Rivista "IBC" XVII, 2009, 1

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / itinerari, storie e personaggi

A Sant'Agata di Villanova d'Arda, nella villa che fu di Giuseppe Verdi, oggetti e documenti continuano a raccontare le storie dei legami che unirono il compositore alla vita del suo tempo.
Caro Maestro, se ripenso a Parigi...

Zita Zanardi
[IBC]

"Caro Maestro, se ripenso a Parigi mi pare che sia già passato un tempo infinito da quelle liete giornate! [...] Una impressione d'arte veramente completa e profonda me la diede questa volta a Parma il Coreggio. Una sera nella chiesa di San Giovanni mi hanno fatto vedere la cupola illuminata a luce elettrica. Le navate erano immerse nelle tenebre, in chiesa eravamo tre: il Mariotti, Corrado Ricci e io, a un tratto tutto il dipinto dell'interno della cupola si rischiara al riflesso d'un centinajo di lampade Edison nascoste nel cornicione e quel sublime capolavoro apparisce come illuminato dal sole. Un vero miracolo. [...] Allora ho capito l'ammirazione che Lei ha pel Coreggio. È assolutamente necessario che Lei veda quella cupola in quelle condizioni di luce. Presto rischiareranno anche quella del Duomo più meravigliosa ancora. Ci andremo tutti: voglio che venga anche Camillo". Così scriveva Arrigo Boito il 2 dicembre 1894 e il "maestro" a cui si rivolgeva era naturalmente Giuseppe Verdi, che così gli rispondeva il giorno seguente: "[...] E Coreggio?!! meraviglioso e seducente pittore! Tanto bello, semplice, naturale [...]".

Questo, e molto altro, è l'oggetto di una piccola ma intensa mostra allestita nelle stanze aperte al pubblico di Villa Verdi, a Sant'Agata di Villanova d'Arda (Piacenza; www.villaverdi.org), in concomitanza con un evento culturale di rilevanza internazionale - la grande mostra dedicata ad Antonio Allegri detto il Correggio - e con l'inizio del festival verdiano che, come ogni anno, si svolge in ottobre per celebrare la nascita del grande compositore. Le due lettere fanno parte del ricco carteggio intercorso tra Verdi e Boito, che del primo fu amico oltre che autore di libretti: si deve infatti al loro sodalizio artistico e umano, iniziato nel 1880, la creazione di tre pietre miliari nella storia della musica e della cultura: Otello, Falstaff e il rifacimento di Simon Boccanegra. Il Mariotti cui fa riferimento Boito è Giovanni Mariotti, sindaco di Parma per più mandati (anche se non consecutivi) dal 1889 al 1914, grazie al cui interessamento Verdi riuscì a ottenere che la scuola pubblica statale del Ducato - la Regia scuola di musica - passasse all'amministrazione dello Stato italiano prendendo il nome di Regio Conservatorio di musica, in seguito dedicato proprio ad Arrigo Boito.

L'altro compagno di meraviglia, Corrado Ricci, era una personalità eclettica: nato a Ravenna nel 1858, faceva parte di quell'ambiente bolognese - all'epoca così stimolante e dinamico - che aveva come esponente più rappresentativo Giosue Carducci e comprendeva, fra gli altri, Enrico Panzacchi e Olindo Guerrini. Ricci amava e praticava tutte le forme espressive: fu storico dell'arte, musicofilo e poeta. Autore, ancora giovanissimo, di una Guida di Ravenna che lo stesso Carducci apprezzò e lodò, ricoprì vari incarichi, fra cui quello di alunno assistente alla Biblioteca nazionale di Firenze, insegnante di storia dell'arte e "sottobibliotecario" della Biblioteca universitaria a Bologna. Nel 1893 fu coadiutore e poi direttore della Regia Galleria di Parma, che riordinò redigendone il primo catalogo a stampa. Gli venne affidata anche la direzione della Galleria Estense di Modena e della Pinacoteca di Brera. Ma la data più importante della sua vita è sicuramente il 24 novembre 1897, quando viene nominato soprintendente dei monumenti di Ravenna, primo caso di soprintendenza nella storia del nostro Paese. Nel 1906 è nominato direttore generale delle antichità e belle arti e per tredici anni lavorerà instancabilmente per la tutela, il restauro e la conservazione del patrimonio monumentale di tutto il territorio nazionale, pur fra molte difficoltà.

