Rivista "IBC" XVIII, 2010, 1
musei e beni culturali, biblioteche e archivi / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi
Il 31 gennaio 2010 si è chiusa la mostra bolognese "Racconti a colori. Cesare Zavattini pittore" promossa dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna nel ventesimo anniversario della scomparsa di Za. In occasione della mostra, la Soprintendenza per i beni librari e documentari dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna ha pubblicato un volume che ricostruisce il rapporto del maestro con le arti figurative, non solo come scrittore, collezionista e promotore di eventi culturali, ma anche come pittore particolarmente attivo nella scena artistica italiana del suo tempo (i Musei civici di Reggio Emilia conservano 120 dei suoi dipinti). Curato da Giorgio Boccolari e Orlando Piraccini, il libro è stato realizzato in collaborazione con l'Archivio "Zavattini", istituito, per volontà degli eredi e col sostegno della Soprintendenza regionale, presso la Biblioteca "Panizzi" di Reggio (www.cesarezavattini.it). Da queste pagine abbiamo tratto il testo dello storico dell'arte Stefano Zuffi e una delle prime "autopresentazioni" di Zavattini "con il pennello in mano".1
Quando ha tempo, Winston Churchill dipinge paesaggi: indossa un camiciotto, piazza uno sgabello davanti al cavalletto, si siede a gambe divaricate (rimboccando i pantaloni all'altezza dei ginocchi), e impugna il pennello con occhio sicuro e un talento tutt'altro che disprezzabile. Chissà quante volte lo statista ha mugugnato, masticando il suo sigaro, per gli impegni che gli impedivano di dedicarsi a tele e colori. Quando ha tempo, Cesare Zavattini dipinge sé stesso, dentro e fuori: come per Churchill, negli stessi anni anche per Za il "lavoro", inteso soprattutto come scrittura, è una necessità che purtroppo sottrae tempo alla pittura, a quella "bella vacanza" dove "ci si sporca le dita, le braccia, il naso, trovi un verde nelle calze. Tutto un divertimento, insomma".
Rimpiangendo continuamente la mancanza di tempo, di spazio, di tecnica, di competenza, Zavattini ha dipinto per mezzo secolo, a partire dal 1938. La sua produzione è di una vastità impressionante: centinaia e centinaia di dipinti, da tele di grandi dimensioni a minuscoli foglietti, da disegni di pochi tratti a vaste composizioni in acrilico. Non è il tempo libero di un dilettante: è una parte essenziale nell'espressione creativa di un uomo che non conosce argini, la cui dilagante vitalità espansiva (fatta di totale disponibilità, incontri, amicizie, viaggi, attività di ogni genere) ha bisogno di pause di silenzio, di solitudine, di intimità davanti alla tela. Finalmente, Za può confrontarsi solo con i colori, con i pennelli, con gli stracci intrisi di tinte. E soprattutto può confrontarsi con sé stesso, offrendo nel suo mezzo secolo di pittura una sorta di autoritratto ininterrotto e diffuso: all'inizio, Za fa appena capolino nei suoi quadri, ma a poco a poco conquista la scena, diventa il protagonista assoluto, deformato, accennato, appena intravisto, nascosto nell'evanescenza liquida di un colore, oppure, all'opposto, in un grumo di materia quasi informe, eppure sempre inconfondibile.
