Rivista "IBC" XIX, 2011, 1

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi, leggi e politiche

Il nostro paesaggio è un bene comune fragilissimo: per salvarlo e tutelarlo nel tempo occorre innanzitutto conoscere la sua storia. E poi agire in modo collettivo e condiviso.
L'unità del paesaggio

Maria Pia Guermandi
[IBC]

Il tema del paesaggio e del territorio nel suo insieme ha assunto, nell'attuale fase politica, un'importanza cruciale. Ritrovandosi al centro delle attenzioni come elemento di snodo dal punto di vista economico, è divenuto oggetto di interessi fortissimi e contrastanti, che sottendono visioni diverse e spesso inconciliabili, non solo del nostro patrimonio culturale, ma del concetto di sviluppo e, in definitiva, del nostro futuro. In Italia, e quindi anche nella nostra regione, questo primo decennio del terzo millennio ha visto riaccendersi il contrasto fra tutela e sviluppo, con modalità nuove nell'asprezza e nell'intensità: per quanto riguarda il paesaggio, questo fenomeno ha condotto a un confronto spesso conflittuale, se non lacerante, con le operazioni di trasformazione territoriale.

Un recente testo di Salvatore Settis - Paesaggio, costituzione, cemento (Torino, Einaudi, 2010) - fotografa drammaticamente l'attuale situazione, ma al contempo ne sottolinea la discrasia rispetto all'eccellenza della nostra legislazione di tutela: una storia di lunga tradizione, che ha saputo elaborare sistemi normativi di grande coerenza ed efficacia, spesso presi a modello da altre legislazioni nazionali. L'Italia è stata la prima, ed è tra i pochissimi paesi moderni, ad avere inserito fra i principi fondamentali della propria Costituzione, la tutela del patrimonio storico artistico e del paesaggio, riconoscendone quindi le caratteristiche di valori fondanti dell'identità nazionale, e affidandone i compiti alla Repubblica, nel suo essere costitutivo di Stato, regioni, province e comuni.

Per quanto riguarda lo Stato unitario, la tradizione legislativa deve essere fatta risalire, come prima elaborazione compiuta, alla legge n. 778 del 1922, la cosiddetta legge "Croce", che in pochi sintetici articoli decretava l'inserimento delle "bellezze naturali" nel patrimonio culturale nazionale, e quindi la loro salvaguardia; da tale nucleo si sviluppa la legge n. 1497 del 1939, emanata da Giuseppe Bottai, una legge che, pur con ben altra articolazione, eredita dalle norme del 1922 la filosofia largamente estetizzante: il paesaggio da tutelare è solo quello esteticamente pregevole. In entrambi questi documenti legislativi troviamo però inserito un principio di grande importanza e innovazione, quello della "pubblica utilità", attribuito come valore intrinseco del nostro patrimonio paesaggistico, che già lo stesso Croce, nella relazione alla legge del 1920, assumeva come limite alla proprietà privata. Nella 1497 del 1939, sulla "protezione delle bellezze naturali" veniva inoltre introdotta un'importante novità: all'articolo 5 era attribuita al ministro dell'educazione nazionale la "facoltà di disporre un piano territoriale paesistico, volto a impedire un'utilizzazione pregiudizievole alla bellezza panoramica" delle località vincolate dalla medesima legge.

Nel 1972, con la nascita delle regioni e il trasferimento di competenze legislative e amministrative, la possibilità di legiferare in merito ai piani territoriali paesistici viene trasferita agli enti regionali. Tuttavia, sia prima che dopo il 1972, la pianificazione meramente paesistica, in Italia, fu sempre praticata poco e male. Occorrerà giungere alla legge n. 431 del 1985, la cosiddetta "Galasso", che per larga parte rappresenta la cornice legislativa entro cui ci muoviamo tuttora, dal momento che l'adeguamento al successivo "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è ancora un processo largamente in itinere. Interrompendo nove lustri di inerzia politica e legislativa in materia di pianificazione del paesaggio, la "Galasso" integra gli elenchi delle bellezze naturali e d'insieme della legge 1497 con alcune categorie di beni (dai territori costieri alle zone d'interesse archeologico) assoggettati ope legis a vincolo paesaggistico, e dispone che le regioni provvedano alla redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici.

