Rivista "IBC" XIII, 2005, 2

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / mostre e rassegne, itinerari, pubblicazioni, storie e personaggi

L'IBC ricorda i sessanta anni della Liberazione attraverso i luoghi, le istituzioni, le opere e le parole che raccontano la tragedia della guerra.
Poi venne il silenzio

Anna Maria Aldrovandi Baldi
[giornalista]
Ezio Raimondi
[italianista, presidente dell'IBC]
Renata Viganò
[scrittrice]

In occasione del Sessantesimo anniversario della Liberazione l'Istituto regionale per i beni culturali (IBC) ha realizzato la carta tematica Memoria e Musei in Emilia-Romagna. La carta, illustrata con fotografie e immagini d'epoca, segnala sulla pianta topografica della regione la presenza di oltre 20 musei raggruppati in filoni tematici: "Guerra e Linea Gotica", "Resistenza in montagna", "Resistenza in pianura", "Persecuzione razziale e deportazione", "La guerra ai civili - stragi e rappresaglie", "Risorgimento - Resistenza". Il termine "museo" è volutamente utilizzato in senso ampio e indica certamente musei a pieno titolo ma anche semplici raccolte, mostre permanenti, case-museo, parchi tematici e storici, ovvero tutti quegli "spazi per la memoria" che i cittadini possono visitare per approfondire il tema della guerra e della lotta di Liberazione in Emilia-Romagna. Sulla carta sono riportate le schede di ciascun luogo o museo con tutte le informazioni di servizio.

La costruzione di questi "spazi per la memoria" si è sviluppata nella nostra regione su iniziativa delle singole realtà locali ed è giunta a maturazione solamente negli anni Settanta, con la significativa e pionieristica eccezione di Casa Cervi, meta di pellegrinaggio fin dall'immediato dopoguerra. Il progetto di un museo a Carpi in ricordo della Deportazione (il Campo di Fossoli è a pochi chilometri) risale agli anni Sessanta ma vedrà la luce solo nel 1973. E così a Montefiorino, dove tra il 1972 e il 1979 si lavora per un allestimento dedicato all'esperienza della zona libera, la repubblica partigiana di Montefiorino. Nel 1981 ad Alfonsine, in Romagna, si inaugura il Museo della Battaglia del Senio per ricordare, in quel territorio devastato, l'esperienza della guerra. A partire da quegli anni si realizzano le altre esperienze museali inserite in questa carta, pubblicata a cura di Patrizia Tamassia in collaborazione con Simona Bezzi e Carlo Tovoli, e realizzata con la consulenza del Gruppo di coordinamento Musei storici dell'Emilia-Romagna. Pubblichiamo qui la presentazione del professor Ezio Raimondi:

 

Mai come oggi si è ragionato della memoria, forse perché, come pensa qualcuno, essa è minacciata da più parti e da più forze della società contemporanea, con l'effetto concomitante dell'oblio e della cancellazione. Di contro agisce anche il senso del passato, e qualche volta diviene pure ossessione, volontà esasperata di rivedere ciò che è accaduto per trarne possibili lumi, tra conferma e rifiuto, rispetto al nostro incerto presente. Sia come sia, ricordare, inteso come un valore collettivo, resta uno dei quesiti del nostro tempo. Uno storico fra i più attenti alla realtà contemporanea come Charles S. Maier avvertiva che se è caratteristico della memoria il rivivere gli avvenimenti, è proprio della storia tentare di spiegare, capire, discutere, interpretare.

Luogo d'incontro singolare tra la memoria vissuta, quella che continua attraverso il succedersi delle generazioni, e la memoria acquisita o riflessa è il museo, quando attende a ricomporre la storia del passato e a descrivere non soltanto delle radici, ma a conservare dei legami più intensi con gli uomini che ci hanno preceduto.

Gli oltre venti musei dedicati alla guerra e alla lotta di Liberazione in Emilia-Romagna, una realtà quasi unica in Italia, ripropongono oggi il problema di come garantire un discorso storico che sappia essere principio di riappropriazione critica della memoria, nel passaggio e nel mutamento delle generazioni. Se, come ammoniscono gli antropologi, la memoria è la dimensione temporale della cultura, quale è alla fine la sua dimensione temporale per le nuove generazioni, sottoposte a trasformazioni radicali, percettive e conoscitive, come quelle che nascono dai nuovi mezzi tecnologici della comunicazione globale, all'interno di quella che è stata definita la società dell'incertezza?

