Rivista "IBC" XXIII, 2015, 1
territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, progetti e realizzazioni, pubblicazioni, storie e personaggi
Milioni di fotografie vengono scattate ogni minuto, selfy a raffica che se fossero gocce d'acqua ci sarebbe il diluvio universale. Schiere di fotografi, filosofi, intellettuali, curatori e professori universitari scrivono saggi e ricerche sulla fotografia, sulla storia della fotografia, sullo stato presente, futuro, futuribile della fotografia, su ciò che è bene e ciò che è male fotografare.
Io non sono un fotografo con un bagaglio tecnico e di esperienza tale da poter affrontare la fotografia in modo professionale e coerente. Ma ho sempre subìto il forte fascino della componente "meravigliosa" della fotografia, la stessa meravigliosa meraviglia che un bravo artista di strada riesce a suscitare come per caso in chi passa per caso.
Quattro anni fa mi capita, in rapida successione e senza un motivo preciso, di incontrare "The Sochi Project" ( www.thesochiproject.org/en/about/) e una mostra di Justin Jin: per un qualche motivo i rulli smettono di girare, i frammenti si ricompongono: miliardi di scatti che mi opprimevano dissolti, senza più alcun potere di intaccare la "meravigliosa meraviglia" di una immagine che rappresenta un'idea, un pensiero, una realtà, un'ossessione, un impulso artistico. Da questo punto in poi la strada si è girata in discesa verso una fotografia autoriale che miri alla rappresentazione reportagistica della realtà, in altre parole è iniziato a piacermi fotografare per raccontare.
Gli Appennini sono millecinquecento chilometri di montagna, nessuno li conosce tutti, chi sta dentro spesso non riesce a vedere fuori, chi sta fuori fatica a vedere dentro. Se millecinquecento chilometri di montagna sono alla fine dei conti solo montagne, semplici protuberanze del pianeta, pura orografia, le persone che popolano queste montagne sono una diversa dall'altra: sono umanità, tessuto, sangue nelle vene della terra. A venti chilometri da casa mia inizia il territorio che costituisce L'Appennino tosco-emiliano, di qua e di là, due facce della stessa medaglia.
L'idea è semplice, collaudata, osservare un territorio e cercare di restituirne una forma attraverso la rappresentazione degli uomini, delle donne e degli animali che lo popolano. Per le montagne reggiane non è mai stato fatto in modo sistematico. La via Emilia è stata fotografata in ogni piega, il Po in ogni ansa; Paul Strand e Cesare Zavattini realizzarono tra il 1952 e il 1955 un magnifico progetto sulla Bassa reggiana e Marcello Grassi e Fabrizio Orsi hanno ripercorso quelle strade cinquant'anni dopo. L'Appennino, invece, è abbandonato. Dalla politica, dalla cultura, dall'economia. Ma vive, in mezzo a mille difficoltà, comunque e sorprendentemente vive e forse anche meglio di altri territori. Qui ancora si trova una cosa ormai rara: la biodiversità, umana e naturale.
Ho convinto sei fotografi che vivono nella pianura immediatamente ai piedi della montagna, occhi vicini ma esterni, personalità e poetiche differenti. Era un rischio, un azzardo, ma volevo fuggire dalla prigione dello stile, volevo sette occhi diversi per trasmettere tutta la diversità e la complessità. La sfida è stata scarna e rigida: l'uomo al centro, piena libertà stilistica, no al bianco e nero per non cadere in tentazione e perché la realtà è a colori.
Il progetto, intitolato "In t'la nudda", ha richiesto due anni di lavoro e ogni scatto è stato il frutto di una relazione tra fotografo e soggetto; una relazione non sempre immediata e facile, che ha richiesto più frequentazioni, molti viaggi, la creazione di un rapporto di fiducia. Gli scatti sono sempre momenti privati. Anche quando Barbara suona la fisarmonica di fronte al suo pubblico, ha discusso la serata con il fotografo, gli ha raccontato quello che fa. I "Briganti di Cerreto" hanno posato per Eleonora, che è diventata anche un'amica. Averino mi ha raccontato la sua storia e mi ha mostrato ogni angolo dell'azienda agricola, il sogno di una vita; e ancora, ogni tanto, ci sentiamo.
