Rivista "IBC" XV, 2007, 2
biblioteche e archivi / pubblicazioni, storie e personaggi
"Ma i libri, pur necessari, non parlano da soli". A Paul Strand e a Cesare Zavattini l'ultimo film di Ermanno Olmi, Cento chiodi, sarebbe piaciuto, fin dalle prime parole. Per loro, che del Po e della sua gente avevano scritto l'epopea, questa storia di un filosofo brillante che un giorno inchioda al pavimento di una grande biblioteca i libri più pregiati e si rifugia in una baracca sulle rive dello stesso fiume, in cerca di incontri, di saperi e di parole più autentici, avrebbe avuto un'eco familiare. Questa almeno è l'impressione che si ricava dalla lettura di un volume pubblicato alla fine del 2005, l'ultimo in ordine di tempo, e forse il meno retorico, tra i contributi per il cinquantesimo anniversario di Un paese, lo storico libro einaudiano che raccontò al mondo i volti e i luoghi di Luzzara attraverso le foto di Strand e le parole di Za.
Il volume - promosso dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e curato da Elena Gualtieri (insegnante di Letteratura inglese alla University of Sussex) - ricostruisce il "dietro le quinte" di Un paese analizzando materiali provenienti dall'Archivio "Cesare Zavattini" e dalla Biblioteca di Luzzara. Fotografie, naturalmente: quelle inedite di Strand, non selezionate per la pubblicazione; quelle del reportage "laterale" di Hazel Kingsbury, sua moglie e assistente; quelle documentarie di Arturo Zavattini, il figlio del nostro poeta, che testimoniano l'incontro luzzarese dei due autori nel 1953. Ma, soprattutto, una preziosa raccolta di testi inediti: il carteggio integrale tra il fotografo e lo scrittore, una lettura densa di confidenze utili per indagare come nacque l'inedito cortocircuito tra testo e immagine che poi abbiamo conosciuto sulla pagina.
Paul mandava le sue scatole di foto, ciascuna con la sua didascalia provvisoria: "Fabbro ferraio / 1,2 Rovina Domenico", "Padre e madre di un piccolo proprietario, poca terra", "129 - biciclette nel bosco"... E Cesare, intanto, pensava al menabò: "[...] se lei avesse qualche altra immagine di luoghi e di persone, specialmente di vita collettiva e di azione (per esempio: strade, piazze, il ballo o la lunga fila della gente in bicicletta o il passeggio sotto i portici, un'osteria o le donne mentre fanno la treccia o i braccianti che lavorano a rinforzare le dighe sul Po o l'uomo che va a caccia di tartufi col cane lungo gli arginelli), non sarebbe male aggiungerla". Una lettera dopo l'altra, prendeva vita e cresceva lo strano progetto di due artisti di paesi diversi che raccontavano la vita di un paesino della Bassa per raccontare quella di tutti i paesi del mondo.
Nei Cento chiodi il dialetto degli abitanti del Po, registrato in presa diretta e sottotitolato, rappresenta l'ultimo rifugio della verità, il riparo musicale degli ultimi (non si sa quanto durevole) dal mondo dei potenti e degli inganni. Era così già per Zavattini, che nel dar voce alle foto del mercato elencava tutti i modi per dire un bicchiere di vino ("gotu, smecmar, lucòt, polach, checu, bicèr, marùch, cuch") e denunciava già la loro scomparsa. I suoi ultimi libri saranno scritti in dialetto, forse proprio per dichiarare, definitivamente, da che parte stava. E c'è una battuta del film di Olmi che sembra scritta da Za, col pensiero rivolto al suo Strand: "Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico".
Paul Strand, Cesare Zavattini. Lettere e immagini, a cura di E. Gualtieri, Bologna, Edizioni Bora, 2006, 264 p., euro 25,83.
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