Per questo non è problema semplice quello di una conoscenza storica che diventi nei più giovani, venuti per l'appunto dopo, ricordo riflesso e esperienza diretta, sentimento condiviso di una identità comune, appartenenza a uno stesso destino. Bisogna apprendere a interrogare le testimonianze con l'impegno di tendere a un possibile "vero", di trasformare il suo fragile e complesso contesto in un valore di umanità comune, scoprendo in qualche modo l'eterno presente del passato, la sua voce non ancora muta. E un contributo può essere offerto, nel Sessantesimo anniversario della Resistenza e della Liberazione, da questa carta tematica sui musei e luoghi corrispondenti della memoria nella nostra regione. Anche da un itinerario fra storia e geografia, dentro gli anni terribili di un secolo crudele, si può in fondo apprendere a non dimenticare e forse, come chiedeva Wittgenstein da ogni buona lettura, a divenire più umani. Ognuno può ora farne la prova.

[Ezio Raimondi]

 

L'IBC ha messo in cantiere numerose altre iniziative per dare senso all'anniversario segnato dal 25 aprile 2005. Le segnaliamo sinteticamente, rimandando per ulteriori approfondimenti al sito web dell'Istituto ( www.ibc.regione.emilia-romagna.it) e al sito della Regione Emilia-Romagna dedicato alle celebrazioni del Sessantesimo ( www.regione.emilia-romagna.it/60resistenza-liberazione).

Come già anticipato nel numero 1/2005 di "IBC", in aprile è stato pubblicato il volume Emilia-Romagna. Itinerari nei luoghi della memoria. 1943-1945la guida del Touring club italiano nata dalla collaborazione tra l'Assessorato regionale al turismo e la Soprintendenza per i beni librari e documentari dell'IBC. La guida, bilingue (italiano-inglese), è strutturata in ventiquattro itinerari che coprono tutto il territorio regionale, i nove capoluoghi di provincia, Cesena, Imola e quattordici itinerari extraurbani, ed è corredata di mappe, foto in bianco e nero e a colori, un glossario e una selezione di "notizie utili" con indirizzi e orari di musei, parchi storici e collezioni sull'argomento.

Dal 18 marzo al 27 aprile, presso la Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna, è stata allestita la mostra itinerante "Terre e libertà. Italia e Polonia dall'Ottocento e dalla guerra di liberazione all'Europa di oggi", promossa dal Dipartimento di Discipline storiche dell'Università di Bologna, in collaborazione con l'IBC. L'esposizione illustra le vicende che videro collaborare polacchi e italiani per l'indipendenza e la libertà dei due popoli, fino all'ingresso del II corpo d'armata polacco nel capoluogo, liberato il 21 aprile 1945.

"Arte e memoria. Remo Brindisi. Capitoli della storia del fascismo e opere sulla Resistenza" è il titolo della rassegna espositiva ospitata in Palazzo del Capitano a Bagno di Romagna (Forlì-Cesena) dal 26 marzo al 15 maggio. L'iniziativa, promossa dal Comune in collaborazione con l'IBC, è incentrata sul grande ciclo pittorico intitolato "La Storia del Fascismo", realizzato da Remo Brindisi tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Le opere esposte provenivano dalla "Casa Museo" dell'artista a Lido di Spina (Comacchio, Ferrara).

Un altro Comune della provincia di Forlì-Cesena si è gemellato idealmente con uno dei luoghi-simbolo della Seconda guerra mondiale: a Cesenatico, dal 23 marzo al 22 maggio, la Galleria comunale d'arte "Da Vinci" ha messo in cartellone la mostra "Pittura e memoria. La strage di Marzabotto", promossa dagli assessorati alla cultura dei due Comuni con il sostegno dell'IBC. Il pubblico ha potuto così conoscere da vicino le opere d'arte realizzate in occasione di due importanti concorsi d'arte indetti nel 1960 e nel 1961 dalla città martire dell'Appenino bolognese e attualmente presenti nella raccolta municipale.