In quanto al Camillo citato, che deve assolutamente condividere lo spettacolo delle cupole illuminate, si tratta del fratello di Arrigo, l'architetto che progettò per il Maestro la casa di riposo per musicisti di Milano intitolata a Verdi, il quale per la sua gestione destinò, tramite volontà testamentaria, tutti gli utili derivatigli dai diritti d'autore. La struttura fu inaugurata, presente lo stesso Verdi, il 16 dicembre 1900. In una successiva lettera del 19 aprile 1899, Boito ribadisce: "La stampa diede prova d'aver intuita tutta la immensa grandezza e idealità di quei tre pezzi che per me sono tre cupole del Coreggio e tali resteranno nella storia". La sorpresa deve essere stata molto simile a quella che i visitatori nei mesi scorsi hanno provato nel salire le rampe appositamente erette, che permettono di ammirare "a un palmo di naso" i cicli affrescati della cattedrale e del monastero di San Giovanni Evangelista. E il Maestro doveva provare davvero una grande ammirazione per il pittore rinascimentale, come si può evincere, oltre che dalla corrispondenza, anche dalla presenza, nella Villa, di due piccole tele attribuite alla sua scuola. Aggiunge anzi Gabriella Carrara Verdi, nell'indicarle, come il compositore sostenesse che, mentre gli angeli del Buonarroti gli incutevano timore, quelli del Correggio lo rasserenavano. È una guida d'eccezione, la signorina Gabriella, discendente e attenta custode di questa preziosa eredità culturale, di cui conosce e ricorda tutto: e mentre racconta si ha davvero la sensazione che il Maestro sia lì ad ascoltare, col suo sguardo attento e severo.1

Dentro la stessa vetrina, collocata nella camera da letto di Giuseppina Strepponi, seconda moglie di Verdi e compagna di una vita, oltre che prima grande interprete di Abigaille, accanto alle lettere di Boito sul Correggio, è possibile leggere alcuni documenti riguardanti la lavorazione sofferta del Rigoletto, opera rappresentata al Teatro Regio di Parma per l'ottobre verdiano, insieme con Giovanna d'Arco, Il corsaro (al Teatro Verdi di Busseto) e il Nabucco (al Valli di Reggio Emilia). Con I Lombardi alla prima crociata Verdi aveva già avuto il primo di una serie di scontri con l'autorità. Il cardinale arcivescovo di Milano, Karl Graf von Gaysruck, si era infatti appellato alla censura austriaca accusando di sacrilegio il musicista, che intendeva mettere in scena una vicenda nella quale - secondo l'alto prelato - veniva trattato con troppa superficialità un argomento di carattere strettamente religioso. Verdi, comunque, non apportò modifiche all'opera e il pubblico della Scala, l'11 febbraio 1843, accolse con entusiasmo il lavoro.

Ora si ripresentava lo stesso problema: il dramma di Victor Hugo, Le Roi s'amuse, da cui Francesco Maria Piave aveva tratto il libretto, non era piaciuto poiché vi erano descritte senza perifrasi le dissolutezze della corte francese e soprattutto quelle del re, Francesco I. E d'altra parte, nella biblioteca di Giuseppe Verdi, l'autore dei Miserabili è presente con tutte le sue opere in belle, pregiate edizioni, così come sono presenti tutti i più grandi scrittori moderni, soprattutto francesi, inglesi e tedeschi, come Goethe con il suo Werther nella rara edizione parigina del 1852, o l'altrettanto rara edizione del Faust, stampata a Parigi l'anno seguente. In tre lettere di Carlo Marzari, presidente del Gran Teatro La Fenice di Venezia, scritte tra l'11 novembre 1850 e il 25 gennaio 1851 è descritta la graduale trasformazione dell'opera, inizialmente intitolata "La maledizione": nella versione definitiva l'azione è trasferita alla corte di Mantova, a quel tempo non più esistente, trasformando il re di Francia in un duca e cambiando il nome del protagonista da Triboulet a Rigoletto. Le lettere sono accompagnate dal decreto della Direzione centrale d'ordine pubblico, indirizzato a Marzari, in cui sua eccellenza il governatore militare cavalier de Gorzkowski "deplora che il poeta Piave, e il celebre Maestro Verdi non abbiano saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità, e oscena trivialità, qual è l'argomento del libretto intitolato la Maledizione". Leggendo queste parole, il pensiero corre inevitabilmente alla riflessione di Albert Einstein: "Great spirits have always encountered violent opposition from mediocre minds".