Praticamente in una sola notte, dal 7 all'8 agosto 1985, il territorio nazionale tutelato, in virtù della "Galasso", passava dal 18% al 47%, da 53.713 a 141.751 chilometri quadrati: indubbiamente un ampliamento, sul piano della tutela, decisivo e fondamentale. Ma la legge 431 rappresenta un'evoluzione decisiva anche per quanto riguarda il concetto di paesaggio: da una concezione soggettiva a una maggiormente oggettiva dei beni culturali, fondata su parametri fisici; da una concezione estetizzante a una strutturale. Le regioni, ovviamente, furono chiamate a confrontarsi da subito con il nuovo strumento, ma tale processo avvenne in maniera estremamente disomogenea sul territorio nazionale.

Per quanto riguarda la Regione Emilia-Romagna, la "Galasso" portò all'elaborazione di uno dei primi e più efficaci piani paesaggistici regionali elaborati in adeguamento alla legge. In quello scorcio degli anni Ottanta il Piano territoriale paesistico regionale (PTPR) dell'Emilia Romagna rappresentò certamente un punto di innovazione e di avanzamento della cultura ambientalista in Italia. Frutto di una discussione scientifica, politica, culturale in senso ampio, appassionata e allargata, fu ripetutamente apprezzato, fra gli altri, da Antonio Cederna, anche perché, fra i vari meriti, costituiva un risultato concepito, coordinato ed elaborato dalle strutture interne di un'amministrazione pubblica.

Un altro progresso decisivo, dal punto di vista della cultura paesaggistica, è rappresentato dalla "Convenzione europea del paesaggio", firmata a Firenze nel 2000 (ma ratificata dall'Italia solo nel 2006). Con qualche semplificazione, gli elementi innovativi di questo documento possono essere riassunti nell'estensione del concetto di paesaggio a tutto il territorio e a tutti i tipi di paesaggio. Il paesaggio così inteso rappresenta l'esito più complesso di un processo di interazione che si svolge nel tempo e che vede come protagonisti l'uomo, la società e l'ambiente: di conseguenza l'attenzione viene spostata dagli oggetti alle loro relazioni, ai soggetti che rappresentano e determinano i diversi paesaggi. Il paesaggio non è dunque uno sfondo da contemplare o conservare, ma il prodotto di un sistema relazionale in divenire, che si produce grazie al coinvolgimento della molteplicità di attori che abitano, attraversano, percepiscono, raccontano il territorio, costruendo il proprio ambiente di vita, impregnandolo di significati, producendo e riorganizzando continuamente assetti e risorse.

Anche per merito della Convenzione, sostanzialmente, ci si allontana da un approccio riduzionistico che intende il paesaggio come la mera sommatoria di tutti gli oggetti estetico-culturali o naturalistici di pregio, mentre si sviluppa una specifica attenzione alle molteplici relazioni che esso contiene ed esprime. Il paesaggio diviene quindi, per la prima volta compiutamente, da bene paesaggistico, patrimonio culturale, e, come tale, elemento di un sistema da realizzare attraverso processi di interpretazione, sensibilizzazione, formazione, che consentano all'intera popolazione di riconoscere i valori del proprio ambiente di vita, di apprezzarne il significato e di condividerne la responsabilità della tutela.

Tornando alla storia legislativa italiana, nel 2004, con successive modifiche nel 2006 e 2008, viene introdotto il "Codice dei beni culturali e del paesaggio", che trova la sua prima ragion d'essere nella necessità di adeguare il corpus legislativo al mutato quadro costituzionale creato dalla riforma del titolo V della Costituzione. Riforma che in tutta la materia del Codice (beni culturali e paesaggio) aveva introdotto più di un elemento di confusione, destinato a sfociare, come è puntualmente avvenuto, in una sorta di microconflittualità strisciante fra Stato da un lato e regioni-enti locali dall'altro. Una conflittualità che ha caratterizzato anche la successiva redazione del Codice.

Sul piano dei contenuti, le critiche al Codice hanno sottolineato da più parti come alcuni richiami al contenimento del consumo di suolo o allo sviluppo sostenibile, pur presenti nel testo, non comportano alcun preciso o nuovo impegno all'interno dell'elaborazione dei piani paesaggistici e finiscono con l'essere quasi solo una verniciatura lessicale: un dovuto, scontato omaggio al "mantra" del momento. Più in generale, inoltre, al Codice si è rimproverato di aver tradito, almeno in certa misura, lo spirito della Convenzione di Firenze, per ricollegarsi (con quello che è stato giudicato un arretramento concettuale) alla precedente tradizione legislativa nazionale.