Dopo la prima puntata bolognese, conclusasi il 26 febbraio 2005, si è trasferita presso il Polo archivistico di Reggio Emilia, dal 25 aprile al 22 maggio, la mostra storico-documentaria "L'offesa della razza. Razzismo e antisemitismo dell'Italia fascista". La rassegna rappresenta il seguito ideale di un percorso espositivo avviato nel 1994 con la mostra itinerante "La menzogna della razza", proseguito poi con l'edizione bolognese di "Immagini & Colonie", e integrata da "L'Africa in giardino. Appunti sulla costruzione dell'immaginario coloniale", e da "I 'problemi' del fascismo".

L'ultima iniziativa, inaugurata il 20 marzo 2005, è destinata a concludersi nel febbraio del 2006: si tratta di "Il ritorno alla normalità dopo il 25 aprile 1945", una mostra itinerante ideata e realizzata dal Centro studi e ricerche di Modena e promossa dall'Archivio storico provinciale di Bologna e dagli Archivi storici dei Comuni bolognesi di Budrio, Castenaso, Loiano, Medicina, Molinella, Monghidoro, Monterenzio, Ozzano, Pianoro, San Lazzaro, con la collaborazione, tra gli altri enti, dell'IBC. Per ricordare, attraverso i documenti d'archivio, le vicissitudini affrontate da questo territorio anche dopo la fine della guerra.

La rivista "IBC" offre il suo contributo al ricordo del 25 aprile pubblicando i due testi che seguono: il primo è della scrittrice Renata   Viganò, il secondo è a cura della giornalista Anna Maria Aldrovandi Baldi.

Dall'ottobre del 1944 alla primavera dell'anno successivo, nelle Valli di Comacchio allagate dai tedeschi, combatte la Brigata partigiana "Mario Babini", comandata dallo scrittore Antonio Meluschi. A sua moglie, Renata Viganò, è affidato il compito di curare i feriti e di fare da staffetta: da questa esperienza, a guerra finita, ella trarrà materia e ispirazione per L'Agnese va a morire, uno dei capolavori della letteratura della Resistenza. Riproponiamo qui il suo racconto dell'ultima giornata di lotta, il 12 aprile 1945, pubblicato nel catalogo della mostra "Matrimonio in Brigata. Le opere e i giorni di Renata Viganò e Antonio Meluschi", realizzata dall'IBC nel 1995 in occasione del Cinquantesimo anniversario della Liberazione.

 

Vicino alla casa dove era il comando di brigata, al Mulino di Filo, furon scavati, in ventiquattro ore, due grandi rifugi. Da cinque giorni eravamo immersi nella preparazione dell'offensiva dell'Ottava Armata, tiri ininterrotti di artiglieria e bombardamenti a tappeto. Gli alleati erano sul fronte del Senio, otto chilometri da noi, ad Alfonsine. Lavoravamo senza tregua a medicare feriti. Medici niente. Ci arrangiavamo da soli; fui ben contenta allora della lunga esperienza di infermiera. Ma il materiale era scarso. Ci riducemmo all'ultimo con una sola puntura antitetanica, conservata come la pupilla degli occhi, poche fasce, qualche pacco di cotone idrofilo, tre o quattro bottiglie di alcool denaturato. Ormai non si riusciva più a trasportare i feriti gravi all'ospedale di Portomaggiore, le strade erano duramente mitragliate dai caccia, notte e giorno. I morti erano molti, forse anche tanti che si sarebbero potuti salvare.

La sera dell'11 aprile, i tedeschi in ritirata da Alfonsine occuparono le case verso la valle e ci smossero anche dai rifugi. Tempo: dieci minuti. Camminammo scoperti nella pianura, sotto le granate che fischiavano. Il comando di brigata passò alla Pecorara, una casa già gremita di gente fuggita dai paesi bombardati. Nella notte nessuno dormì, fra gli scoppi e i lumi dei bengala. Soltanto io e il mio compagno, che comandava la brigata, eravamo così stanchi che non vedemmo più niente, né luci né bombe. Dormimmo di traverso su un quarto di letto, come sassi. Al mattino presto passò dalla Pecorara una pattuglia tedesca: cercavano un ponte sulla strada bassa della valle, per farlo saltare. Avevano con loro un alsaziano, che certo voleva tagliare la corda, ma lo tenevano d'occhio. Però riuscì a dirmi che gli alleati erano alla Menate, tre chilometri da noi.

