Rivista "IBC" XVIII, 2010, 1
biblioteche e archivi / mostre e rassegne, pubblicazioni
"Donne e lavoro: un'identità difficile" è il titolo dell'esposizione sulla storia delle lavoratrici emiliano-romagnole allestita nella Salannunziata di Imola (Bologna) dal 30 gennaio al 14 febbraio 2010 e ora disponibile tra le altre mostre itineranti dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC). Abbiamo chiesto alle curatrici, Rossella Ropa e Cinzia Venturoli, di riprodurre il testo che introduce il catalogo, pubblicato nella collana "ERBA - Emilia-Romagna Biblioteche e Archivi" della Soprintendenza beni librari e documentari dell'IBC. Il volume e la mostra fanno parte delle iniziative realizzate dal Comitato per le celebrazioni del Sessantesimo anniversario della Costituzione italiana (www.regione.emilia-romagna.it/costituzione).
Per analizzare il processo di trasformazione dell'identità femminile (individuale e collettiva) nella società italiana del Novecento, processo che ha portato le donne a esprimersi come cittadine sulla scena pubblica, l'attenzione deve soffermarsi, quasi per necessità, sulla presenza delle donne nel mondo del lavoro. Il loro inserimento produttivo ha infatti comportato, nel corso del tempo, una profonda rielaborazione dell'organizzazione sociale, in cui tendenzialmente non esiste più separazione tra ruolo maschile e ruolo femminile. La mostra, con focus sull'Emilia-Romagna, si propone di illustrare questo tema, ripercorrendo tempi e fasi dell'inclusione/esclusione femminile nel mondo del lavoro, individuandone cause e ragioni.
Dopo aver tratteggiato l'impossibilità di accedere a occupazioni ritenute "naturalmente maschili" di fine Ottocento e inizio Novecento, si è passati a delineare il riconoscimento a esercitare tutte le professioni ottenuto dopo la Prima guerra mondiale, riconoscimento negato e cancellato durante il periodo fascista, arrivando infine a illustrare la realizzazione della parità duramente conquistata con le lotte degli anni Cinquanta-Sessanta. Inoltre, all'interno delle diverse scansioni temporali in cui si dipana la mostra, si sono presi in considerazione:
· gli ambiti lavorativi esclusivamente femminili, le caratteristiche di tali ambiti (salari più bassi, status inferiore, minore qualificazione) e la loro evoluzione;
· le associazioni, le riviste e le donne che portano avanti le richieste delle lavoratrici;
· le filosofie sul tema del lavoro che dominano lo spazio comunicativo e sociale;
· la legislazione (di volta in volta: protettiva, discriminatoria, espulsiva) che da tali visioni del lavoro femminile scaturisce;
· le conseguenze sulle strutture sociali e sulla mentalità dominante.
Si è cercato, dunque, di esemplificare, attraverso una scelta necessariamente limitata di immagini e documenti significativi, alcuni aspetti basilari delle condizioni di vita e dei problemi sorti nel complesso rapporto che si instaura fra la donna lavoratrice e il mondo della produzione, collegando questa particolare condizione con i fermenti culturali e rivendicativi dei movimenti femministi e operai.
La mostra ha precisi limiti cronologici, che non sono parsi arbitrari: prende l'avvio dagli ultimi decenni dell'Ottocento per concludersi con gli anni Sessanta del Novecento. Tra fine Ottocento e inizio Novecento sembra infatti convergere un insieme di processi che concorsero a definire l'identità collettiva delle donne lavoratrici, ma soltanto in parte la legittimarono e la resero visibile.
Innanzitutto, si ebbero profonde trasformazioni economiche e sociali, che interessarono il mondo delle campagne, l'industria, il terziario e influenzarono il mercato del lavoro femminile e le stesse tipologie di lavoratrici. In agricoltura, la modernizzazione dei rapporti di produzione consolidava e ampliava i salariati, in particolare in area padana, determinando un forte incremento delle donne braccianti. Nell'industria, il settore tessile, a prevalente composizione femminile, registrava mutamenti del ciclo produttivo che comportavano lo sviluppo del sistema di fabbrica, il quale, però, conviveva con la permanenza del lavoro a domicilio. Inoltre, imponenti fenomeni di migrazione territoriale determinavano un sensibile flusso di manodopera dalle campagne alle città in espansione; in queste ultime aumentarono le opportunità di lavoro non soltanto negli opifici, ma anche nella fitta rete di laboratori e di atelier: le lavoratrici dell'ago (modiste, sartine, cucitrici) si moltiplicavano, aggiungendosi al gruppo delle domestiche e delle balie, di più antica tradizione. Si sviluppava, infine, il settore terziario e, nelle amministrazioni pubbliche, soprattutto le maestre e le impiegate si affermavano come nuove figure del lavoro femminile. Nel frattempo, si istituzionalizzavano altri mestieri legati all'ambito sanitario, come quelli della levatrice e dell'infermiera.