Le storie del libro nato dal progetto, che porta il suo stesso titolo,
1 sono solo alcune di quelle incontrate in questo viaggio che mi ha aperto gli occhi su molto. Per dirla con le parole di Diane Arbus: "Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate".
Di recente un amico mi ha detto di aver sfogliato In t'la nudda e di aver respirato a pieni polmoni l'aria di montagna, sentendo la difficoltà di respirare ogni giorno quell'aria che noi di pianura non conosciamo o tendiamo a dimenticare. È esattamente ciò che volevo succedesse, far respirare l'aria di lassù, "in t'la nudda", dove la vegetazione ad alto fusto scompare per lasciare posto all'erba e ai sassi che meglio si sposano con il vento e con la pioggia.
Dopo la campagna fotografica, l'incontro con Silvia La Ferrara, che usa le parole come un sensibile fotografo la luce. Ed ecco che, accanto agli scarni quanto precisi testi didascalici, compare in apertura una storia che già alla prima lettura mi è parsa insostituibile, come se ci fosse sempre stata, un perfetto scatto di landscape, 24 mm f.11, tutto a fuoco; solo una leggera distorsione, fondamentale per ricostruire l'emozione dello skyline delle vette che si fondono con il cielo.
Millecinquecento chilometri sono tanti, ci sono ancora tante cose da scoprire, fotografare raccontare. Mi piacerebbe trovare qualcuno con cui lavorare, con cui costruire un piccolo osservatorio artistico del territorio, ma questa è un'altra storia.
La produzione editoriale è stata assolutamente dal basso: una piccola casa editrice, "ABao AQu", capitanata da Emanuele Ferrari e Giuseppe De Santis, insieme a una piccola società, "Fabula", al sottoscritto e all'istituto di formazione professionale ENAIP "Fondazione don Giuseppe Magnani" di Castelnovo ne' Monti, hanno messo insieme le energie economiche per stampare il libro nel giugno del 2014. "Dall'inizio dei tempi la gente si pietrifica, un po' ovunque". Il racconto di apertura inizia così. Ma "carne" è la parola con cui finisce.
[Giuseppe Boiardi]
Dall'inizio dei tempi la gente si pietrifica, un po' ovunque.
Non sempre l'irrigidimento implica una variazione di formato.
Nella Genesi la moglie di Lot diventa una statua di sale per essersi girata indietro e aver spalancato gli occhi sulla pioggia di zolfo e di fuoco che distruggeva Sodoma e Gomorra.
Molti antichi greci sono stati trasformati in rocce per aver osato fissare gli occhi affocati di Medusa, aver visto Artemide fare il bagno o spiato Dioniso durante un incontro amoroso, o per essersi vantati imprudentemente dei propri figli.
In altri casi i pietrificati diventano montagne, come i troll norvegesi che si lasciano sorprendere dai raggi del sole, o le cime del Latemar, ex bambole sottratte in questo modo ai capricci di una bambina, o il re straniero cattivo e guerrafondaio rinchiuso nelle rocce della val di Fanes.
In Sardegna la gigantessa Luxia, ricchissima ma molto avara, rifiuta l'elemosina a un povero frate e Dio muta in pietra lei e i suoi averi.
C'è infine il curioso caso delle gemelle "belle dormienti": una sta stesa sulla pianura canavese, a Ivrea, in provincia di Torino, imprigionata in un sonno profondo dall'amore del mago Nestòrh, l'altra riposa nel Sannio, nella catena del Taburno, dove si fa accarezzare dal tramonto del sole.
Poi c'è il Cusna reggiano. Un gigante buono che non volle abbandonare i pascoli e le abetaie in balia dei venti tirennici e lasciò il suo corpo lassù, a difesa della Val d'Asta.
Bisogna dire a tutti questi esseri pietrificati che non sono soli.
Che ci sono uomini e donne sulle montagne. Alcuni induriti dal rancore e dalla solitudine, altri assopiti in un sonno amaro che non dà riposo, altri trasportati dalla follia di un'idea o di una passione.
Nelle notti d'inverno, nelle sere d'estate, il gigante disteso in t'la nudda, le belle dormienti, i troll, le streghe e i maghi, i re cattivi e persino le bambole fanno un sogno.