Intanto i partigiani attaccarono il Mulino, sbatterono fuori i tedeschi, quelli che nella battaglia erano rimasti vivi. Sentimmo lo scoppio del ponte che saltava. La zona era per così dire libera. Trascorse un tempo grigio, col respiro sospeso; gli alleati venivano sempre avanti con lentezza, per essere ben sicuri. E finalmente apparve verso Longastrino una cortina bianca, come immensi lenzuoli stesi. C'erano in mezzo i carri armati. Senonché i tedeschi si sparsero per la campagna, nascosti nei fossi e nei "tombini" di irrigazione, e si misero a "cecchinare" sulle vie sopraelevate che sono i vecchi argini della valle. Noi non lo sapevamo alla Pecorara, ma venne Colo a prendermi in bicicletta per medicare Fabio che era stato ferito proprio sulla strada tra la Pecorara e il Mulino. Montai sulla canna, e via.

Sparavano da tutte le parti, si sentiva il fischio dei proiettili. "Sparano a noi" diceva Colo. Io non ci credevo. "Ci sono già gli inglesi, va avanti. Non sparano a noi". Invece ad una svolta ci segò l'erba davanti alla ruota. Malfermi sulla vecchia bicicletta ci rovesciammo di colpo. Per un momento non ci muovemmo, ognuno dei due aveva paura di veder l'altro colpito. Poi mi alzai, eravamo illesi, ma ci mettemmo nel fosso, con il fango più del ginocchio. "Basta" - dissi - "Avevi ragione". Al canale di scolo trovammo E' Desch con un altro partigiano. "Fabio è nella casa di Visentini" - mi dissero. E ci avviammo sempre dentro il fosso. Ma ad un tratto un rombo, uno scoppio grande: i cannoni dei carri armati inglesi tiravano sulla Pecorara. Là c'era anche il mio bambino, nella casa stipata di gente. Il colpo, si vedeva, aveva preso; un grosso buco nel muro della stalla. E' Desch saltò sulla strada, si mise a correre allo scoperto. Lo vedevo alto e solo sulla strada grigia, col mitra in mano. Si sentivano spari e raffiche da tutte le parti. "Adesso cade" - pensavo. Arrivò ai carri armati, il fuoco dei cannoni cessò.

Alla casa di Visentini trovai Fabio nella stalla, disteso su una rete da letto senza materasso. Mi disse: "Ti hanno fatto venire in tanto pericolo. Era inutile perché io muoio". Era gravissimo, pallido, senza polso, certo una emorragia interna. Il proiettile, entrato dalla coscia, gli aveva perforato gli intestini. Gli altri due partigiani non volevano credere, dicevano: "È una piccola ferita, non è niente, non fa neppure sangue". Lasciai Bruno con lui, corsi verso il paese. Gli inglesi erano già al Mulino, volevo provare di far trasportare Fabio in un ospedale. Arrivai alle prime case, alcuni soldati inglesi, i primi che vedevo, stavano contro la scarpata, coi mitra. Mi fecero cenno di buttarmi a terra. Sulla strada alta i carri armati inglesi si ritiravano perché un carro armato tedesco sparava sul villaggio. I partigiani lo individuarono, in tre colpi fu messo fuori combattimento, gli alleati oltrepassarono il Mulino, proseguirono verso Filo. Questo però non lo seppi che più tardi.

In quel momento che li vedevo andare indietro pensai che i tedeschi ci avrebbero massacrato tutti quanti. Fra le case deserte incontrai Spricazza che mi condusse da Petronici dove era la Croce Rossa Alleata. Ma li vidi che stavano per andarsene, l'ufficiale aveva l'apparecchio radio alla cintura, era in contatto con la "cicogna", certo ricevette un contrordine perché mi dette ascolto e ordinò a due infermieri di venire con me. Ma per i campi i due soldati e Spricazza correvano così forte che io mi perdetti tra i fossi e le piantate. Arrivai quando erano già andati via, che tanto per Fabio non c'era più niente da fare. Un partigiano mi disse di star tranquilla, gli inglesi avevano occupato la Pecorara, là tutti stavano bene. Corse via subito e io rimasi con Fabio moribondo. Veniva sera e si mise a piovere. Venne un gran silenzio, la battaglia era finita. Fabio capiva di morire.