In realtà il Codice non poteva non porsi in una logica di continuità sostanziale con la legislazione precedente, dalla "Bottai" alla "Galasso", ma rappresenta, nella versione attuale, un buon punto di mediazione fra esigenze diverse: prima fra tutte quella della conciliazione fra Stato e regioni nella diversificazione delle funzioni. Con l'arrivo del Codice, infatti, è cambiato anche il rapporto Stato-regioni. Mentre nella "Galasso" erano le regioni, autonomamente, che provvedevano alla redazione dei piani paesistici, dal Codice in poi vi è una nuova assunzione di responsabilità da parte dello Stato, chiamato innanzitutto a individuare "le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione" (articolo 145, comma 1). Le regioni e il Ministero per i beni e le attività culturali sono chiamati a stipulare intese per l'elaborazione congiunta dei piani paesaggistici relativamente alle aree tutelate, mentre le regioni devono adeguare la loro pianificazione paesistica, processo tuttora in corso e con gravissimi ritardi.

Le criticità da affrontare sono molteplici: sul piano politico e su quello amministrativo, gli ultimi lustri hanno sancito una ridefinizione delle funzioni di programmazione. In campo urbanistico si è sempre più diffusa la delega di tali funzioni a livello provinciale e comunale: è quindi cresciuta la difficoltà a programmare una strategia territoriale su area vasta, e a ripensare il proprio territorio in termini complessivi, non collegati esclusivamente a modelli di sviluppo a senso unico. Eppure le regioni rimangono lo snodo fondamentale, in quanto impegnate sui due versanti, sia nei confronti dello Stato che nei rapporti con gli enti locali: a esse spetta, innanzitutto, disciplinare l'iniziativa degli altri enti pubblici nell'organizzazione del territorio. Se infatti, soprattutto in questo ambito, il principio dell'autorità viene sempre più sostituito da quello della responsabilità condivisa e partecipativa, ancor più necessaria diventa l'azione regolatrice della pubblica amministrazione, in quanto unica a poter rappresentare bisogni ed esigenze dell'intera collettività.

A partire dagli ultimi due decenni i nostri paesaggi sono stati caratterizzati dall'espandersi esponenziale di fenomeni contemporanei di abbandono e di sovrautilizzo: vi è dunque necessità di strumenti regionali di indirizzo, di coordinamento e di orientamento delle politiche settoriali, e di equilibrio fra conservazione e trasformazione. D'altro canto, è solo a livello regionale che diviene possibile promuovere l'integrazione tra esigenze del paesaggio e politiche di spesa settoriali (per l'agricoltura, il turismo, eccetera) ed elaborare adeguati, aggiornabili ed estesi sistemi unitari di conoscenza, di sperimentazione e di formazione.

Sempre più chiara è la consapevolezza che sia necessario un cambio di passo per uscire dallo stallo in cui ci troviamo e che tale opportunità vada cercata innanzitutto in un diverso atteggiamento cooperativo tra le varie componenti della Repubblica. Addirittura urgente è la necessità di costruire un concetto di federalismo fortemente ripensato rispetto alla vulgata attuale e che si innesti in una riflessione ad ampio raggio, una sorta di rifondazione della politica culturale, capace di innescare un processo di confronto con quella economica: un confronto paritario e non velleitariamente superiore nel dettato normativo, quanto regolarmente perdente in re. Una politica culturale "federalista", non in quanto frutto di sterili contrapposizioni istituzionali, ma perché capace di suscitare dei meccanismi di riconoscimento e di appropriazione nei confronti del nostro paesaggio. E non più soltanto a un livello elitario, ma esteso alle comunità (nel senso più allargato del termine) viventi sul nostro territorio: prime e fondamentali attrici di una tutela non solo passiva, e di quella fruizione che ne è il necessario ma troppo spesso trascurato esito.

