Rivista "IBC" XIX, 2011, 2

musei e beni culturali / linguaggi, corrispondenze, storie e personaggi

Accampato nel deserto, il popolo Saharawi cerca di resistere all'esilio. Difendendo i suoni della sua lingua. E i segni lasciati sulle rocce dagli antenati.
Tende lontane

Chiara Vecchio Nepita
[giornalista, associazione "Kabara Lagdaf"]

"Come vedi, nelle tende non esistono porte. Gli ospiti, pertanto, possono entrare da tutti i lati. Entra dunque, ti prego, mia ospite". Mi accoglie, seduto sulla terra vestita di tappeti, un uomo canuto, il viso bruno solcato dalle rughe, due guizzi di luce negli occhi. È Bayi Bouh, un poeta. Indossa il darrah, l'abito tradizionale dei Saharawi, una lunga tunica celeste bordata d'oro che però, sotto l'ampia scollatura, lascia intravedere una polo decisamente più moderna. Sua moglie, di molti anni più giovane, se ne sta in disparte. Mi sorprende la bellezza del suo volto, scoperto.

Sembra un angolo di mondo abbandonato da Dio, questa parte del Sahara in terra algerina. Se non fosse che di notte, quando l'arsura soffocante del deserto lascia un po' di tregua, il Cielo è così vicino che senti di poterGli parlare... "Anche la poesia è un dono di Dio", dice il poeta. "Essa non si studia e non esistono libri, ma soltanto incontri tra uomini. La poesia non è mia, ma è del mio popolo. Io non metto firme: se qualcuno recita una poesia, essa diventa sua".

L'uomo si esprime in hassaniya, un dialetto arabo molto simile a quello classico parlato nella penisola arabica. È una lingua lontana persino per il mio giovane traduttore, abituato all'arabo contemporaneo e allo spagnolo. Il poeta si accorge che il ragazzo fatica a capirlo. Nonostante la voce ferma, usa parole malinconiche, da cui lascia trapelare un rammarico: "Abbiamo abbandonato molte cose belle del nostro passato, ma lo abbiamo fatto per il bene di tutti. Avevamo bisogno di unirci, per creare un popolo".

Il popolo nomade Saharawi, originario del Sahara Occidentale, nasce tra il VII e il XVIII secolo dall'incontro dei Maquil, originari dello Yemen, con le dinastie autoctone berbere (Sanhaja e Zenata) e le tribù nero-africane presenti più a sud. La fusione tra tribù di origini differenti e il processo di islamizzazione, che lentamente sostituì la religione animista, portarono a una stratificazione sociale gerarchica. Le tribù arabe, dedite alla guerra e custodi della religione e delle scienze, erano considerate superiori rispetto a quelle di origine berbera, che si occupavano di pesca e agricoltura. Ogni tribù prevedeva una suddivisione in caste: gli artigiani, i musici e gli schiavi. Questi ultimi, nel gradino più basso, si dividevano in schiavi e liberti, e provenivano dalle popolazioni nere. Gli artigiani lavoravano il ferro e il legno, le donne conciavano le pelli per ricavarne abiti, recipienti e le tele per costruire le jaima, le tende nere tradizionali.

I musici, invece, erano legati ai guerrieri, dei quali cantavano le gesta attraverso componimenti formulari, accompagnati spesso dal canto femminile. Anche attraverso questi cantori, ogni tribù costruiva la sua storia, nonostante la presenza di una raccolta di annali dove venivano riportati i "grandi avvenimenti" (periodi di straordinaria siccità, epidemie, guerre) nonché il computo del tempo dopo l'avvento dell'Islam. La storia mitica e la poesia epica, come avvenne in altre civiltà, erano continuamente rielaborate a seconda delle situazioni, e arricchite da elementi legati al divino.

Con il dominio spagnolo, a partire dalla fine dell'Ottocento, furono vietati i conflitti e la pratica della razzia fra tribù; ciononostante, la suddivisione tribale sopravvisse alla colonizzazione. La vera rivoluzione avvenne agli inizi degli anni Settanta del Novecento, quando nacque il Fronte Polisario, movimento indipendentista che si prefiggeva la creazione di un unico popolo. La nascita di una nazione Saharawi fu tuttavia impedita nel 1975, quando, in seguito ad accordi segreti con la Spagna, il Sahara Occidentale fu occupato da Marocco e Mauritania. Molti Saharawi furono costretti a fuggire nella vicina Algeria, dove nel 1976 venne proclamata la Repubblica araba Saharawi democratica. L'organizzazione di questo stato in esilio (caso unico al mondo) comportava un taglio netto con il passato; fu per questo che, pur utilizzando una lingua e formulari antichi di centinaia d'anni, la poesia orale divenne uno strumento fondamentale: serviva a diffondere i nuovi valori che avrebbero dovuto ispirare una forte coesione sociale nei campi profughi.

