Rivista "IBC" XIX, 2011, 2

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Da Carpi ad Auschwitz in treno. Il viaggio di seicento studenti modenesi nel luogo-simbolo della Shoah.
Un treno per Auschwitz

Evaristo Sparvieri
[giornalista]

Il treno della memoria attraversa la notte. Divora i chilometri con una velocità placida ma inesorabile, tra le illuminazioni artificiali di decine di stazioni straniere, piccoli segnali di luce a scandire nel buio invernale la direzione di marcia. Nessuna sosta è in programma: oltre venti le ore consecutive di viaggio, percorrendo i paesaggi innevati di Austria, Repubblica Ceca e Polonia. Destinazione: la dolorosa Cracovia dei ghetti ebraici, gli impressionanti block del campo di concentramento di Auschwitz, la desolazione senza confini del campo di sterminio di Birkenau. Luoghi simbolo dell'immane tragedia dell'Olocausto.

È il pomeriggio del 25 gennaio quando "Un treno per Auschwitz" lascia la stazione di Carpi. A bordo del convoglio, organizzato dalla Fondazione ex Campo di Fossoli, più di seicento studenti degli istituti superiori della provincia di Modena, da mesi in attesa di partire per un viaggio di cinque giorni nei luoghi della Shoah, lungo quegli stessi binari che per migliaia di deportati rappresentarono itinerari verso la morte. Nel febbraio 1944, dal campo di concentramento di Fossoli, nel comune di Carpi, partirono infatti per la Polonia i primi due treni destinati allo sterminio: sul secondo di essi, che lasciò la città emiliana il 22 febbraio, anche Primo Levi, che delle esperienze vissute ad Auschwitz affiderà nei suoi celebri scritti i propri ricordi e le proprie riflessioni.

"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario", esorta lo scrittore in Se questo è un uomo. La stessa frase, a caratteri cubitali, è citata su uno dei numerosi striscioni esposti dagli studenti davanti al piazzale della stazione. Emozionati, intimoriti, impazienti, incuriositi: tra loro, c'è chiara la consapevolezza che ad attenderli è un appuntamento con la Storia. Ma, con la disarmante sincerità propria dei diciotto anni, si chiedono fino a che punto siano pronti per affrontare l'impatto con luoghi così carichi di morte, dove mattone su mattone ha preso forma l'insensatezza di un disegno criminale senza precedenti nella storia dell'umanità: nel complesso concentrazionario polacco, oggi patrimonio UNESCO, tra il 1940 e il 1945 persero la vita oltre un milione e trecentomila persone, vittime innocenti della barbarie nazi-fascista. Uomini, donne, anziani, bambini. Ebrei, ma anche prigionieri politici, criminali comuni, migranti, testimoni di Geova, omosessuali, Rom, Sinti. La follia dell'uomo non ha fatto distinzioni di sorta.

"Il senso profondo di questa iniziativa è far comprendere che Auschwitz non è un luogo espunto dalla nostra storia, ma un nodo drammatico sul quale continuare a riflettere", spiega Lorenzo Bertucelli, docente dell'Università di Modena e Reggio Emilia e presidente della Fondazione. E, grazie al "Treno per Auschwitz", in sette anni sono stati più di quattromila i giovanissimi che hanno potuto riflettere sullo sterminio nazista, vedendo con i propri occhi e toccando con le proprie mani ciò che, fino al giorno prima della partenza, era un dramma conosciuto attraverso le immagini dei libri di storia o le pellicole cinematografiche. "Il viaggio è il momento culminante di un percorso formativo che inizia nelle scuole nei mesi precedenti, a contatto con i professori, e che prosegue al ritorno, quando i ragazzi sono chiamati a restituire il frutto di questa esperienza." - aggiunge Bertucelli - "Ci sono molti momenti simbolici, ma il vero significato dell'esperienza è principalmente la condivisione".

Ed è proprio un senso di solidarietà e di condivisione quello che si respira nelle quattordici carrozze una volta partiti, dopo il saluto delle autorità alla piazza, gremita di zaini e valigie, trolley e chitarre: sul palco, il presidente dell'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, Matteo Richetti, il rabbino della Comunità ebraica di Modena e Reggio Emilia, Rav Beniamino Goldstein, il sindaco di Carpi, Enrico Campedelli, l'assessore all'Istruzione della Provincia di Modena, Elena Malaguti. E mentre i genitori accorsi a salutare i propri figli dispensano le ultime raccomandazioni, quel "Treno per Auschwitz" compare, puntuale e quasi silenzioso, sul binario 1.