Vennero più tardi a prendermi Cencio e E' Desch. Alla Pecorara, finalmente, rividi il mio bambino. La cucina era gremita di gente. Gli ufficiali inglesi erano seduti intorno alla tavola, e il comando partigiano dava sulle carte topografiche le indicazioni dei campi minati. Mi dettero delle sigarette dopo tante ore che non fumavo. Avevo anche molta fame, ma soltanto dopo aver mangiato mi ricordai che non mi ero lavata le mani dopo aver toccato Fabio morto. Poi mi addormentai con la testa sulla tavola, con felicità.

Così fu per me il giorno della liberazione.

[Renata Viganò; tratto da Matrimonio in Brigata. Le opere e i giorni di Renata Viganò e Antonio Meluschi, a cura di E. Colombo, Bologna, IBC-Grafis, 1995, pp. 169-170]

 

Concludiamo con le voci di alcuni artisti bolognesi. Anna Maria Aldrovandi Baldi ha chiesto loro di ricordare, per noi, la propria personalissima giornata della Liberazione. A tutti vada il nostro ringraziamento.

 

Mario Nanni

Presente in importanti manifestazioni in Italia e all'estero, Mario Nanni è noto per le sue scelte sperimentali, vissute in una assoluta e geniale libertà. Originale, forse unico, è stato il suo 21 aprile 1945:

"Cittadino di Bologna, non ho vissuto nella mia città quel memorabile giorno, nel quale però ho potuto realizzare un progetto programmato da tempo. Mi trovavo a Monzuno dopo essere sfuggito alla strage di Marzabotto, dove avevo combattuto nella Brigata Stella Rossa nel tentativo di contrastare i tedeschi, troppo superiori a noi sia di numero che di mezzi. Disperso nei boschi dell'Appennino con due compagni, i fratelli Teglia, vagammo per otto giorni fra nebbia, pioggia, schianti di bombe e crepitio di mitraglie, case bruciate e centinaia di morti, braccati dai tedeschi. Finalmente una casa, un soldato con un elmetto diverso, e immediatamente la consapevolezza di aver varcato il fronte! Eravamo dalla parte giusta, a Monzuno, liberato dagli alleati fin dal novembre del '44.

Qui, in passato, c'era stata la sede del Comune, ma poi, per ragioni politiche e interessi privati, il fascismo l'aveva spostata a Vado, un luogo molto disagevole da raggiungere per tutti quelli che abitavano in montagna. Nei mesi passati a Monzuno io e alcuni compagni allestimmo una succursale del Comune, fu eletto un sindaco, Celso Menini, e creata una giunta. Fu così che ci rendemmo conto di quanto la sede del Comune sarebbe stata utile anche in futuro per lo sviluppo economico e culturale del paese, situato per ragioni geografiche 'al capolinea' del territorio.

Fu proprio il 21 aprile, avuta la notizia della liberazione di Bologna, che decisi di compiere un'operazione concepibile e giustificata solo se collocata in quel frangente. Consultai il sindaco e avuta la sua approvazione diedi inizio, senza indugio, al trasferimento di registri, documenti e quant'altro fosse recuperabile dalle macerie della sede comunale di Vado a quella di Monzuno. Un'operazione condotta a tempo di record con l'aiuto di alcuni compagni, di uno sfollato di Bologna e di Francesco Cavazza, che era riuscito a salvare dalle bombe il suo camioncino, scassatissimo ma funzionante, l'unico in tutta la zona.

Lavorammo senza sosta fino a sera, poi proseguimmo per altri due giorni, col rischio continuo di far crollare quel cumulo di macerie e di far saltare in aria mine e bombe inesplose, nascoste sotto quell'ammasso di pietre e calcinacci in cui era ridotto l'edificio comunale. Così vissi il 21 aprile: in quel giorno capii anche che il nostro tempo di 'giovani alla macchia' era finito e che stava cominciando un diverso periodo storico, con tanta voglia di vivere. Una reazione naturale ai tempi di morte che avevamo passato".