Per passare nel locale dove sono state sistemate le altre vetrine, chiamato "gabinetto del Maestro", si deve attraversare la sua camera, dove tutto è rimasto come lui lo ha lasciato - d'altra parte è così anche nel resto della casa - e non si può fare a meno di gettare un'occhiata all'étagère posta a fianco del suo letto. Egli amava tenere vicino a sé i testi che gli erano più cari: oltre alle opere di Dante, tra cui una edizione della Divina Commedia (Firenze, Barbera, 1865), troviamo le Opere complete di lord Byron e il Teatro completo di Shakespeare (Padova, Minerva, 1838) nelle traduzioni di Andrea Maffei; è nota l'ammirazione che il Maestro nutriva per il grande drammaturgo inglese, ammirazione che lo spinse a musicare Macbeth: la stesura del libretto venne affidata a Francesco Maria Piave, al quale Verdi inviò una propria versione in prosa del testo shakespeariano, con una lettera di accompagnamento in cui tra l'altro scrisse: "Eccoti lo schizzo del Macbeth. Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane! [...] Lo schizzo è netto: senza convenzione, senza stento e breve. Ti raccomando i versi che essi pure siano brevi: quanto più saranno brevi e tanto più troverai l'effetto".

In seguito, non essendo completamente soddisfatto dell'esito, Verdi si rivolse all'amico Maffei, marito della contessa Clarina, chiedendogli di effettuare un'accurata revisione del libretto. Il nobiluomo trentino era infatti considerato un esperto traduttore e studioso delle opere dei maggiori poeti e drammaturghi stranieri: Thomas More e George Byron, lo stesso Shakespeare e soprattutto Schiller. Di quest'ultimo addirittura tradusse tutta l'opera drammatica, lavoro che lo impegnò per molti anni, contribuendo tra l'altro in modo fondamentale alla conoscenza di un autore che in Italia era praticamente ignoto. Fu proprio il Maffei a scrivere il libretto per l'opera verdiana I masnadieri. La revisione del libretto di Macbeth (che fu poi pubblicato anonimo) venne così ultimata: tra i brani più riusciti dell'opera vi sono un coro di streghe e la scena del sonnambulismo di lady Macbeth, i cui testi si devono proprio all'intervento di Maffei.

Nel gabinetto di Verdi, due armadi zeppi di spartiti musicali sono il frutto della sua lunga, proficua collaborazione con la Casa Ricordi (basti citare per tutte la bellissima edizione del Falstaff, qui sia nell'esemplare con la sontuosa legatura personalizzata, destinato al Maestro, sia in quello per la moglie Giuseppina) o degli autori da lui prediletti, come l'imprescindibile Johann Sebastian Bach e Marco Enrico Bossi (le cui composizioni sono sempre accompagnate dalla dedica autografa) testimonianze della sua formazione organistica. Curiosa è anche la ricca raccolta di canzoni napoletane (che attesta l'attenzione del compositore per questo genere musicale), omaggio dell'editore napoletano Teodoro Cottrau: ad appena vent'anni aveva ereditato la ditta del padre, la "Casa Editrice Musicale Girard", che sviluppò dandole il nome di "Stabilimento Musicale Teodoro Cottrau". Curò la stampa di L'Eco del Vesuvio, sedici album di celebri brani, e la prima serie di Le Mille canzoni di Napoli. Nel 1849 pubblicò le Celebri canzoni popolari, raccogliendo 94 canzoni coi testi dialettali tradotti in lingua italiana da Achille de Lauzières. Nel 1865 ripubblicò la raccolta Passatempi Musicali, coi 110 pezzi originali più altre 3 composizioni. Fu anche un noto autore di canzoni, tra le quali le famose Santa Lucia e Palummella, che lo resero famoso anche come compositore. Dopo la sua morte lo Stabilimento venne acquisito dalla Casa Ricordi.

Le vetrine ospitate accanto agli armadi contengono vari documenti interessanti: per prima si incontra la pagina del Nabucco con la grande aria di Abigaille del secondo atto, scritta a Parigi, nel 1851, appositamente per l'album della contessa Clarina Maffei. L'opera doveva avere un significato speciale per il Maestro, se confidava in proposito a Giulio Ricordi il 19 ottobre 1879: "Con quest'opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica; e se dovetti lottare contro tante contrarietà, è certo però che il Nabucco nacque sotto una stella favorevole [...]". L'album (gelosamente custodito altrove proprio per la sua unicità) è in tutto uguale a quelli in cui vengono inserite le foto che immortalano i momenti più significativi nella vita di ciascuno di noi: contiene invece una preziosa raccolta di autografi, lettere, disegni e dipinti iniziata da Clarina Maffei e da lei donata a Verdi, che la proseguì.