Tra i compagni di viaggio degli studenti ci sono gli scrittori Carlo Lucarelli e Paolo Nori, i musicisti Stefano "Cisco" Bellotti, Alberto Cottica, Paolo Rubbiani e Massimo Zamboni, lo storico Carlo Saletti, l'attore e regista Gigi Dall'Aglio, il docente universitario Marco Scarpati. Ma sul "Treno per Auschwitz" ogni gerarchia scompare: si è tutti sulla stessa barca. Un'unica emozione, un'unica missione: conoscere per non dimenticare. Fuori da ogni facile retorica. Attraverso lo studio, l'informazione, l'esperienza. Nel corso del viaggio, sono numerose le attività a bordo del treno: i laboratori di scrittura di Nori e Lucarelli, ai quali i ragazzi partecipano con entusiasmo; lo scompartimento-biblioteca, dove potersi documentare su un'ampia selezione di libri sull'Olocausto; gli incontri nella carrozza-ristorante, dove Lucarelli intervista Alessandro Leo, presidente dell'associazione cooperativa "Libera Terra Puglia", o lo storico Carlo Saletti spiega cosa lo ha spinto a realizzare una guida su Auschwitz.

Appuntamenti attesi dai ragazzi, che si affollano, fanno domande, dimostrano di avere sete di conoscenza e di comprensione, accendono una speranza. E poi la musica, a far da collante perfetto di emozioni, con Cisco Bellotti che con la sua band improvvisa concerti tra i vagoni sul repertorio di canzoni d'impegno civile, e i ragazzi del Fuori Orario di Gattatico (Reggio Emilia) che mettono su dischi a ripetizione. Si balla, si ride, si gioca a carte, si riflette. Com'è giusto che sia. Perché la freschezza e l'allegria dei ventenni, la loro sensibilità che conosce abissi di sconforto e vette di euforia, sono la vera locomotiva del treno, ciò che lo spinge ad attraversare la notte.

Il viaggio è lungo, oltre venti ore. Ma termina in un baleno. E una volta messo piede sul suolo polacco, il pomeriggio del 26 gennaio, subito il primo contatto con la dura realtà di quel viaggio: la stazione di Plaszòw, a Cracovia, immersa nella neve. In passato, in quell'area, c'era uno dei campi di concentramento nazisti, spiegano le guide agli studenti. E, sui loro volti, alla stanchezza di una notte insonne comincia a sommarsi un senso di straniamento: è l'incapacità di comprendere. "Perché questa tragedia?" si chiede Daniela Veronesi dell'Istituto "Galilei" di Mirandola. Non sarà la sola. I ragazzi lo chiederanno spesso, lo chiederanno a tutti. Ma nessuno è in grado di dar loro una risposta. Per questo sono tutti lì. Per questo si sente il bisogno di tornare su quei luoghi, ogni anno.

"Bisogna creare nuovi testimoni." - afferma Marzia Luppi, presente sul treno nella doppia veste di direttrice della Fondazione e di professoressa dell'Istituto "Meucci" di Carpi - "Quest'anno ho accompagnato anche la mia classe: un valore aggiunto per un'esperienza ogni volta intensa".

Il 27 gennaio, la visita al campo di concentramento di Auschwitz. È la "Giornata della Memoria", ricorrenza che cade nel giorno della liberazione del campo dai nazisti, quando le truppe sovietiche entrarono nel lager e trovarono circa settemila prigionieri, i soli rimasti ancora in vita. Quel giorno di 66 anni fa, l'Armata Rossa varcò la crudele insegna Arbeit Macht Frei, "Il lavoro rende liberi", che ancora oggi, posta all'ingresso del campo, separa il mondo della normalità da quello della follia. A metà strada tra storia e leggenda, si racconta che l'insegna sia stata forgiata da un prigioniero ebreo che, per comunicare ai nuovi deportati la menzogna racchiusa in quella frase, ha modellato la lettera "b" al contrario. Perché una volta varcata la soglia d'ingresso, si entra in un mondo senza senso, racchiuso tra fili spinati.