Nelle ricostruzioni a posteriori, in parte anche giustificate dalle volute, leggere reticenze di Zavattini stesso, l'inizio di questa profonda passione dovrebbe essere vista come controparte lirica e privata rispetto alla tragedia della guerra. Ma forse non è vero. Nel giugno del 1938 Za aveva assistito a una vera e propria epopea: la vittoria della nazionale di calcio nel campionato del mondo ("coppa Rimet"). Dopo aver visto gli azzurri battere 3 a 1 in semifinale il favoritissimo Brasile a Marsiglia, insieme a un gruppetto di giornalisti milanesi Za proseguì alla volta di Parigi. Il momento entra nella storia: il 19 giugno, nello stadio Colombes, l'Italia sfida la temibile Ungheria dell'asso Sarosi. La formazione è rimasta celebre, si snocciola ancora oggi come una filastrocca: Olivieri; Foni, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli; Biavati, Meazza, Piola, Ferrari, Colaussi. Durante la cerimonia della presentazione e degli inni nazionali, i calciatori italiani alzano il braccio, allineati in un perfetto saluto fascista, e vengono subissati dai fischi della maggior parte degli spettatori (francesi) che gremiscono lo stadio Colombes. Pare di vedere Zavattini farsi piccolo piccolo sulle gradinate, e poi riprendere fiato e colore via via che la partita srotola la sua storia, fino al 4 a 2 finale per gli azzurri, all'abbraccio di gruppo di tutti i giocatori, che travolgono il canuto e temibile "tenente" biellese Vittorio Pozzo, finalmente disposto ad aprirsi in un sorriso di gioia. Un'emozione straordinaria per tutti, una parentesi di gioia mentre il mondo precipitava. E non era finita: il 14 luglio, proprio il giorno della Bastiglia, Gino Bartali scalava l'Izoard con un'impresa rimasta storica, volava a Briançon, conquistava la maglia gialla e si avviava a vincere il suo primo Tour de France: "tra i francesi che si incazzano e le carte che svolazzano", come canta Paolo Conte.
Le biografie ufficiali dicono che, poche settimane dopo, Zavattini si sarebbe ritirato in vacanza nella Bergamasca, a Oltre il Colle, "esaurito dal frenetico lavoro"; e che qui avrebbe cominciato a dipingere. Però, molti dei primi quadri di Za (anni '38-'39) sono pieni di azzurro, come le maglie dei calciatori, e di montagne, come quelle che avevano visto trionfare Ginettaccio, con angioletti che si sgranano in fila, lungo sentieri del cielo, come i gregari seminati lungo i tornanti di un'infinita salita.
Forse non è troppo azzardato pensare che la passione per la pittura, esplosa improvvisamente e senza preavvisi nell'estate del 1938, sia legata ai successi del pallone e della bicicletta in terra di Francia. La sagoma di Zavattini, che in molte fotografie appare infagottato in impermeabili fuori misura, bardato da basco o lobbia, e incorniciato dagli occhialoni con la montatura nera, parrebbe l'antitesi dell'aitante ginnasta: ma quell'estate sportiva del '38 gli ha cambiato la vita, gli ha dato la spinta per mettersi alla prova, per accettare una sfida nuova. Le grandi passioni nascono nei cuori più insospettati, come insegnano le memorabili cronache del Giro d'Italia scritte dal segaligno, allampanato Dino Buzzati.
Dunque, Za comincia a dipingere, e non smetterà più. Anzi, visto il rapido e giustificato successo di questa sua nuova e imprevedibile carriera, sostenuta già negli anni Quaranta da galleristi del calibro di Cardazzo e Barbaroux, ripetutamente scrive lui stesso le introduzioni alle numerose mostre, cominciando con quella del 1946 alla galleria veneziana "Il cavallino", intrattiene epistolari con critici e con artisti (come Savinio, Campigli, Messina), semina confidenze e aforismi, si interessa sempre più intensamente di pittura, progettando un film su Van Gogh e raccogliendo più avanti i materiali per l'impressionante lavoro su Ligabue, intreccio inestricabile di poesia, autobiografia, ricerca, sceneggiatura, cinema.
Appena scoperta, la pittura insomma conquista Zavattini, e non solo dal punto di vista della produzione. La diga si rompe: è un diluvio di progetti sulla pittura e sulle arti figurative, un turbine di sogni realizzati, alternati a utopie fantasiose. Una dopo l'altra, Za organizza le quattro esemplari "collezioni minime", riuscendo a coinvolgere tutti i migliori artisti italiani, diversi o addirittura antitetici per stile, orizzonti e generazioni, in imprese collettive di centinaia di dipinti, sia pure piccolissimi; progetta lotterie con opere d'arte in premio e vie "d'autore" in cui siano incastonati dipinti di grandi maestri (sia pure "protetti da spessi cristalli, esiste già il progetto!"); promuove incessantemente concorsi, suggerisce temi, elargisce incoraggiamenti, coinvolge collezionisti, ottiene collaborazioni.
