gli altri a guardare verso Forlì, a venire a Forlì, a scoprire una città, i suoi capolavori, la sua storia.
E dunque: il venetismo gentile di Marco Palmezzano, così belliniano, ma anche la sua contaminazione disegnativa con l'Umbria di Perugino e la vicina Toscana, le sue architetture romane che per lungo tempo influenzarono le Romagne, dalla pittura ai decori architettonici. Non solo. Dire Palmezzano significava chiamare in causa la civiltà italiana del XV e XVI secolo, non solo un territorio.
Poi Silvestro Lega modiglianese. Lega è la sua storia, il suo destino infelice, ma racconta anche il vasto movimento pittorico dei "Macchiaioli", il punto più alto del rinnovamento della pittura italiana a metà dell'Ottocento, rinnovamento profondo e antico, così sottilmente contagiato dal Quattrocento toscano. Bisognava allora fare vedere, mostrare - ed era la prima volta, da quando Emilio Cecchi lo aveva messo per iscritto una volta per tutte, nel 1924 - la comparazione formale tra Lega e Beato Angelico, tra Fattori e le predelle di Paolo Uccello, tra Borrani, Zandomeneghi e Ghirlandaio.
E poi Cagnacci. Con lui si doveva andare al cuore del Seicento fra il naturalismo di Caravaggio e il classicismo di Reni, scoprendo una Forlì a mezza strada tra Roma e Venezia, tra Rimini e Vienna. Bisognava salire nel gran teatro del Barocco e nella rappresentazione già moderna delle passioni e degli affetti. Non a caso sarà l'Ottocento di Hayez a riprenderne la lezione.
Poi Canova. E con lui rileggere l'età della Rivoluzione e della Restaurazione, ripensare quella relazione tutta italiana, foscoliana e leopardiana, tra classicismo e romanticismo. Perché Canova in fondo è entrambe le cose e Forlì poteva riscoprirsi città canoviana per le importanti opere che qui vi aveva lasciato (dalla quarta e ultima versione dell'Ebe, alla tomba per il conte Manzoni, alla Danzatrice col dito al mento), per i contatti epistolari riscoperti e pubblicati, tra Cignognara e il conte Albicini, per il ruolo svolto dal suo segretario, il forlivese Melchior Missirini.
Il tentativo di un'esposizione antologica intorno alla Fiasca fiorita, eccezionale quadro degli anni Trenta del Seicento, di mano ignota, ma non di un fiorante, bensì di un grande pittore di figura, ha caratterizzato la mostra successiva. Ne è nato un confronto: a partire dalla lezione caravaggesca che vuole eguale abilità pittorica nel dipingere "un quadro buono" di fiori come di figura, abbiamo messo a confronto due secoli, il Seicento e l'Ottocento, intorno al tema della natura silente e al simbolismo delle cose. Ma con opere eseguite da pittori di figura. Oggi la Fiasca - famosa, prima, solo tra gli specialisti - è un'opera molto richiesta tra i principali musei nazionali e internazionali, e i visitatori delle nostre mostre continuano a cercare nella Pinacoteca civica i teleri di Cagnacci, come l'Ebe di Canova.
Con Melozzo da Forlì, inquadrato nella civiltà prospettica del Quattrocento che con Piero della Francesca è divenuta una concezione dell'uomo, abbiamo indagato il ruolo profondo del pittore nella vicenda artistica che risolve nell'umana bellezza - fatta di misura, di dignitas, di luce e colore - il sogno dell'umanesimo. Quel sogno trova in Raffaello, attraverso le forme illusionistiche di Melozzo e la sua dolcezza figurativa, l'idealizzazione finale.
Con la mostra dedicata ad "Adolfo Wildt. L'anima e le forme tra Michelangelo e Klimt", siamo entrati nel Novecento. Al secolo abbiamo dedicato un biennio che vede nell'attuale esposizione una prima conclusione. Wildt è forlivese per la committenza e per la quantità e qualità di opere consegnate, attraverso la famiglia Paolucci, alla città. Con il suo eclettismo storico - ispirato dalla scultura fidiaca e da Canova, dalla scultura etrusca e da Michelangelo, così come dalle figure di quel particolare Rinascimento rappresentato da Tura, Bramante, Bramantino - egli innova le forme dell'anima, viviseziona i corpi, traduce in materia l'inquietudine di un tempo che s'appressa come tragico. Il Musée d'Orsay ha chiesto di poter realizzare a Parigi, nel 2015, una mostra su Wildt che riprenda i capisaldi di quella forlivese: una richiesta che, forse, è il riconoscimento migliore per un lungo e rischioso lavoro.
Per un progetto come questo avevamo bisogno di un gruppo scientifico di riferimento, fatto di intellettuali di grande esperienza, disponibili al confronto, non chiusi nella ripetizione delle loro certezze, così come volevamo che si aprisse un confronto tra generazioni di studiosi. Abbiamo quindi modulato, volta a volta, in base al progetto da realizzare, gruppi di lavoro che avessero quelle caratteristiche. Lo abbiamo fatto insieme al professore Antonio Paolucci, chiamando all'opera Fernando Mazzocca, Daniele Benati, il compianto Stefano Tumidei, Carlo Sisi, Giuliano Matteucci, Mauro Natale, Frank Dabell, Alessandro Morandotti, Paola Mola, Nicoletta Colombo, Paola Maino, con la nuova generazione dei Gennaro Toscano, Francesco Leone, Marcello Toffanello, Stefano Grandesso, Anna Villari, Gerardo de Simone, e molti altri.
Se tutto questo rispondeva all'esigenza di non cedere alla consumazione veloce di un evento, seppure realizzato in chiave rinnovata, occorreva tuttavia avere anche il consenso del pubblico. Qui la sfida non era minore. Anzi! Perché Forlì era del tutto ignorata dal turismo culturale, e particolarmente sfavorita dal punto di vista geografico, dal flusso turistico generale.
Il turismo è una delle forme più spettacolari dell'ideologia del presente, vive dell'evidenza e dell'immediatezza. Trasformare Forlì in una città d'arte intorno a un evento sembrava a molti, e ragionevolmente, un'impresa impossibile e inutilmente dispendiosa. Oggi, con l'ausilio di alcune ricerche, possiamo dire che, per ogni euro investito, al territorio ne sono ritornati, in media, 2,2.
Abbiamo lavorato molto sul piano della comunicazione e sull'integrazione della città e del suo territorio, mettendo insieme l'asse del mare con la parte dell'entroterra. Abbiamo accreditato le esposizioni presso i grandi musei italiani e abbiamo raccolto le energie culturali e ambientali. La Fondazione ha instaurato una serie di rapporti e di collaborazioni con gli enti locali e le loro istituzioni: scuola e università, associazioni culturali, associazioni di categoria, albergatori locali e della riviera, aziende agricole, per connettere il tema dello sviluppo culturale e dello sviluppo territoriale. Le iniziative culturali collegate e collaterali alla mostra sono state oltre 200 nei sette anni trascorsi, 17 i volumi pubblicati.
Ripensando a questo percorso, né breve, né lungo, ma già consistente, capita talora di provare come un disturbo della memoria. Freud racconta di avere provato una qualche meraviglia visitando personalmente il Partenone, insieme al fratello e a un amico, dopo avere a lungo letto sui libri della sua esistenza. Come se non ci volesse credere. "Ma allora è vero!". Anche noi facciamo ancora fatica a immaginare che sia vero quel poco che abbiamo realizzato.
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