Rivista "IBC" XIX, 2011, 1
musei e beni culturali / interventi, progetti e realizzazioni
Storica dell'arte, collaboratrice del Dipartimento delle arti visive dell'Università di Bologna, Elena Pirazzoli indaga in particolare sul nesso tra arti e memoria dal Novecento a oggi, tema su cui nel 2010 ha pubblicato un saggio edito da Diabasis: A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino.
"Bologna ha il monumento ai caduti più straordinario che ci sia. Orribile ma perfetto. Dal punto di vista estetico, vale meno di zero, ma questo non cambia nulla. È un muro [...], e il nome di ogni morto è illustrato dalla sua fotografia, la fotografia fornita dalla sua famiglia".
Così, pochi anni dopo la fine della guerra, Jean Giono descriveva nel suo Voyage en Italie il sacrario dei caduti bolognesi, nato e cresciuto spontaneamente a partire dal 21 aprile 1945 sul muro di Palazzo d'Accursio. I familiari e gli amici di coloro che erano stati fucilati in quel punto iniziarono, immediatamente dopo la liberazione, a portare foto e fiori, attaccandoli sul muro che prima era stato lo sfondo delle esecuzioni. Quello che si crea in questo modo è un memoriale spontaneo, proprio nel luogo esatto dove avvennero gli eventi da ricordare, e fatto dai volti delle vittime. Volti raccolti in fotografie, tolte per questa occasione dolorosa da album di famiglia e documenti.
In conseguenza di un incendio (forse doloso), nel 1948 il sacrario viene ricostruito con nuove immagini - sempre portate da familiari e congiunti delle vittime - che questa volta vengono protette da un vetro. Ma l'effetto del sole attraverso il vetro danneggia le fotografie, che iniziano a sbiadire quando non ad accartocciarsi. Sarà la necessità di rendere il nuovo sacrario duraturo a portare - nel 1956, e quindi dopo il viaggio di Giono - alla costituzione dell'attuale muro dei martiri bolognesi: più saldo, grazie alla fotoceramica, ma forse meno straordinario e coinvolgente.
Alcuni decenni dopo, nel corso dell'estate del 1980, lo scoppio della bomba nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria genera nei bolognesi una reazione spontanea di natura simile. La città risponde con coralità, immediatamente nell'aiuto, e successivamente, nel ricordo. Nei mesi che seguirono la strage, l'associazione dei familiari delle vittime scelse con fermezza di mantenere memoria del fatto nel luogo stesso, rispondendo negativamente alle proposte di creare segni monumentali in altre parti della città, benché venissero prospettati sia luoghi che forme di maggiore rilievo. Il luogo diviene il fulcro del ricordo: forse per istinto, forse per la consapevolezza che solo quel punto tiene insieme vittime che non hanno null'altro in comune che l'attesa o il passaggio in stazione.
Ma una stazione deve continuare ad assolvere la sua funzione: quindi, mentre viene bandito un concorso per un nuovo complesso (che porterà a un nulla di fatto), l'ala distrutta viene ricostruita e il primo binario ripristinato. L'impianto originario, che prevedeva una distinzione fra sala d'aspetto di prima e seconda classe (e proprio in questa, va ricordato, venne collocata la bomba) cede il passo a una scelta diversa, forse simbolo di una società che si voleva diversa: la scelta di realizzare una sala d'aspetto unica. È qui che si decide di mantenere i segni dell'esplosione: la pavimentazione preesistente, il segno del cratere lasciato dallo scoppio, lo squarcio nella parete che prosegue nella pensilina sul primo binario. E l'orologio fermo, a segnare il tempo interrotto per sempre per le vittime della strage, il tempo infinito e incommensurabile per chi, ferito, ha atteso di essere tirato fuori dalle macerie.