È come se, amareggiato dalla "brutta" guerra, Zavattini avesse sentito il bisogno di circondarsi di bellezza. Bellezza vissuta non come rifugio privato, ma come condizione diffusa, sparsa a piene mani, accessibile a tutti, parte integrante della vita di ciascuno di noi. L'approdo alla pratica della pittura può anche essere forse casuale, ma non c'è dubbio che per tutta la vita Zavattini abbia cercato, coccolato, amato la bellezza, e si sia sempre sentito a proprio agio con le arti figurative: ne sono un'evidente riprova il collezionismo "minimo" degli anni Quaranta e la biblioteca ricca di libri e cataloghi d'arte accuratamente consultati, non semplicemente esibiti come coffee table books. Tra gli scritti di Zavattini (a parte gli approfondimenti su Van Gogh e Ligabue) compaiono, rapidi e luminosi come lampi, abbaglianti giudizi critici, frasi che dimostrano un amore sconfinato e, insieme, un gusto raffinato, educato da una lunga, appassionata e silenziosa frequentazione.
Ottimo critico di sé stesso, con il tradizionale disincanto Zavattini ha spesso additato la costellazione stilistica nella quale può essere individuata la sua opera di pittore: gli artisti che vivono passaggio dal surrealismo all'informale, fra cui soprattutto Fautrier e Dubuffet, con la loro art brut, sono i nomi di più immediato riscontro (ma attenzione alle parole di Zavattini stesso: "Sarebbe presuntuoso e persino stupido insinuare che Dubuffet o Fautrier mi devono qualche cosa; ma è altrettanto superficiale e disinformato darmi per antenati questi due egregi artisti quando nei miei limiti di pittore saltuario la mia origine si trova appunto nelle facce, che erano già autoritratti, di quel disperato periodo di guerra"). Insomma, come recita un vecchio adagio, quando si indica la luna, lo sciocco guarda il dito.
Per lo studioso riesce spontaneo l'esercizio di trovare corrispondenze e riferimenti, e insieme il desiderio di cercare di tracciare un itinerario cronologico, con la cosiddetta "evoluzione" dell'artista; non bisogna prendersela troppo con i critici d'arte: per loro si tratta di un riflesso condizionato, di una "deformazione professionale" incoercibile. Nel caso di Zavattini, però, le abituali categorie di giudizio in cui calare lo scandaglio dell'indagine critica risultano insoddisfacenti. Certo, si possono aggiungere altri interessanti accostamenti, da Tanguy a De Kooning, ripescare - per rigettarla subito, però! - la stantìa definizione di naïf, buttare là il ricordo di Maccari o persino di Licini, risalire indietro a Ensor e Klee, rivendicare analogie con Wols o con il Fontana nelle immediate imminenze dei "tagli", oppure anticipare contatti e suggestioni con il mondo della grafica animata (possiamo osare un parallelo con la poesia colorata di Lele Luzzati?): tutti nomi legittimi, s'intende, ma ogni volta che si cerca di inquadrarlo, Zavattini fa un passo in là, si sposta, inafferrabile. Sospira e guarda in alto, con sovrana rassegnazione. Esattamente come avviene nelle fotografie: fateci caso, l'espressione, il gesto, lo sguardo di Za è sempre altrove. Si possono sfogliare faldoni interi di scatti, istantanee, ritratti, e nemmeno una volta Zavattini "guarda in macchina": la sua mente e il suo gesto sono sempre in movimento e appaiono già altrove, avanti di un passo o di un secondo, a inseguire un pensiero che frulla via, a cercare una parola nuova da dire, a rivolgersi verso un diverso interlocutore.