Sognano, perché non sono morti ancora o forse è proprio dalla morte che arrivano le loro visioni.
Attorno alle pietre delle montagne distinguono una umanità nuova, che sale insieme con grandi cuori di carne.
[Silvia La Ferrara]
Nota
( 1) In t'la nudda, a cura di G. Boiardi, Bosco Mesola (Ferrara), ABao AQu Edizioni, 2014. Ecco una breve descrizione degli autori coinvolti, tratta dal libro:
Alessandro Femminino, palermitano, vive e lavora a Reggio Emilia come free lance nei settori della musica e dello spettacolo; buona parte delle sue fotografie nasce come reportage sociale durante i suoi viaggi tra l'Europa, l'America Latina e l'Africa, con lo scopo di dare supporto e rilevanza ai progetti di alcune associazioni umanitarie.
Lorenzo Franzi, comasco, si è diplomato nel 1999 al Centro di formazione professionale "Riccardo Bauer" di Milano; dal 1999 si dedica alla fotografia di reportage in Romania, Bosnia e a Mosca; in Afghanistan ha partecipato al progetto "Una strada per la Pace" come fotografo di scena del film Clownin' Kabul (59 a Mostra internazionale del cinema di Venezia); ha realizzato un reportage in Senegal sulla storia dei Griot ("Io Donna", "Il Diario", "Corriere della Sera"); dal 2004 si dedica anche alla fotografia pubblicitaria e commerciale.
Galileo Rocca, reggiano, è fotografo professionista; i suoi lavori sono conservati presso il CSAC - Centro studi archivio della comunicazione dell'Università di Parma e nell'Archivio di Italo Zannier; ha esposto alla "Biennale del Paesaggio" organizzata dalla Provincia di Reggio Emilia e nel Museo nazionale delle arti naïves di Luzzara; nel 2010 gli è stata assegnata la borsa di studio promossa dall'Istituto italiano di fotografia di Milano e nel 2011 ha esposto nel circuito ufficiale di "Fotografia Europea".
Silvia La Ferrara, romagnola e irpina, insegna storia e letteratura italiana; ama montagne e paesi dell'Appennino, dove forse un giorno si pietrificherà.
Eleonora Bertani, reggiana, ha realizzato "Civis" con l'associazione "ReFoto" (Reggio Emilia, Chiostri della Ghiara, 2011, circuito ufficiale di "Fotografia Europea"), "Collettiva Finalisti" del V Premio internazionale "Arte Laguna" (Venezia, Le Nappe dell'Arsenale, 2011) e "Collettiva Premio Celeste" (Catania, Fondazione Brodbeck, 2010).
Giuseppe Boiardi, reggiano, è il meno fotografo del gruppo, ama il libro fotografico come semplificazione della realtà complessa; nel 2008, dopo anni di pausa, ha ricominciato a fotografare: alcune esperienze di reportage lo hanno condotto a considerare la fotografia non fine a se stessa ma quale strumento per raccontare.
Alessandra Matia Calò, tarantina, vive e lavora a Reggio Emilia; concentrata sul tema della memoria, la sua prima apparizione professionale risale a "Fotografia Europea 2007"; ha realizzato progetti sperimentali per: "La Nuit de la Photographie Contemporaine" (Parigi), "Fotografia Europea" (Reggio Emilia), "Innovation Festival", "Avantgarde Gallery" (Berlino), "SIFest - Savignano Immagini Festival", "Colorno Photolife"; ha preso parte alle esposizioni collettive "Opera Fabbrica" (Ravenna, 2011), "Gli oggetti ci parlano" e "Women in Fluxus" (Reggio Emilia, 2012), "Antipodi Apolidi" e "Officine Meccaniche Reggiane" (Reggio Emilia, 2013).
Stefano Camellini, reggiano, fotografo professionista, spazia dall' advertising all' interior; nel 1994, a Gualtieri, ha partecipato a "concetto Progetto oggetto", dando il via al proprio percorso espositivo: ha al suo attivo mostre personali e collettive, fra le quali "triciclici acrobatici" e "solo?" con Oscar Accorsi, e la partecipazione a "Fotografia Europea 2013" con un'indagine sul quartiere INA di via Wibicky.
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