 

Leonardo Cremonini

Raggiungiamo Leonardo Cremonini a Parigi, dove vive dal 1951, quando lasciò Bologna. Esponente di punta della pittura neofigurativa, Cremonini propone la cronaca del quotidiano con un linguaggio calibrato e una espressività reale e concreta, elementi inconfondibili della sua arte. Così ricorda il suo 21 aprile 1945:

"Premetto di non avere l'ossessione della memoria, che ritengo un limite alla creatività dell'artista. Conservo nitido, però, il ricordo del giorno della liberazione di Bologna. Dopo aver avuta la casa distrutta dai bombardamenti mi era stato assegnato un appartamento disabitato in via Santo Stefano, che scoprii essere di ben quindici stanze. Sparsi la voce e in breve ci ritrovammo in una cinquantina di persone, fra i miei genitori, i parenti, gli amici, i conoscenti. Tutti insieme vivemmo, fin dal primo mattino, quell'avvenimento indimenticabile che fece riversare nelle strade tutta la cittadinanza.

Fu in quell'occasione che mi resi conto, per la prima volta, della funzione che i bolognesi attribuiscono ai portici. Come se fossero il prolungamento delle mura di casa, dove si può estendere il privato in una intimità allargata. Un'intimità espressa, quel giorno, in tutta la gamma dei sentimenti: baci, abbracci, risa, pianti, confidenze e ricordi. Con la guerra la vita sotto i portici si era spenta. Sotto quegli archi sinistrati, malandati e bui per l'oscuramento obbligato, la gente passava cupa, frettolosa, diffidente, impaurita dai bombardamenti, dai rastrellamenti, dalle rappresaglie. Tutto, in quel primo giorno di libertà, mi sembrò nuovo e trasformato. Un'impressione forte, che elaborata nel tempo ha fatto entrare il portico nel mio lavoro, associato soprattutto al tema delle spiagge, nelle sequenze di cabine, tende, pali e balaustre".

 

Dino Boschi

Stimato dalla critica italiana ed estera, Dino Boschi porta avanti il dialogo tra letteratura e pittura, alternando i temi sociali a quelli più intimi del quotidiano contemporaneo. Ecco il suo ricordo:

"Il 21 aprile del '45 avevo poco più di vent'anni e abitavo in piazza dei Celestini, nel pieno centro di Bologna. Per tutta la notte i cannoni avevano sparato, da est verso ovest, sorvolando la città con fischi laceranti e sordi rimbombi. Verso l'alba tutto tacque e subentrò un silenzio assoluto e insolito in quei tempi. A un certo momento cominciarono degli strani rumori: uno scalpiccìo ritmato, voci sommesse, finestre che si aprivano, poi voci e grida. Anche mia madre spalancò le persiane, si affacciò e subito si voltò urlando: 'Ci sono i polacchi! Arrivano i polacchi!'.

Io, assolutamente privo di documenti, vivevo da tempo chiuso in casa, ma in quel momento abbandonai ogni precauzione e mi sporsi anch'io a guardare. Provai un senso di commozione profonda quando intravidi esporre la bandiera italiana nel palazzo di fronte. Un'apparizione quasi timida, incerta, seguita in breve da parecchie altre. Un gesto che mi comunicò un grande senso di leggerezza, di libertà, di gioia, che mi riempì gli occhi di lacrime. In quel momento ritrovammo la patria, quella patria da cui il revisionismo di oggi ci sta allontanando. Era un giorno di sole, di campane che suonavano a festa, di gioia incontenibile e indescrivibile. Assaporai la libertà uscendo subito di casa. Arrivato sulla piazza vidi un vecchio con la barba che da un panchetto allestito al momento parlava alla folla. Alcuni battevano le mani gridando: 'È Zanardi, il sindaco del pane! Evviva Zanardi!'. Non ricordo nella mia vita un altro giorno di felicità così completa e clamorosa".

 

Luciano Bertacchini

Già nel 1947 Francesco Arcangeli, scrivendo di Luciano Bertacchini, ne apprezzava "il candore di reticenza poetica e la delicatezza di modulazioni misurate su un ritmo interiore", e da qui cominciava per lui una feconda attività pittorica.