Allo stesso modo, come si fa a ingabbiare entro i canoni, i binari, le sbarre della critica una pittura così libera, pura, sincera? In una lettera a Dino Buzzati, "alter ego" di scrittore e pittore dallo stile però diversissimo, Zavattini confessa: "A me manca un po' (o tanto) la tecnica e la pazienza". Non cerchiamo dunque di distillare stile e diligenza: Zavattini respira e dipinge, passa per la casa e aggiunge una nuova pennellata a un vecchio quadro, ci ripensa e cancella quello che aveva già fatto, e davvero azzeccato è il titolo, il tono, e l'assunto di un saggio di Renato Barilli, che parla di "nostra pittura quotidiana". C'è chi si è stupito del tono spesso serio, qualche volta persino macabro della pittura di Zavattini, in cui non mancano funerali, cimiteri, crocifissi e impiccati, come se fosse il frutto di un artista "spaventato". A parte il fatto che, volendo, si potrebbe contrapporre una produzione addirittura spassosa (basti pensare ai "golosi" e ai "mangiatori", di futuristica, coinvolgente allegria), Zavattini ha giustamente reagito con insolita fermezza: "Non mi sono messo a dipingere per informarvi che sono spaventato. Ho dipinto per dipingere, per godere, e il godimento è ineffabile e superiore a qualsiasi altro sentimento che intendi esprimere".
Cercare di spiegare la pittura di Zavattini è un'impresa inutile, come spiegare il dipanarsi dei giorni. Alla fine il critico che era partito con l'intero armamentario dei suoi precetti deve cedere all'evidenza: è così, e basta. La varietà di tecniche, formati, dimensioni e soggetti non corrisponde a una deliberata scelta poetica, ma alle libere scelte di uno spirito senza dogmi se non quelli dell'indipendenza e dell'intelligenza, e che proprio nel campo della pittura sente di non avere obblighi da adempiere. Lui stesso, e più volte, ha ironizzato sulla sua tecnica improvvisata, sulla "ignoranza" delle regole della buona pittura, sulla casualità dei tempi e degli spazi per dipingere, sull'improponibile rapporto con i grandi artisti (non senza domandarsi: "Ma Picasso, il meglio del secolo, ha impedito una sola delle sciagure che ci affliggono, una sola? Onestamente, no"). Non si fa illusioni taumaturgiche, e tuttavia conclude, testardamente: "Quante volte ho pensato che avrei preferito più di tutto fare il pittore".
Si capisce allora che questa attività estemporanea, queste ore sottratte al "lavoro", abbiano offerto per mezzo secolo a Zavattini l'occasione rara e preziosa per guardarsi in faccia, senza troppo roteare gli occhi, senza nascondersi dietro gli occhiali, senza poter fuggire altrove: tutto chiuso in quell'ovale - la forma che comincia ad apparire prestissimo, già negli anni Quaranta, e conquista progressivamente il ruolo di protagonista assoluto - il pittore si moltiplica e si dichiara fino agli ultimi, straordinari autoritratti "in bianco e nero", dove grumo, graffio, pasta, frego sembrano pasticci informi e invece "sono" inconfondibilmente, assolutamente, veramente Za. Proprio lui.
Cesare Zavattini, Autopresentazione, 1946
Alla mattina non sapevo che il bianco col rosso dà il rosa; quel pomeriggio del '39 il caso mi diede un pennello in mano: deve essere stato il mio angelo custode al solo scopo di trattenermi gentilmente nel mondo che allora consideravo quasi perduto; là dove alcuni sensi stavano morendo me ne accese dei nuovi. Fu tanto forte lo stupore quando messomi davanti a una cosa riuscii a ritrarne, sia pure puerilmente, l'immagine, che interruppi l'opera. Domani, dicevo, domani, come uno sposo che tarda per il troppo amore a possedere la sposa. Ma il connubio non è mai avvenuto. Seguito a copiare dentro di me chiudendo gli occhi, persino, se voglio approssimarmi con i miei poveri mezzi al progetto.
L'esercizio della pittura, tuttavia, non è stato inutile: i berretti di pelo nero dei battellieri del Po, che una volta mi parevano tutti uguali, finalmente li vedo diversi l'uno dall'altro: qualora si appenda uno di questi berretti a un piuolo saprei dire a quale battelliere appartiene.
Devo nominare vantaggi non meno grandi di cui godo proprio da quel dì del 1939: la minor paura della povertà, e della solitudine (ho paura, invece, che mi capiti un guaio alle mani o agli occhi); e la fede che la rivoluzione sarà possibile soltanto mediante la vista. Bisogna coprire i muri, i vespasiani, le scuole con le quadricromie dei contemporanei, dei vivi.
