Rivista "IBC" XVI, 2008, 1

musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni

Sconveniente, mistico, inafferrabile, anticipatore: l'esposizione monografica su Cagnacci restituisce i tratti inquieti di un protagonista del Seicento.
Modernissimo Guido

Elisabetta Landi
[IBC]

È una grande mostra, sontuosa, emozionante, l'esposizione che dal 20 gennaio al 22 giugno 2008 Forlì dedica a "Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni". Grande per la qualità delle opere presentate, ma, soprattutto, per la formidabile rassegna dei dipinti che si susseguono nelle sale dei Musei di San Domenico a illustrare lo scenario nel quale si mosse il pittore, che fu primo attore, e non comprimario, accanto ai maestri più famosi del secolo barocco. Questo era l'azzardo critico, un doveroso "azzardo", avviato dai curatori, Daniele Benati e Antonio Paolucci.1 Non si era mai vista prima d'ora, nella città romagnola, una simile parata di capolavori: una panoramica sul Seicento, e specialmente romano, perché, accanto alle tele del Cagnacci, di Reni, del Guercino, sfilano nel percorso espositivo quadri del Caravaggio, di Orazio e di Artemisia Gentileschi, di Lanfranco, di Vouet, di van Honthorst e molti altri (www.guidocagnacci.com).

Una carrellata lungo la produzione di un grande secolo, raccontato nelle sue diverse espressioni: prima di tutto la Romagna, la "provincia sincera" della piccola ma intensa mostra del 1952 con la quale Francesco Arcangeli dimostrò che quel territorio non fu marginale se vi attecchirono i germi del naturalismo caravaggesco; poi la riscoperta monografica del 1993, sempre a cura di Daniele Benati, e le splendide "Storie Barocche" raccontate a Cesena nel 2004 in contemporanea al riminese "Seicento inquieto",2 mostre alle quali si richiama la sezione sui romagnoli: Serra, Savolini, e un sorprendente Biagio Manzoni, tanto moderno da sembrare Courbet. E insieme alla Romagna anche Roma e la Toscana, perché per Cagnacci, sintesi potente del Seicento europeo, era impossibile il riferimento a un centro solo; così ecco arrivare a Forlì tele straordinarie, a testimoniare della vicenda figurativa tumultuosa culminata nel Centro-Italia. A Roma, Guido mise a punto il suo stile, maturato attraverso una serie di esperienze che lo portarono, oltre che a Bologna e nella capitale, fino a Venezia e poi a Vienna, dove morì nel 1663. Una vita nomade, in compagnia di giovani modelle che lo seguivano in vesti da uomo. Del resto, animo inquieto e per questo moderno, litigioso e capace di emozioni violente, esordì con un rapimento, una fuga e una messa al bando. Guido Cagnacci era un caratteraccio, e se fu alla scuola di molti, non diventò mai discepolo di nessuno.

Nato a Santarcangelo nel 1601, figlio di un conciapelli e messo per il comune di Casteldurante, si recò a Bologna, presso il nobiluomo Girolamo Leoni (1618-1621) per aggiornarsi alle scuole pittoriche più rinomate; poi soggiornò a Roma, in due momenti (1621-1622), e questa volta in casa del Guercino. In via del Babuino, la strada degli artisti, combinò poco o nulla, e preferì imbrancarsi con gli stranieri che frequentavano le osterie. Tuttavia, al suo rientro, gli esiti di questa esperienza si fecero sentire, perché le opere prodotte per Rimini (nella chiesa di San Giovanni Battista e in quella del Gesù) e per il circondario (Saludecio, Santarcangelo, Urbania), senza contare la successiva produzione per Forlì, innestarono nel territorio la cultura romana, quella fisicità vigorosa e quel senso della materia nei quali si traduceva il naturalismo dei caravaggeschi: la pennellata pulsante di Borgianni e del ticinese Serodine, il luminismo di Vouet, rappresentato in mostra dall'impressionante Tentazione di San Francesco, i notturni degli anticlassici fiamminghi ma anche l'erotismo malinconico di Furini, oltre alla lezione di Giovanni Lanfranco. Elementi che corroborarono la sua formazione, in aggiunta agli esempi marchigiani di Gentileschi e del Fossombrone e, per l'Emilia, di Guercino e prima ancora di Ludovico Carracci. Poi il confronto con il classicismo, Reni, Gessi, Cantarini, ed ecco che il suo linguaggio si fa più colto, e si piega alle implicazioni letterarie dell'ambiente bolognese. È un salto di qualità, incrementato dal soggiorno a Venezia (1649), quando ibrida in uno stile personalissimo e sicuro la pittura tra Reni e Caravaggio; uno scatto significativo, quindi, per lui stesso come pittore, ma anche per l'area romagnola, che accede per la prima volta a un primato nazionale ed europeo.