Bastino a testimoniare l'eccezionale interesse culturale e artistico di questo oggetto i nomi di alcuni degli autori che vi figurano: tra i musicisti si passa da un autografo musicale di Mozart a una lettera e una pagina musicale di Vincenzo Bellini, da un intero fascicolo di lettere e due fogli di musica di Gaetano Donizetti a una lettera di Niccolò Paganini, e poi lettere di Saverio Mercadante, Gioachino Rossini, Hector Berlioz. Tra gli scrittori, un sonetto di Vittoria Colonna, una lettera di Giacomo Leopardi al padre e ancora autografi di Lorenzo Mascheroni, Pietro Giordani, Giosue Carducci, Giuseppe Giusti, Domenico Guerrazzi, Heinrich Heine, George Sand, Alexandre Dumas padre e figlio, e persino una pagina dei Promessi sposi con correzioni manoscritte dell'autore. E ancora filosofi come Giandomenico Romagnosi e Vincenzo Gioberti, naturalisti e scienziati come Friedrich von Humboldt e Macedonio Melloni, politici e diplomatici del calibro di Talleyrand e Daniele Manin, Francesco Crispi e Pasquale Villari. L'album si chiude con la sezione degli artisti, rappresentati non solo da lettere - tra le quali autografi di Antonio Canova, Vincenzo Vela, Giulio Monteverde, Francesco Hayez, Giovanni Boldini - ma da disegni, acquerelli e persino piccoli dipinti a olio di Michelangelo Grigoletti, Vincenzo Luccardi, Domenico Morelli e molti altri.

Chiara Carrara-Spinelli era figlia del colto e sensibile conte Giambattista e della contessa bresciana Ottavia Gambara, discendente della poetessa Veronica. A diciotto anni sposò Andrea Maffei. Fu nel 1835 che la loro casa cominciò ad accogliere ospiti illustri, personaggi di spicco del mondo artistico e letterario milanese e non. Per quasi mezzo secolo, nel suo famoso "salotto", prima in via dei Tre Monasteri e poi in via Bigli, si avvicendarono le menti più brillanti dell'Ottocento: Massimo D'Azeglio, Giulio Carcano, Tommaso Grossi, Giuseppe Giusti, Carlo Cattaneo e poi ancora Liszt e Balzac. Qui viene introdotto anche Giuseppe Verdi, che stringerà nel tempo un rapporto di profonda amicizia con Carcano e con la stessa Clarina, tanto che proprio loro due faranno da testimoni alla separazione tra lei e il marito nel 1846. E sarà proprio qui che il Maestro farà la conoscenza di Alessandro Manzoni, per il quale nutrì una stima che rasentò la venerazione, come lui stesso dichiara in una lettera del 7 luglio 1868 alla Maffei: "Cosa potrei dirvi di Manzoni? come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me alla presenza di quel santo, come voi lo chiamate? Io me gli sarei posto in ginocchio dinnanzi, se si potessero adorare gli uomini".

E proprio Carcano, a conoscenza della profonda stima di Verdi per lo scrittore milanese, gli farà dono dell'editio princeps in tre volumi dei Promessi sposi (Milano, Vincenzo Ferrario, 1825-1826), che fa bella mostra di sé nella biblioteca della villa. Nel risguardo del primo volume è incollata la lettera con cui Alessandro Manzoni accompagnò il dono all'amico Giulio Carcano, il quale, generosamente, lasciò disposizione alla moglie di mandare l'edizione in dono al Maestro, come attesta il biglietto di Giulia Carcano Fontana riposto all'interno del volume. Quando il Manzoni morì, nel 1873, Giuseppe Verdi non ebbe il coraggio di assistere ai funerali, ma l'anno dopo ne commemorò la morte con la Messa da requiem, eseguita a Milano il 22 maggio nella basilica di San Marco sotto la sua stessa direzione. Gli interpreti furono scelti con grande attenzione: il tenore Giuseppe Capponi e il basso Ormondo Maini, il soprano Teresa Stolz, il mezzosoprano Maria Waldmann, dei quali (e di tanti altri), appese alle pareti della villa o riposte in qualche cassetto, si possono ammirare varie fotografie, spesso con i costumi di scena.