"Il poeta coglie i problemi prima degli altri", afferma di fronte a me il moderno griot.1 "Se le persone non hanno interesse per il lavoro, per la guerra o per l'Islam, è a loro che ci dobbiamo rivolgere. Il poeta non deve mai abbassare la testa". E a una giovane donna, che cosa dice il poeta? "Di stare lontano dalla vergogna. Di avvicinarsi molto alla sua religione. Di stare bene con chi le sta vicino. E di educare al meglio i suoi figli. Ma a lei" - lo sguardo quasi paterno si rivolge alla moglie - "dico di volere bene a me, anche se sono vecchio!". La donna sorride e si avvicina, mostrandomi alcuni fossili e corna di animali. Chiedo cosa siano. "Ciò che resta del luogo dove sono sepolti i nostri antenati", risponde l'anziano poeta.

Il luogo a cui fa riferimento è la Cueva del Diablo, la grotta del diavolo, come l'hanno chiamata gli archeologi spagnoli che la scoprirono nel periodo coloniale. Si tratta di un grande rifugio roccioso elevato sopra al terreno, nella zona di Lajuad, tradizionalmente associata dai Sahrawi con i djin, gli spiriti. Custodisce numerosi monumenti funerari e, all'interno, il pavimento è decorato con incisioni databili fra i 4000 e i 2000 anni fa, che rappresentano figure antropomorfe e animali e coppie di impronte umane. Anche sui muri ci sono incisioni e graffiti, che in molti punti sembrano comporre una singola immagine.

Alcune lastre di pietra incise con splendide figure di animali, come bufali e giraffe, sono state trovate anche nella zona di Sluguilla Lawash, vicino alla strada che va da Tindouf a Tifariti, nei territori liberati dai Saharawi prima del cessate il fuoco imposto dall'ONU nel 1991. Se si aggiungono le oltre 100 grotte dipinte nella zona di Reikez Lemgasem, si capisce perché questi luoghi inviolabili per i Saharawi possano rappresentare la più estesa concentrazione di pitture preistoriche nel Sahara Occidentale, con eccezionali scene di animali domestici, fauna selvatica e uomini: un patrimonio di rilevanza mondiale, non solo per il valore artistico ma anche per la quantità di nozioni scientifiche che gli studiosi possono ricavare, per esempio, sul rapporto fra cambiamento culturale e cambiamento ambientale e climatico.

Purtroppo questi straordinari racconti di pietra, incisi nella culla dell'Uomo, sono stati danneggiati proprio da chi avrebbe il compito di far rispettare i valori più alti dell'umanità. Soltanto nel 2007 il quotidiano londinese "The Times" ha denunciato pubblicamente gli sfregi, le deturpazioni e forse anche i saccheggi messi in atto dai Caschi Blu delle Nazioni Unite, e questo nonostante l'esistenza di un rapporto curato da Joaquim Soler dell'Università di Girona e da Nick Brooks dell'Università della East Anglia, che, con tanto di immagini fotografiche e video, documenta gli oltraggi perpetrati dai militari sin dal 1995. Ma non è che lo scempio più eclatante nei confronti della millenaria cultura Saharawi, una cultura che in molti vorrebbero scomparisse, "semplicemente" perché appartiene a una minoranza. E seppure importantissime, non sembrano sufficienti le risoluzioni internazionali che ribadiscono il rifiuto netto delle reiterate violazioni dei diritti umani e la condanna di ogni iniziativa contro la vita e la dignità delle popolazioni Saharawi, come quella approvata all'unanimità dall'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna lo scorso 26 ottobre 2010.

Quest'ultimo accorato intervento politico rispondeva ai fatti di Gdeim Izik, conosciuto come il "campo della dignità". In una data simbolica, il 10 ottobre 2010, ventimila Saharawi hanno dato vita a un nuovo accampamento in un'area desertica di proprietà di uno di loro nei territori occupati dal Marocco. Più di ottomila jaima simboleggiavano la volontà di riappropriarsi della cultura tradizionale, creando un luogo dove incontrarsi liberamente, dove ritornare "tra fratelli" soprattutto la sera, dopo il lavoro nella grande città di Al Aaiun. La protesta, scaturita dalla società civile (in particolare giovanile), era contro la disuguaglianza sociale, la discriminazione sul lavoro e la spoliazione delle risorse naturali (fosfati e pescato) a opera del Regno del Marocco. Ma l'esercito reale marocchino ha circondato l'accampamento, impedendo tra l'altro l'ingresso dei generi di prima necessità e degli osservatori stranieri. Il 24 ottobre i militari hanno aperto il fuoco contro una jeep, uccidendo un ragazzino di soli 14 anni.