Difficile, però, classificare Cagnacci, parlare di naturalismo, di barocco o di classicismo, perché lui, artista inafferrabile, contamina, disarticola i diversi stili per crearne uno suo, e per questo è veramente moderno, e in certi casi addirittura sconcertante. Senza precedenti - ma vale solo come esempio tra i tanti - è Il Miracolo di San Giovanni Evangelista (Rimini, Fondazione Cassa di risparmio, 1640), dove il classicismo di Guido Reni sterza nell'esito trobadour della figura del paggio, facendo antivedere l'Ottocento dei Nazareni; oppure si pensi all'invenzione originalissima e audace della Maddalena portata in cielo nelle versioni di Monaco (1640) e di Firenze (1642), con quell'intrico di gambe "sconveniente" dove non sai dove finisce la figura della santa e dove invece è l'angelo che si libra in volo: una prova, oltretutto, di quanto fosse gratuita l'accusa di non saper raffigurare i piedi, mossagli dal maldicente Liberi. Qui, anzi, il pittore forza all'iperbole il naturalismo, fino a una completa "incarnazione del soggetto" (Brogi) che vorremmo avvicinare agli esiti più suggestivi della pittura spagnola. E sono estranei ai turbinii della decorazione barocca i quadroni per il tamburo della cappella della Madonna del Fuoco (Forlì, Pinacoteca civica, 1642), visti con la "spericolata macchina da ripresa" del pittore che gioca tra campi sfocati, lunghi e nitidissimi primi piani (Arcangeli). È qui, da questa prospettiva, che bisogna guardare Cagnacci.

"Ci sono quadri dalla cui altezza si può vedere un secolo. Sono come avamposti, torrette sopraelevate. Entri nel dipinto, ti affacci e guardi nello spirito del secolo, nella sua ideologia, nei suoi valori" (Paolucci). Luogo privilegiato per cogliere l'anima del tempo, oltre che del pittore, è la pala con I santi carmelitani (Rimini, San Giovanni Battista, 1629 circa): pezzo forte dell'esposizione, opera emozionante, capolavoro che si solleva "ad altezze da non temere confronti con la pittura del secolo" (Arcangeli). Qui più che altrove, complice una qualità che si percepisce altissima, l'artista esibisce il suo stile e ci offre, in aggiunta, non soltanto il vero visibile, la cinematografia del mondo svelato dalla luce, ma l'invisibile, il "vero" travolgente, quello che sta dentro di noi, nel cuore e nel "ventre". In altre parole, la modernità. Perché il Seicento, afferma Paolucci nell'introduzione al catalogo, "è già il nostro tempo intellettuale, spirituale ed emotivo", "l'epoca che ha intuito, con Galileo, l'infinitudine dei cieli e, con Shakespeare, gli insondabili abissi dell'animo umano; che ha sperimentato, con i suoi grandi mistici, il 'silenzio di Dio' e il naufragio dell'Assoluto; che ha inventato il romanzo moderno con Cervantes e il 'recitar cantando' con Monteverdi"... e che ha anticipato il cinema portando, con Caravaggio, "il dramma della luce e l'urgenza del vero dentro la figurazione".

Così, non soltanto Cagnacci fu un naturalista, ma lo fu due volte, perché seppe ritrarre il vero emotivo oltre a quello fisionomico, o, in altre parole, raffigurare l'anima attraverso il corpo. L'anima che in questo caso traspare nell'estasi "tremenda della Santa Teresa svenuta, più spettacolare della Vergine morta del Caravaggio" (Arcangeli). Non si dimentichi, come ha osservato il Milantoni, quanto sia centrale nell'ispirazione poetica del Cagnacci l'ordine carmelitano, con i modelli della spiritualità dei padri del deserto e dell'ascesi estrema, proposti alla devozione popolare: un prodigioso viaggio nell'universo del corpo, e un abbandono al tema della grazia, che si legge, per esempio, nella Processione di Saludecio (Museo del Beato Amato, 1627-1628), che non ha nulla da invidiare a Vouet e Gentileschi. Nel dipinto, tanto innovativo da richiamare il devozionalismo dell'Ottocento, Cagnacci ferma l'azione sul fotogramma di un cavaliere inginocchiato, e lascia alla proprietà analitica del lume di scegliere il personaggio, anche se marginale, e di eleggerlo, costringendolo "a uscire" dal raggio che raggiunge la sua coscienza. Il tema della conversione, caro alla religiosità del tempo, percorre tutta la sua produzione, e regge quel teatro interiore, quel dialogo tra anima e corpo al quale i curatori della mostra hanno dedicato una sezione.