Una follia lucida, grottescamente celata dietro un aspetto apparentemente ordinato: i 28 block, come tante rassicuranti casette in mattone rosso, si estendono in fila su ampi viali geometrici. C'è un numero sopra ognuno di essi, storie di orrore dentro ogni stanza, dove l'ordine apparente dell'esterno esplode nel suo contrario: la stanza degli occhiali, quella dei capelli, quella delle pentole. Oggetti ammassati, appartenuti a chi oggi non c'è più, annientato nel profondo della propria dignità di essere umano. La stessa dignità che le migliaia di foto segnaletiche scattate dai nazisti, e oggi esposte nei corridoi delle baracche, sembrano gridare a chi le osserva: volti fissi, inespressivi, svuotati di umanità, ma densi di reverenza e rispetto. I ragazzi si soffermano a contemplarle. Sotto ogni volto, due date: arrivo e dipartita. Spesso a distanza di appena pochi giorni.

"Questo posto era una fabbrica della morte, organizzata per uccidere", ripetono sconvolti molti ragazzi tra di loro. Si poteva morire in tanti modi, ad Auschwitz: di fatica, di fame, per la sperimentazione di nuovi medicinali. Come avveniva nel blocco 10, dove il dottor Mengele realizzava esperimenti sugli esseri umani. La ricetta della sopravvivenza, invece, non era nelle tasche di nessuno. Sul muro delle fucilazioni, autorità internazionali in cerimonia solenne depongono corone di fiori in memoria dei caduti. Qualche superstite, ormai anziano, si aggira per le strade del campo in preda agli strazianti ricordi. Nel corso della visita alla camera a gas e al forno crematorio, alle impressioni visive si sostituiscono quelle olfattive: i ragazzi si aggirano con circospezione e deferenza, mentre un odore di morte, rimasto inalterato per decenni, entra fin dentro le ossa e sembra non abbandonare mai la pelle, i vestiti che hai indosso. Come un rimorso, scava dentro l'interiorità dei visitatori, costringendoli a fare i conti con la propria coscienza.

Nella Filarmonica di Cracovia, la sera del 27, durante "I virus della memoria", uno degli incontri organizzati dalla Fondazione in terra polacca, Carlo Lucarelli espone ai ragazzi il concetto di "punto di rottura": è l'attimo esatto in cui si prende coscienza dell'orrore patito da milioni di innocenti. "Basta un particolare, un gesto per spalancare una coscienza", spiega dal palco lo scrittore ai ragazzi. E, già nel primo giorno, i "punti di rottura" disseminati negli animi dei ragazzi si moltiplicano in un continuo scambiarsi di impressioni, nel confronto - anche con gli adulti - delle commozioni vissute.

Se il campo di concentramento di Auschwitz lascia sgomenti, il campo di sterminio di Birkenau, noto anche come Auschwitz II, abbatte qualunque resistenza emotiva. È qui che l'insania nazista aveva progettato l'esecuzione materiale di quella che dal gennaio 1942 venne definita la "soluzione finale della questione ebraica". A Birkenau, nessun approccio museale: un orizzonte di rovine a perdita d'occhio, stretto da chilometri di filo spinato elettrificato; un inquietante reticolo di binari che ha inizio fuori dall'immenso perimetro del lager, nella Judenrampe, lo scalo ferroviario di selezione di circa ottocentomila deportati di tutta Europa. A Birkenau, tutto parla di morte. Nell'agosto del 1944, erano centomila le persone rinchiuse nelle oltre trecento baracche, oggi quasi tutte distrutte; quattro i forni crematori muniti di camere a gas, oltre un milione le vittime.

Nelle baracche rimaste in piedi, la triste testimonianza delle terribili condizioni igieniche a cui erano costretti milioni di uomini, donne, bambini: le squallide latrine, i dormitori stipati, la totale mancanza di acqua, lo scoppio continuo delle epidemie. I ragazzi camminano lungo il campo in ossequioso silenzio. Le guide non risparmiano loro nessun particolare raccapricciante sul luogo in cui si trovano. I loro passi, tonfi regolari nell'assordante silenzio, sono l'unico segnale di vita. Un segnale che acquista la forza dell'unisono nel pomeriggio del 28 gennaio, quando i ragazzi sfilano in una lunga fiaccolata nel campo, dopo aver letto testi di Primo Levi, Elie Wiesel e altri autori che hanno conosciuto l'orrore e che sono sopravvissuti per raccontarlo. Sotto il monumento internazionale dedicato alle vittime del nazifascismo, all'interno di Birkenau, di fronte a quel bosco di betulle che nasconde i più atroci segreti di morte, il senso del viaggio di "Un treno per Auschwitz" si manifesta come un'epifania, nelle lacrime che sgorgano spontanee sui volti dei presenti. Dopo una visita nella meravigliosa e tormentata Cracovia, durante il viaggio di ritorno, tra le carrozze, risuonano le melodie della Locomotiva e di Bella Ciao.

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