"Ufficiale dell'Esercito italiano, dopo l'8 settembre trovai un rifugio clandestino in un paese delle Marche, dove rimasi fino alla primavera del '45, quando arrivò la voce che Bologna stava per essere liberata. Mi aggregai a una compagnia di autieri, al seguito delle truppe inglesi e polacche, e dopo un lungo viaggio, tra bombe, disagi e fatiche, arrivammo a Corticella la sera del 21 aprile. Fummo accolti e rifocillati in una locanda, dove passammo la notte, e la mattina, in abiti borghesi, mi accinsi a partire per Bologna, alla ricerca dei miei parenti. In quell'ostello bivaccavano uomini armati, rumorosi e tracotanti, che manovravano le pistole come giocattoli. Uno di loro cominciò a fissarmi e a parlottare con gli altri, fino a che in tre o quattro mi circondarono, cominciando a interrogarmi, sempre più protervi. A nulla servirono i miei documenti: capii che mi avevano scambiato per un altro, e che per me si metteva male.

Sgomento, mi guardavo attorno in cerca d'aiuto, e lo sguardo mi cadde sulla pagina di un giornale abbandonato sul banco dell'oste, dove a caratteri cubitali era citato 'Luciano Minguzzi, membro del CLN [il Comitato di liberazione nazionale, ndr]'. Mi conosceva da una vita, Minguzzi, e poteva essere la mia salvezza. Raccontai della nostra amicizia e di come lui potesse garantire per me. Il più anziano del gruppo decise: "Andiamo tutti a Bologna, a cercare Minguzzi!". In bicicletta, circondato da quegli uomini, arrivammo a Palazzo Bentivoglio, in via Belle Arti, dove aveva la casa e lo studio. In casa non c'era, e lo studio era chiuso da tempo, ci dissero. La confusione e il girovagare avevano esasperato i partigiani, che mi concessero solo qualche minuto: capii a quel punto che il mio destino era segnato. In quell'istante dall'angolo di via Mentana svoltò un gruppo di uomini vocianti e fra questi scorsi Minguzzi, col fazzoletto rosso al collo. Anche lui mi vide: si staccò dagli altri, corse verso di me, mi abbracciò con calore. Ancora una volta, dopo tante peripezie, ce l'avevo fatta".

 

Norma Mascellani

Classe 1909, allieva di Giorgio Morandi, Norma Mascellani è pittrice di fama unanimemente riconosciuta, ma anche donna impegnata da anni, con generosità e fervore, nell'attività civile a favore di emarginati e invalidi. Ecco il suo racconto:

"Dopo sessant'anni, per rivivere quel giorno, sono ritornata stamattina in via San Petronio Vecchio, dove abitavo allora, in una casa praticamente senza facciata, distrutta da uno spezzone incendiario. La mia mente, all'improvviso, è ritornata all'alba di quel sabato, il 21. Dopo una notte senza tregua subentrò un silenzio assoluto. Fra le sette e le otto cominciarono a suonare le campane, a cui si accompagnarono voci, urla, grida, applausi. Corsi fuori di casa, così com'ero, e seguendo l'onda della gente arrivai come una saetta su Strada Maggiore. L'emozione di quel giorno mi attanaglia ancora la gola. Mi fermai di fronte a piazza Aldrovandi e guardai verso Porta Mazzini. A piedi, al centro della strada, avanzavano due file di soldati, con facce, atteggiamenti e sorrisi ben diversi da quelli a cui i tedeschi ci avevano abituati: stavano finalmente arrivando 'gli alleati'! Tutti li applaudivano, li abbracciavano, li baciavano, li tiravano per gli abiti. Tutti ridevano, piangevano, cantavano. Ognuno viveva a suo modo quell'attimo irripetibile.

Bombardamenti, rappresaglie, rastrellamenti, esecuzioni, perquisizioni, fame, paura, buio, tutto sembrava già alle nostre spalle. Ovunque, come un'eco, risuonavano le parole 'libertà', 'liberatori', 'liberazione'. Sconvolta dalla gioia corsi a casa a chiamare Gino, mio marito, e poi anche 'il pover'uomo': così chiamavo quel sopravvissuto alla strage di Sant'Anna di Stazzema, che da mesi viveva nascosto in casa nostra dopo l'eccidio di tutta la sua famiglia (sette persone) da parte dei tedeschi. Lo choc per quanto aveva visto era stato tale che pure quel giorno non riuscì a mettere piede fuori di casa. La gioia, anche per noi, si trasformò in lacrime e tristezza infinita quando lui, piangendo, accarezzò quel nastrino nero con sette stellette d'argento che nascondeva nel risvolto della giacca".

[a cura di Anna Maria Aldrovandi Baldi]

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