Protagoniste di questa sezione, le donne: sono loro, le eroine dipinte dal pittore, a essere investite di questo soffio lirico e teatrale. Donne tra terra e cielo, radicate alle emozioni ma protese alla tensione estatica. Dall'infinità dell'anima all'infinità dei cieli, che era il percorso di affondamento in Dio della mistica, e soprattutto di quella femminile, che nel Seicento conobbe uno dei suoi periodi più intensi. Sulla presenza muliebre ossessiva, nella produzione di Guido Cagnacci, molto è stato scritto, e non giovò alla sua fortuna la definizione di "sensualista" con la quale lo isolava Longhi, liquidandolo come un artista privo di conseguenze. Forse, si potrebbe dire, i tempi non erano maturi. Ma oggi lo sono, e se dai quadri del romagnolo si può monitorare un panorama storico e culturale, qualcosa in più si legge, nella presenza di tante "belle". Certo, nelle cleopatre morenti, nelle maddalene, Guido "è erotico nel senso letterale del termine", e traduce il dramma delle passioni umane nel senso sottile di un corpo percepito come "centro di emozioni". È vero che il nudo muliebre diventa prevalente, nella sua produzione; soprattutto a Venezia (1649), città libera e di aperto pensiero, orientata ai quadri da stanza di piacevole soggetto, ma che alienarono all'artista i favori della Chiesa: si vedano le languide "maliarde" sui seggioloni "finto-Cinquecento di pelle rossa" (la suggestione è di Alberto Arbasino), o, forse, anche i dipinti di significato allegorico come la seducente Astrologia sferica (Forlì, Musei di San Domenico, 1650), opera straordinaria eseguita quando la nascita della scienza richiedeva che questa disciplina fosse separata dall'astronomia.

Tutti, comunque, lo ricordano come l'artista che ha saputo trasporre sulla tela la morbida sensualità femminile. "Eppure, anche nel sensuale Cagnacci, il colloquio col cielo è più diretto, più scoperto, di quello che si intavola, sotto il segno della dignità e della pompa, nelle pale e nelle volte di Roma e Bologna", rifletteva tra sé Francesco Arcangeli. Giusta osservazione, perché, giova ricordare, il Seicento fu il secolo di un'"invasione" di cui furono protagoniste le donne. Estatiche, o anche più semplicemente isteriche, sperimentarono con il corpo, più che con lo spirito, il congiungimento al divino. Fu, la loro, la "mistica dei sensi" intuita dal Bernini nella sconvolgente Estasi di Santa Teresa. Non a caso, la ricordata pala dei carmelitani rappresenta due figure chiave della religiosità del tempo, Teresa d'Avila e Maria Maddalena de' Pazzi, il cui esempio fu trascinante nella spiritualità del Seicento, ispirata alla purezza delle origini, con un ritorno, in taluni casi, alle intransigenze del Savonarola: soprattutto in Toscana, e senza dubbio anche nella confinante Romagna (da ricordare, in proposito, gli studi di Gabriella Zarri).

Molte furono le mistiche, e si conta qualche anacoreta, nel periodo postconciliare, ed è da credere che l'esempio della mulier virilis, in grado di competere con l'uomo per il coraggio nell'automortificazione, sia da leggere dietro le sensualissime flagellanti, dipinte, per quanto seducenti, quando non mancavano i "manuali" sulle più cruente modalità di contrizione. Che non guastavano per nulla la "totalità dell'eros" (Paolucci) e il fascino tra sacro e profano delle eroine di Guido Cagnacci. Splendida, fra tutte, la celeberrima Maddalena della Conversione conservata a Pasadena, tela inamovibile, che difficilmente vedremo in Italia. Dipinta a Vienna per l'imperatore Leopoldo I d'Asburgo, costituisce un vertice nella produzione dell'artista, che affida a quest'opera eccezionale la rappresentazione della vita contemplativa come "fisicità" dell'anima e traccia una strada che punta diretta alla modernità. "Venerata religione, estasi mistica, concitata eloquenza, malinconico e compulsivo erotismo, percezione della fatalità della storia, violenza e dramma nelle umane passioni. Ecco ciò che occupa i quadri di Cagnacci. Questo universo magmatico, tumultuoso e già moderno, nessuno come lui, nel suo secolo, è riuscito a metterlo in figura" (Paolucci). Così moderno da anticipare l'Ottocento: e non a caso l'esposizione si conclude con la Ruth di Francesco Hayez.


Note

(1) Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, a cura di D. Benati e A. Paolucci, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2008; il catalogo (da cui sono tratte le citazioni di Alessandro Brogi e Antonio Paolucci presenti in questo articolo) si avvale dei contributi critici di Mina Gregori, Linda Borean, Giulia Palloni, Franco Zaghini e Cesare Gnudi, di cui riprende il saggio sui "quadroni" per la Madonna del Fuoco apparso su "Critica d'arte" nel 1954.

(2) Mostra della pittura del '600 a Rimini, a cura di F. Arcangeli, C. Gnudi, C. Ravioli, Rimini, Tipografia Garattoni, 1952 (da cui sono tratte le citazioni di Francesco Arcangeli presenti in questo articolo). Guido Cagnacci, a cura di D. Benati e M. Bona Castellotti, Milano, Electa, 1993 (si veda: D. Benati, Cagnacci a Rimini, "IBC", I, 1993, 5, p. 17). Storie Barocche. Da Guercino a Serra e Savolini nella Romagna del Seicento, a cura di M. Cellini, Bologna, Abacus, 2004 (www.malatestiana.it/sezioni/pubbli.htm); Seicento inquieto. Arte e cultura a Rimini fra Cagnacci e Guercino, a cura di A. Mazza e P. G. Pasini, Milano, Federico Motta Editore, 2004 (www.600inquieto.it); su queste ultime due mostre si veda anche: E. Landi, Romagna barocca, "IBC", XII, 2004, 2, pp. 50-53.

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