Orologio più volte fotografato, in quel 2 agosto e nei giorni successivi. Ma solo a posteriori divenuto un'icona di questa strage, che porta un nome "temporale": certo, strage "di Bologna", ma più chiaramente "del 2 agosto". Di un giorno in cui si va in vacanza, di un giorno che si pensa finalmente leggero, liberato dal peso della quotidianità. L'ora, nei primi tempi, viene riportata dai giornali in maniera un po' approssimativa; poi si fissa, alzando gli occhi a quell'orologio infranto e fermo: 10.25. Il momento in cui il tempo dell'attesa e il tempo della fretta, le due dimensioni cui è riducibile il tempo in una stazione ferroviaria, si fermano.
Trent'anni dopo ci si chiede se queste tracce - l'orologio, il cratere, lo squarcio - indelebili per chi le conosce, sappiano parlare anche a chi transita dalla stazione senza sapere nulla del suo passato, per motivi di distanza geografica o generazionale. Solo chi attende nella sala d'aspetto ha forse il tempo per soffermarsi sulla parete squarciata e sulla lapide coi nomi. Su questi segni pensati, voluti, creati o tenuti, e anche su quella fotografia inspiegabilmente fuori tempo del Teatro Comunale: già arredo della sala precedente, questa immagine decorativa, e introduttiva alle bellezze della città, si è salvata dallo scoppio e un dipendente delle ferrovie l'ha tenuta nel proprio ufficio per anni. Dopo il suo pensionamento, alcuni anni fa il pannello con l'effigie del teatro bolognese è stato ricollocato nella sua posizione originaria, generando, per chi lo guarda, quello straniamento che è capace di suscitare domande. Come straniante, del resto, è un orologio fermo, proprio sulla facciata di una stazione. A meno che non ci si risponda che "cosa vuoi mai? siamo in Italia", dove l'inerzia prevale.
Poco più di un mese prima della strage alla stazione ferroviaria, un altro evento aveva colpito duramente la serenità dei flussi estivi: un DC-9 Itavia partito da Bologna alla volta di Palermo si era inabissato nel Tirreno a pochi minuti dall'atterraggio. Inizialmente rubricato come incidente, solo dopo una complessa inchiesta giornalistica, che poi diventa anche giudiziaria, il disastro di Ustica si rivela anch'esso una strage, causata da "un'azione militare di intercettamento, azione di guerra di fatto e non dichiarata". La memoria dei fatti prende forma attraverso i pochi filmati trapelati dai telegiornali: il mare, uno o due corpi galleggianti. Per alcuni anni sono solo queste le immagini del fatto. Poi, alla fine degli anni Ottanta, la campagna di recupero dei frammenti dell'aereo e la conseguente ricomposizione del relitto, richieste dal procedimento giudiziario, creano delle nuove "icone": innanzitutto la sagoma del DC-9 ridisegnata su una rete metallica, ma anche tutti gli oggetti minuti pertinenti all'aereo e appartenenti ai passeggeri, disposti ordinatamente, per serialità, all'interno dell'hangar di Pratica di Mare. E, infine, i tracciati radaristici: immagini indecifrabili, immediatamente evocative di misteri e segreti.
Priva di un luogo, benché denominata proprio con un toponimo, la strage di Ustica si deposita così in una memoria di immagini, alimentata e accresciuta da servizi giornalistici e programmi televisivi di inchiesta. Il film del 1991 di Marco Risi (Il muro di gomma) e lo spettacolo di Marco Paolini di quasi dieci anni dopo (I-TIGI. Canto per Ustica) aggiungono a tale immaginario visivo la narrazione delle vite inabissate e di quelle sopravvissute nelle esistenze cariche di interrogativi dei familiari. A differenza di altri stragi, infatti, in questo caso non ci sono testimoni: nessuno resta per poter raccontare. In questa strage senza luogo e senza voci, quindi, il ruolo dei familiari delle vittime è tanto più fondamentale per il mantenimento della memoria dell'evento. E nel 2007, proprio grazie al loro impegno, viene inaugurato il "Museo per la Memoria di Ustica" (www.museomemoriaustica.it).