Nello stesso periodo, cresceva in Italia il bisogno di forme più ampie di cittadinanza: si andavano costituendo associazioni femminili che, accanto alla battaglia per il voto, si interessavano in modo particolare al lavoro delle donne; giungeva poi a maturazione il processo di gestazione dell'organizzazione sindacale che aveva avuto inizio dal lungo e complesso intreccio tra società di mutuo soccorso, leghe di resistenza e, in seguito, camere del lavoro e federazioni sindacali di categoria. Le associazioni femminili coglievano con lucidità, nel lavoro, una delle possibili vie di accesso all'emancipazione femminile, poiché poteva consentire autonomia e indipendenza, e promossero tante esperienze e attività per cercare di porre fine allo sfruttamento a esso connaturato. A loro volta, gli organismi sindacali furono indotti a misurarsi con realtà lavorative in cui le donne costituivano la quasi totalità ed esprimevano capacità di organizzazione e di lotta.1
Il fascismo propose un modello femminile, quello di moglie e di madre prolifica, funzionale alla creazione dello Stato totalitario, che doveva però fare i conti con la presenza delle donne in tutti i settori lavorativi. Il regime agì con la propaganda, l'educazione, l'organizzazione di associazioni strettamente legate ai lavori femminili, quali le Massaie rurali e la Sezione operaie e lavoranti a domicilio, e con provvedimenti legislativi, al fine di fare accettare alle donne una riduzione dello spazio lavorativo a quei settori di cura considerati adatti alla "natura delle donne". La Seconda guerra mondiale, la mobilitazione e la Resistenza accelerarono un processo che portò, nell'immediato secondo dopoguerra, all'acquisizione del voto e alla presenza pubblica, e politica, delle donne.
All'Assemblea costituente, il tema del lavoro e della possibilità di accesso a tutte le carriere fu discusso a lungo e venne inserito a pieno titolo nella Costituzione repubblicana. Iniziò quindi un periodo in cui numerosi furono i decreti attraverso i quali i principi costituzionali entrarono nella legislazione. Nel 1963, finalmente, vennero varate leggi che permettevano alle donne l'accesso a tutte le carriere e fu sancita la proibizione del licenziamento per matrimonio. Il boom economico di quegli anni, poi, segnava una forte cesura nella società italiana: trasformazioni radicali investivano i modi di produrre e di consumare, di vivere il presente e di progettare il futuro, persino di pensare e di sognare.2 I nuovi ordinamenti e il "miracolo italiano" aprivano strade nuove, all'inizio delle quali la mostra lascia, di necessità, le donne.
Per illustrare questi temi si sono utilizzate varie fonti: iconografiche (immagini d'epoca, manifesti, cartoline, pubblicità) e scritte (documenti d'archivio, testi di decreti, opuscoli, volantini, articoli di quotidiani e riviste, racconti, romanzi, memorie, testimonianze). Nel primo caso, l'obiettivo era proporre immagini che dessero conto della presenza delle donne nel mondo del lavoro, tenendo presente sia le diverse realtà provinciali, sia le diverse categorie lavorative da tratteggiare (si è cercato di documentare non solo quelle prevalentemente femminili ormai entrate nell'immaginario collettivo, come le mondine, ma anche quelle in cui le donne erano meno rappresentate, come le fornaciaie) e tentando di far fronte alle difficoltà di reperimento riguardanti soprattutto il periodo fine Ottocento e inizio Novecento. Le fotografie relative a quell'epoca sono infatti rare, e solo eccezionalmente presentano figure femminili al lavoro.3 Molti i motivi, e alcuni di questi attengono alle caratteristiche tecniche proprie della fotografia in quegli anni: ancora all'inizio del Novecento occorrevano attrezzature particolari, che richiedevano assistenti e lunghi tempi di posa; le fotografie erano quindi costose e appannaggio di una clientela facoltosa. L'obiettivo principale della committenza padronale era illustrare i prodotti della propria impresa e mostrarne i macchinari, per cui la presenza umana era puramente accessoria.
Ancora più scarse le immagini che ritraggano donne nel corso di scioperi. Anche i periodici come "L'Illustrazione italiana" e "La Domenica del Corriere", ricchi peraltro di illustrazioni a carattere sociale, solo sporadicamente ospitano rappresentazioni delle tante proteste femminili di quegli anni. Poche le eccezioni, tra le quali la manifestazione delle operaie tessili di Torino e le lotte nelle campagne del Parmense, che si ritrovano anche in una delle celebri copertine della "Domenica del Corriere" firmate da Beltrame. A meritare gli onori della cronaca, insomma, erano solo quegli episodi che colpivano l'opinione pubblica per la loro imponenza o che impressionavano per il livello di durezza assunto dallo scontro, come lo sciopero e la manifestazione delle cinquecento giovani apprendiste sarte (le "piccinine"), entrate a far parte dell'immaginario collettivo degli italiani anche grazie alle immagini a loro dedicate.
