Rivista "IBC" XIX, 2011, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, pubblicazioni

E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2010.
Il cielo sulle macerie

Vittorio Ferorelli
[IBC]

Monte Sole. Hiroshima. Auschwitz. Tre luoghi, tre storie diverse, per una domanda che, al di là dell'obbligo morale di non dimenticare, costringe a fare delle scelte: come si fa a mantenere in vita il ricordo di un villaggio, di una città o di un'intera popolazione, lì dove quel popolo, quel centro o quella comunità sono stati annientati? A partire da ciò che resta, il saggio scritto da Elena Pirazzoli per le Edizioni Diabasis, prende le mosse da questo problema per analizzare come e perché sono cambiate, dopo le tragedie estreme del Novecento, le forme da sempre a disposizione per "fare memoria".

La carneficina della Prima guerra mondiale aveva già impegnato gli addetti alla storia ufficiale con una questione inedita: cosa fare dei nomi di migliaia di uomini che, entrati in trincea, ne erano usciti senza lasciare un corpo per la sepoltura. A quell'epoca la retorica del monumento aveva ancora presa, ed ecco spuntare cippi, targhe, statue, colonne, come si faceva dai tempi antichi. Fino all'espediente sublime del Milite Ignoto, l'invenzione che, in nome della Patria, trasforma un'assenza in presenza, murandola sotto una pietra. Ma dal 1945, nei luoghi della follia totalitaria e dopo le catastrofi totali, queste strategie della memoria non sono più praticabili. Oppure, se nonostante tutto si praticano, rischiano di perdere senso di fronte alla dismisura della tragedia. Come se dopo l'apocalisse, a rompere il silenzio, arrivasse lo strepito di una fanfara.

Ricordare, tuttavia, si deve. Per onorare le vittime. Per evitare che tornino i carnefici. Lo si è fatto e lo si fa ancora, però sperimentando altri linguaggi, progettando operazioni in cui il ruolo degli artisti si fa decisamente più complesso rispetto ai tempi delle lapidi e dei bronzi. Perché privato dell'aura rassicurante del monumento e del fascino romantico delle rovine, chi ha il compito di fare memoria partendo dalle macerie, o dal nulla, ha davanti a sé possibilità diverse, ognuna con i suoi rischi e con i suoi vantaggi. Si può scegliere o creare un oggetto e trasformarlo in un "memoriale" (dove l'elemento monumentale in qualche modo permane). Si può delimitare il luogo dell'orrore lasciandolo come è rimasto. Si può ricorrere alle strategie di accumulazione, selezione e affabulazione collaudate dal museo. Si può anche costruire un "contro-monumento", fatto in modo che si trasformi, si degradi o addirittura scompaia con il tempo, autoironizzando sulle pretese di eternità.

L'autrice del saggio - una giovane storica dell'arte che non si è fatta impigliare nelle spire dell'iperspecialismo - esplora a tutto campo questo laboratorio, esaminando esperimenti molto diversi e osservando un processo che ancora è in corso. Senza perdere di vista, tuttavia, una differenza fondamentale: se fare memoria è un'esigenza collettiva, quello in cui affiora il ricordo rimane un momento individuale, e come tale è insostituibile. Anche in questo caso, soprattutto in questo caso, le possibilità espressive di ogni linguaggio artistico possono venire in aiuto. Perché, dopo le macerie, i racconti di Primo Levi o i versi di Paul Celan, proprio come le parole odierne degli ultimi sopravvissuti, sono alla fine tutto ciò che resta. Nella loro verità. E nella loro fragilità.

Nel corso della sua indagine, la ricercatrice bolognese compie due incursioni che sembrano sconfinare rispetto al problema di fondo. Una per riflettere sulle forme di memoria della nostra epoca ipnotizzata dalle immagini, e in particolare sulle modalità con cui viene rappresentata la guerra tra cinema e televisione. L'altra per esplorare alcune sopravvivenze della megalomania architettonica del nazismo, tra cui l'utilizzo di complessi civili periferici come luoghi di reclusione per gli ebrei (è il caso di Drancy, tuttora abitato da molti parigini, per lo più ignari) e la costruzione di edifici funzionali che si volevano indistruttibili, e che infatti in molti casi sono rimasti dov'erano, testimoni muti e imbarazzanti di una storia tragica.

Sembrano deviazioni, invece fanno parte del metodo adottato dalla ricercatrice, che avvicinando luoghi, testi e immagini a prima vista distanti e disparati, si affida al filo sottile dell'interpretazione che può legarli. Un metodo particolarmente evidente nelle sezioni che, alla fine di ogni capitolo, raccolgono e sistemano le immagini. Non si tratta di mere appendici iconografiche, ma di capitoli aggiuntivi, in cui la giustapposizione ragionata dei pezzi raccolti dà vita a cortocircuiti ulteriori rispetto alla trama delle parole scritte. Come quando, alla foto di Hitler che saggia con cura una fila di pietre destinate agli edifici del Reich, segue una serie di immagini che mostrano la cava di Mauthausen in attività. Con i prigionieri tutti in fila, sulla "scala della morte".


E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2010 ("Il castello di Atlante", 32), 253 pagine, 18,00 euro.

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