Nonostante gli appelli della nostra Regione e di tutto il mondo, l'8 novembre le jaima di Gdeim Izik sono state bruciate, e nella città di Al Aaiun sono iniziati scontri che hanno provocato decine di feriti e un numero imprecisato di vittime. Il territorio è stato chiuso ai giornalisti, agli osservatori internazionali e ai parlamentari europei. Tutto questo è accaduto mentre a New York riprendevano i negoziati tra Polisario e Marocco. Da molti anni, tuttavia, le posizioni rimangono ferme: per i Saharawi fa fede la risoluzione 1754 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, secondo cui deve essere un referendum a decidere in merito all'autodeterminazione della popolazione del Sahara Occidentale; il governo marocchino, invece, è disposto a concedere alla regione soltanto un'autonomia sotto l'egida della monarchia di Rabat.

"Non a caso hanno dato fuoco alle jaima: vogliono bruciare i nostri simboli, la nostra cultura". Non sono le parole di Bayi Bouh. Questa volta a parlarmi è un giovane poeta, Malainin Mohamed, segretario generale dell'UPES, associazione dei giornalisti e degli scrittori Saharawi (www.upes.org), e membro di AFAPREDESA, associazione Saharawi per la difesa dei diritti umani (www.afapredesa.org). "Quando vivevo nei territori occupati dal Marocco" - mi racconta - "scrivevo molte poesie in arabo, nella mia lingua. Parlavano dei miei sentimenti, delle mie opinioni. E se dovevo parlare del mio popolo, usavo delle metafore, perché non era concesso. Allora, la mia terra diventava la donna amata, oppure il mare... Ma nel '99 c'è stata la grande intifadah: come me, tutti i Saharawi hanno manifestato per 4 mesi. Per un anno ho dovuto nascondermi, poi ho deciso di andare negli accampamenti in Algeria. Con altri due ragazzi ho fatto 120 chilometri a piedi, nel deserto. Era agosto".

"Da quando sono nei campi" - prosegue Malainin - "avrò scritto una o due poesie al massimo. Perché ho scoperto che qui ci sono molte cose che posso fare: per esempio, tenere i contatti con i territori occupati e divulgare le notizie in diverse lingue perché si sappia quanto sta accadendo". Mentre Malainin continua a raccontarmi dell'impegno per il suo popolo, e della stanchezza dei giovani Saharawi, mi ritornano alla mente le parole dello scrittore Vincenzo Cerami: "La poesia è il contrario della guerra". E se penso che il giovane poeta non scrive più poesie, ho paura.

Il sogno di Malainin è redigere la storia del suo popolo attraverso l'ascolto delle persone più anziane di lui. Un sogno che sta iniziando a realizzarsi grazie a un progetto finanziato dal Ministero degli affari esteri, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Comune di Forlì, con il supporto scientifico dell'Università di Bologna (i docenti Giuliana Laschi e Marco Balboni) e del Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli. Perché tutti abbiamo il dovere di trasmettere la memoria e di fare ascoltare molte voci, come quella del vecchio poeta.

Faccio per alzarmi ma, prima che la luce del deserto riesca a colpirmi di nuovo, il cantore mi ferma. Vuole regalarmi una poesia: "Fanciulla, non è bene lasciare le cose così / lente, fiacche. / Quelli che ci sono, sono stanchi, e gli altri non ci sono più. / Ascoltami, ti prego, / da molti anni vorrei cingere la mia veste,2 / il tempo logora persino chi è coraggioso. / Ma solo il coraggio risolve i problemi. / Il mio non è altro che un monito / per il fine che tutti conoscono". Poi mi saluta, portando la mano sul cuore, in segno di amicizia.3


Note

(1) Il termine francese si riferisce ai poeti e cantori tradizionali dell'Africa Occidentale. Attualmente i più noti e studiati sono quelli dell'Africa subsahariana (Senegal, Mali, Gambia, Guinea e Burkina Faso).

(2) L'espressione "cingere la veste" allude al gesto di prepararsi a partire.

(3) L'autrice ringrazia Mohamed Fadel Abid Hamadi per la preziosa traduzione, e Fabio Campioli, presidente dell'Associazione di solidarietà con il Popolo Saharawi "Kabara Lagdaf", per l'esempio di impegno costante e sincero in difesa dei valori della libertà e della pace (www.kabaralagdaf.org).

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