Ben diversa la situazione durante la Prima guerra mondiale: le immagini davano visibilità, per la prima volta a livello di massa, al lavoro delle donne, occupate poi in ambiti considerati generalmente maschili, come nel caso delle tramviere e delle operaie addette alla produzione di armamenti.4 Il conflitto portò, infatti, a una grande, nuova immissione delle donne nelle attività produttive, e alla progressiva sostituzione del personale maschile (richiamato al fronte) con quello femminile nel normale lavoro dei campi, degli uffici e delle fabbriche, tanto che, alla fine della guerra, le donne occupate nell'industria bellica risultavano essere circa duecentomila.
Le immagini che offre del lavoro il fascismo sono numerose e, sovente, danno conto di momenti propagandistici e di incontro fra gli esponenti del partito fascista e le donne al lavoro. Particolari sono le immagini di manifestazioni come i "Littoriali del lavoro", in cui le donne mostravano la loro abilità nella professione. La Seconda guerra mondiale ripropose la mobilitazione e la presenza delle donne nei lavori maschili. Nell'immediato secondo dopoguerra le donne erano soprattutto rappresentate nella loro nuova veste di elette ed elettrici, parlamentari, costituenti. Il lavoro femminile si concentrò e si mostrò nella ricostruzione; negli anni Sessanta propose nuove professioni: la donna magistrato, la poliziotta, l'operaia specializzata.
Tra le fonti scritte, di particolare rilievo sono state le carte di polizia: da esse è stato possibile raccogliere una serie di informazioni riguardanti soprattutto i lavori delle donne nel primo periodo preso in esame. I documenti redatti da questori e prefetti restituiscono, infatti, le immagini di miseria e di rassegnazione di molte lavoratrici, alle quali non restava altra scelta se non quella di chiedere sussidi per integrare lo scarso salario, tratteggiano le disavventure occorse nei rapporti con i padroni (nel caso delle domestiche), mettono in evidenza il modo in cui le amministrazioni pubbliche vagliavano la moralità delle loro dipendenti (nel caso di maestre e impiegate), accennano agli incidenti sul lavoro dovuti all'impiego di nuovi congegni meccanici, all'affollamento, alla giovane età delle operaie, ai lunghi orari di lavoro (nel caso delle operaie), e infine segnalano, con puntualità, le lotte intraprese dalle donne per migliorare le condizioni lavorative.
Per far emergere la realtà dei mestieri femminili - una realtà "sommersa", soprattutto alla fine dell'Ottocento - oltre agli articoli apparsi sui numerosi periodici femminili dell'epoca e alle inchieste svolte dal Ministero dell'agricoltura, industria e commercio e dalle varie associazioni con obiettivi economici o più propriamente sociali (analisi utili a delinearne alcuni elementi tipici) si è fatto ricorso anche alla letteratura. Se è legittimo riconoscere validità documentaria a testi letterari che rinviano a situazioni storiche, economiche e politiche, questo vale tanto più per i romanzi sociali del periodo (il riferimento è in particolare alle novelle di Matilde Serao), spesso documenti di storia quotidiana, vere inchieste socioculturali in cui compaiono pagine utili per ricostruire la mentalità collettiva dell'epoca.5 Il periodo fascista offre una notevole produzione di opuscoli realizzati per la propaganda, l'educazione e il coinvolgimento delle donne: il regime si autorappresentava sulla stampa quotidiana e periodica, ed è per questo motivo che fra le fonti scritte del Ventennio esaminate non potevano certo mancare quelle di questo tipo.
Note
(1) Si veda: G. Chianese, Storie di donne tra lavoro e sindacato, in Mondi femminili in cento anni di sindacato, a cura di G. Chianese, Roma, Ediesse, 2008.
(2) Si veda: G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma, Donzelli, 1996.
(3) Non sempre dunque è stato possibile documentare la realtà regionale di quel periodo e si è cercato di colmare i vuoti mostrando comunque le donne al lavoro in altre zone del Paese.
(4) Sull'argomento si veda: L. Lanzardo, Dalla bottega artigiana alla fabbrica, Roma, Editori Riuniti, 1999 ("Storia fotografica della società italiana"); L. Motti, Trecento foto per raccontare un secolo di storia, in Donne nella CGIL: una storia lunga un secolo, a cura di L. Motti, Roma, Ediesse, 2006; P. Di Cori, Il doppio sguardo. Visibilità dei generi sessuali nella rappresentazione fotografica (1908-1918), in La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e C. Zadra, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 765-800.
(5) Francesco Bruni, nella nota introduttiva a Il romanzo della fanciulla di Matilde Serao, scrive: "Le novelle della Serao generose di aperture su certe dimensioni ignorate dalle fonti storiche vere e proprie, potrebbero integrare le fonti stesse, delle quali giustamente, ma talora con un po' di esclusivismo, si servono gli storici" (Napoli, Liguori, 1985, p. XIII).
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