Il "per" della denominazione viene spesso dimenticato, mentre porta con sé un significato fondamentale: il "racconto memoriale" di Ustica non esiste ancora; non esiste e forse non esisterà mai una memoria condivisa. Il museo si configura allora come una sorta di "luogo di memoria", creato per custodire le reliquie della strage: il relitto dell'aereo, unico testimone e reduce suo malgrado, e tutti gli effetti personali dei viaggiatori. Un testimone muto, difficile da interrogare, che può raccontare solo attraverso la sua presenza, l'evidenza del suo corpo restituito dal mare e ricostruito. E abiti, sandali, libri, valigie, costumi, maschere da sub... oggetti troppo carichi, densi, per essere esposti, quindi rispettosamente deposti in casse nere, che sono insieme reliquiari e bare.
Per riuscire a creare uno schermo, una via di accesso a queste reliquie altrimenti quasi insostenibili per il visitatore, l'associazione dei familiari delle vittime ha coinvolto un artista, il francese Christian Boltanski, la cui poetica è da sempre vicina alla dimensione della perdita e della ricostruzione di vite perdute (intese come esistenze intere o fasi della vita). Ottantuno lampade a incandescenza che pulsano al ritmo del respiro, ottantuno specchi neri come finestrini di un aereo accecato, ottantuno voci che sussurrano pensieri comuni: desideranti, buoni o cattivi, ma in ogni caso sospesi, interrotti. Entrando nel museo di sera, c'è un momento in cui, dal buio dell'apnea, le luci iniziano ad accendersi lentamente e l'aereo appare, come dalle profondità degli abissi. Come un'immagine che emerge pian piano dal nulla, dal liquido di sviluppo, dal passato lontano o rimosso.
E ancora immagini, fotografie, sono quelle che ritraggono e inventariano tutti gli abiti, gli occhiali da sole, gli zoccoli, i sandali, le creme, le borse: tutti gli oggetti appartenuti ai viaggiatori, tutte le cose sopravvissute alle vittime, cose che, come scriveva Borges, "dureranno di là del nostro oblio / non sapranno mai che ce ne siamo andati". O che forse, in questo caso, lo sanno benissimo, per via di quei dieci anni rimasti sul fondo del Tirreno. Quelli scattati prima della deposizione nelle casse nere, e poi raccolti in un libretto a disposizione dei visitatori, sono ritratti di cose: disposte per serialità, nel loro ventaglio di fogge, fantasie, tessuti, anche attraverso quelle forme della moda che ci coinvolgono tutti. Le cose raccontano un momento preciso della nostra storia, e ci fanno avvertire la nostra somiglianza con quelle vittime, così casuali, così comuni.
Più di mezzo secolo dopo le considerazioni di Giono, possiamo dire che pure in questi due casi, ancora bolognesi ma diversi fra loro e diversi da quello del 1945, si creano "monumenti straordinari". In mezzo, tra le parole dello scrittore francese e noi, sono intercorse moltissime riflessioni sulle catastrofi e il fare arte dopo di esse e, di conseguenza, una profonda crisi ha investito la forma del monumento commemorativo. Proprio dopo il 1945, anche per via dell'uso e dell'abuso che ne hanno fatto i regimi che portarono alla catastrofe bellica, il monumento è stato discusso e considerato inefficace di fronte alla natura degli eventi da commemorare, in determinati casi definiti indicibili. Parallelamente, i linguaggi delle arti - nel senso più ampio del termine - hanno avviato processi di trasformazione volti a una maggiore relazionalità, spesso cedendo sul piano della perennità o della lunga durata, per incidere di più sul presente, benché in modo temporaneo.
Le cose - intendendo proprio le cose rimaste nel senso borgesiano, rimaste di noi e dopo di noi - sono in molti casi diventate i principali veicoli per creare memoriali e musei, non più monumenti, in ricordo. Le cose e le fotografie, sia per il loro soggetto che per la loro materialità, e per la ragione sottesa allo scatto. "Questi fantasmi disposti lungo il marciapiede, in uno dei luoghi più frequentati della città e così com'erano nella loro umile vita, sono più commoventi di tutti i grandi ordini architettonici". È ancora Giono, precocemente e istintivamente, a indicare il cuore di questa trasformazione, di cui solo ora comprendiamo a pieno il significato e l'entità.
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