Non ci si intenderà su Dio o su una qualsiasi delle urgenti questioni con chi non crede e non sa che nel suo tempo, mentre lui sogna e attua, lo spirito della pittura continua imperturbabile a svolgersi. Sulle barricate crediamo di scontrarci per le famose questioni. Ah ah: si tratta di antagonismi intorno alle linee e ai colori.
A Boville ho fatto i quadretti scelti per questa pubblicazione. Dipingevo molte ore ogni giorno e appena che la luce stava per andarsene dietro i monti dalla parte di Formia pensavo: è la fine, l'alba non verrà più. Invano spalancavo gli occhi, fissavo un oggetto per proteggerlo dall'ombra. L'ombra veniva dal di dentro dell'oggetto e se mi distraevo minimamente l'ombra guadagnava un tono. Proprio di quel giorno volevo ancora godere, ma nessuna preghiera avrebbe ottenuto un bagliore di più. Interrotto per forza il lavoro, i tubetti rotolavano nella cassetta con rumore di ossa.
Boville è un paese antico a 90 chilometri da Roma, tra Frosinone e Aquino. Vi abitavo nel guerresco 1943. Tutte le sere vedevamo grappoli di lucernoni scendere lentamente dal cielo, tra Cassino e il mare. Spesso passavano nella vallata sottostante del Liri un po' nebbiosa gli aeroplani come pesci nell'acqua. Molto lontano si alzavano fumate, erano villaggi, distrutti senza che si potesse udire qualche lamento o qualche rombo.
Un crepuscolo di aprile certi bovillesi videro uscire dalle nuvole un uccello che pareva abbandonare le ali aperte sull'aria per pigrizia. Riconosco che si accorsero quasi subito che era un foglio di carta, di certo lanciato da qualche aeroplano altissimo. I bovillesi ne seguirono con i loro lunghi colli il volo mutevole a causa del vento. Planò sull'erba dove si fermò dopo alcuni sussulti. A Santa Liberata, che è una cappelletta distante un chilometro nei cui pressi appunto il foglio era disceso, gridarono i bovillesi. A raggiungere primo Santa Liberata fu un ragazzo che sventò con un tuffo un trepido tentativo di fuga del foglio.
Sorsero chissà da dove, oserei dire dai mulinelli di polvere, circa una trentina di ragazzi. Dal paese si vedeva che ballavano intorno alla preda, forse cantavano. Anche gli anziani decisero di affrettarsi alla volta del pio luogo. Intanto le strette vie di Boville risuonavano di ciabatte. La notizia dell'arrivo straordinario si era sparsa ovunque; nelle fontane le conche ciociare furono lasciate vuote e incustodite. Mio figlio Marco arrivò a Santa Liberata con la lingua fuori. Si parlava di pace prossima e una donna urlava che era un messaggio della Santa. Se lo passavano di mano in mano: privo di scrittura, bianco con strane chiazze di giallo, di verde e di blu. Mio figlio si ficcò in mezzo alle gambe delle guardie che si erano a stento impadronite del messaggio mentre le supposizioni miracolose si moltiplicavano. Mio figlio provò una grande delusione, mi disse a casa. E spiegò ai bovillesi che era un foglio di carta, volato via dal nostro terrazzo, col quale suo padre aveva pulito i pennelli. I bovillesi s'incamminarono su per la salita preceduti dalle braccia deluse che alzavano ogni tanto verso il grosso della popolazione schierato in attesa sulle mura.
[Pitture di Zavattini, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1946; nell'archivio "Cesare Zavattini", presso la Biblioteca "Panizzi" di Reggio Emilia, si conserva copia dattiloscritta del testo, con correzioni manoscritte dell'autore]
Nota
(1) Cesare Zavattini e la pittura. Un archivio dell'arte, a cura di G. Boccolari e O. Piraccini, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna - Editrice Compositori, 2009 (il testo di Zuffi e quello di Zavattini sono tratti, rispettivamente, dalle pagine 11-13 e 48-49).
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