Il secondo documento da citare è il frontespizio dell'edizione Ricordi della Giovanna d'Arco: "Nessuna Giovanna ha mai avuto musica più filosofica e più bella. La terribile introduzione, il magnifico pezzo Maledetti cui spinse rea voglia, sono due cose da far trasecolare ogni pover'uomo. I cori de' demoni sono originali, popolari, veramente italiani; il primo un valzer graziosissimo, pieno di motivi seducenti, che sentito due volte si canta subito; il secondo è una musica di esultanza diabolica, una musica che fa rabbrividire e tremare; insomma sono cose divine; in quell'opera vi saranno tutti i generi di musica: il teatrale, il religioso, il marziale, ecc.". Così scrive il 9 dicembre 1844 ad Antonio Barezzi (padre della prima moglie di Verdi, Margherita, e generoso mecenate del compositore) il musicista Emanuele Muzio, considerato l'unico discepolo di Verdi. Il libretto era di Temistocle Solera, che si era liberamente ispirato alla Jungfrau von Orleans di Schiller. L'opera, andata in scena al Teatro alla Scala il 15 febbraio 1845, con Erminia Frezzolini nella parte della pulzella, venne ripresa alla Fenice nella successiva stagione 1845-1846 e per l'occasione Verdi scrisse una nuova cavatina per il soprano tedesco Sofia Loewe, come si può leggere nella lettera esposta in mostra, che il Maestro inviò alla cantante da Venezia il 19 dicembre 1845.

Segue il frontespizio dell'edizione Lucca dell'opera Il corsaro nella versione per pianoforte fatta da Muzio. Francesco Lucca, editore musicale milanese, fu un agguerrito concorrente di Ricordi; insieme con la moglie Giovannina introdusse in Italia le opere di Halévy, Meyerbeer, Gounod e soprattutto quelle di Wagner. Per lui Verdi scrisse, oltre a quest'opera, anche l'Attila e I masnadieri. Nel 1888 la vedova cedette la casa editrice a Ricordi. Il libretto di questo lavoro verdiano è tratto - su incarico del compositore a Francesco Maria Piave - dal poemetto The corsair di lord George Byron, il campione di quella corrente romantica cui il melodramma deve tanti dei suoi successi. Alcune incomprensioni iniziali spinsero il librettista a chiedere al Maestro la restituzione del suo testo, richiesta che venne accolta in questi coloriti termini da Verdi, in una lettera del 27 agosto 1846 (conservata ora all'Accademia dei Concordi di Rovigo): "Ma che? Sei diventato matto o il sei per diventare? che io ti ceda Il Corsaro? Quel Corsaro che ho vagheggiato tanto, che mi costa tanti pensieri, che tu stesso hai verseggiato con più cura del solito? [...] E vuoi che te lo ceda? Va va all'ospedale e fatti curare il cervello". Ma alla fine tutto si risolse: il 6 luglio 1846, da Venezia - come si può leggere dall'ultimo documento, esposto insieme con la ricevuta di pagamento - Piave ringrazia Verdi per i 100 fiorini a saldo del lavoro svolto. L'opera verrà finalmente rappresentata il 25 ottobre 1848 al Teatro Grande di Trieste con un cast d'eccezione: il tenore Gaetano Fraschini nel ruolo del protagonista Corrado, il soprano Marianna Barbieri-Nini in quello di Gulnara; il soprano Carolina Rapazzini come Medora e il baritono Achille De Bassini nella parte di Seid Pascià.

Quando queste righe verranno pubblicate, la mostra sul Correggio e il festival verdiano saranno già archiviati, ma nella dimora che fu di Verdi e che ora è un museo a lui dedicato, insieme a ogni altro oggetto, i documenti resteranno a testimoniare, oltre alla indiscussa, comprovata grandezza del compositore, anche i profondi, molteplici legami che il Maestro ebbe con tutti i settori della vita sociale e culturale del suo tempo.


Nota

(1) Ringrazio Gabriella Carrara Verdi per avermi reso partecipe di tanti suoi ricordi e mi scuso con lei per tutti gli errori e le imprecisioni eventuali di queste righe, causati non dalla sua memoria, che è formidabile, quanto dalle lacune della mia, che formidabile non è.


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