La vastità e la complessità di tale compito richiedono una cooperazione progettuale e operativa di tutti gli operatori pubblici coinvolti, che sola può contrastare l'endemica scarsità di risorse da sempre assegnate a un settore che, al di là delle tuttora ripetute e altisonanti affermazioni di principio, è vittima di politiche di costante marginalizzazione. Le sfide che ci troviamo di fronte sono di grande difficoltà: il paesaggio che cerchiamo di tutelare oggi rimanda a un mondo precapitalistico, fatto di luoghi e paesaggi che confliggono fortemente con la globalizzazione in atto; la sua conservazione è una delle poste in gioco della battaglia fra locale e globale. Per non risolversi in mera sopravvivenza fossile, il recupero di quel modello economico locale, artigianale e familiare deve partire dalla consapevolezza della qualità architettonica sia del paesaggio urbano (per i centri storici), sia di un paesaggio rurale unico per armonia e diversità culturale, ma anche per equilibrio nell'uso del suolo e delle risorse ambientali.

Il paesaggio, oggi, può essere il motore di una grande opportunità: riguadagnare il senso di una qualità diffusa che non siamo più capaci di garantire come in passato. L'auspicio che si va facendo strada a più livelli è quello di approfittare della crisi economica mondiale operando un deciso cambiamento politico e culturale, trasformando il nostro territorio e i nostri paesaggi in un grande cantiere di manutenzione ambientale e di mantenimento e gestione-valorizzazione di patrimoni insediativi e rurali. Per l'avvio di un'impresa di questo genere l'elemento fondante è la conoscenza analitica e scientificamente fondata del nostro territorio, a partire da una documentazione, aggiornata e su vasta area, dell'evoluzione storica del paesaggio: primo fondamentale strumento per la costruzione di qualsiasi operazione di pianificazione territoriale.

Ce lo aveva già insegnato Gambi: "conoscere per agire politicamente"; e per agire politicamente (cioè pianificare) sul paesaggio, occorre acquisirne quella "cognizione discretamente matura" che è frutto di studio, ricognizione, analisi e sintesi ripetuta e consolidata nel tempo. Non è un caso, d'altronde, che Lucio Gambi - pur partito da posizioni di severa critica nei confronti della "Galasso" (da lui, grandissimo studioso del territorio, giudicata troppo rigida e schematica) - abbia accompagnato la vicenda del Piano territoriale paesistico degli anni Ottanta. E non è un caso, soprattutto, che lo stesso Gambi sia fra i protagonisti della fondazione del nostro Istituto, da lui, primo presidente, interpretato come imprescindibile strumento di conoscenza del territorio al servizio della programmazione regionale, non solo culturale.

Nella sua vicenda ultratrentennale, l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna ha interpretato un ruolo di ricognizione del territorio nelle sue valenze culturali e lo ha fatto con una sostanziale continuità, che è all'origine di un patrimonio documentale assolutamente unico, fra le regioni italiane, per ampiezza, varietà multimediale ed estensione cronologica (che, grazie all'opera di ricerca e acquisizione di fondi storici, si colloca ben oltre l'arco di vita dell'Istituto stesso). L'Istituto partecipò naturalmente alla vicenda della redazione del PTPR e non potrà che fornire il suo apporto per quanto riguarda l'adeguamento dello stesso PTPR ai sensi del Codice, il cui primo passaggio legislativo è rappresentato dalla legge regionale n. 23 del 2009.

Nelle sfide che affrontiamo oggi - dalla crisi del paesaggio agrario ai diffusi processi di omologazione, legati a forme di urbanizzazione estensiva che dissolvono il confine tra urbano e rurale e che tendono a ridurre sempre più il ruolo del paesaggio come elemento di riconoscimento identitario - solo una conoscenza consapevole e aggiornata potrà essere lo strumento decisivo per migliorare la nostra capacità di progettare e costruire paesaggi, anche al di là della conservazione e del restauro di quelli ereditati. Questo obiettivo si può realizzare ricostruendo il processo che ha portato alla formazione dei paesaggi stessi, riconoscendo i meccanismi economici e socioculturali che ne influenzano la costruzione. E diffondendo tale conoscenza, in modo da produrre una sensibilizzazione dell'opinione pubblica e degli attori locali, sia a livello delle istituzioni che della società civile.

Il nostro paesaggio è un bene comune fragilissimo: per salvarlo occorre un'azione collettiva condivisa dalla grande maggioranza della comunità che lo ha in custodia. È solo attraverso una lenta, faticosa, tenace, ma aperta operazione di coinvolgimento culturale che si potrà perseguire un'opera di tutela duratura ed efficace nel tempo.

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