Rivista "IBC" XV, 2007, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, mostre e rassegne, pubblicazioni

Da Rimini a Piacenza, agli incroci della via Emilia, con una strana macchina fotografica "bifronte". Parte dalla strada più antica la nuova ricerca di Nino Migliori.
Doppio senso di marcia

Michele Smargiassi
[giornalista e studioso di fotografia]

A distanza di tre anni, sulle pagine di "IBC" ritorna la fotografia di Nino Migliori.1 Nel 2005 la Regione Emilia-Romagna gli ha commissionato un'indagine sulla via Emilia, strada-simbolo di questo territorio dal 187 avanti Cristo. Il risultato della sua ricerca è "Crossroads. Via Emilia. Passaggi & Topografie", 43 doppi scatti realizzati al centro di altrettanti incroci-chiave lungo la striscia di 252 chilometri che da Rimini porta a Piacenza. Grazie a un telaio bifronte (con due fotocamere montate in verticale e puntate in direzioni opposte) a ogni scatto anteriore, consapevole e determinato, corrispondeva istantaneamente uno scatto posteriore, inconsapevole e casuale. Su questo numero presentiamo una selezione delle 86 foto esposte in mostra a Villa delle Rose, a Bologna, dal 30 novembre 2006 al 7 gennaio 2007. Il testo di Michele Smargiassi, giornalista de "la Repubblica" esperto di fotografia, è tratto dal catalogo edito da Damiani, che contiene anche gli interventi di Beatrice Buscaroli (Collezioni d'arte della Fondazione Carisbo), Gianfranco Maraniello (Galleria d'arte moderna di Bologna), Lucia Miodini (Centro studi e archivio della comunicazione, Università di Parma), Stefano Pezzoli (Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna).

 

Di chi sono le strade? Facile: dell'ANAS, dei comuni, delle province eccetera. Sì, ma a chi appartiene veramente una strada? A chi appartiene sentimentalmente, antropologicamente? Se la litigano, da tempo immemorabile, due tribù, le tribù primigenie della civiltà umana: i sedentari e i nomadi. Quelli che abitano attorno e di fianco alla strada; e quelli che la percorrono da un capo all'altro. Di entrambe le tribù, la strada è un luogo cardine: senza di essa, difficile il proprio posto nel mondo. Nulla come una strada sa orientare lo spazio che attraversa. La potenza generatrice di una strada è perfino superiore alle leggi della geografia. La nostra via Emilia ne è un bell'esempio: geograficamente parlando, non va perfettamente da est a ovest, anzi il suo percorso piega sensibilmente sulla linea dei paralleli; eppure sono i punti cardinali definiti da secoli dall'antica strada consolare a dominare l'orientamento primario di noi emiliani: la via Emilia per noi va da est a ovest, qualunque cosa dica il sestante; e divide senza possibili obiezioni il nord dal sud (benché, secondo i pedanti, pare esistano nel Piacentino dei paesi a sud della via Emilia che sono più a nord di altri paesi del Riminese che pure stanno a nord della via Emilia). Potenza dell'asfalto: una strada è riuscita a piegare l'asse terrestre.

Ma stanziali e nomadi non guardano la strada dallo stesso punto di vista. Per i primi, la strada divide il di qua dal di là, il sopra dal sotto, spesso il lato buono dal lato sbagliato, a volte perfino una storia dall'altra (in una splendida pagina, Antonio Delfini spiega come nella sua Modena la via Emilia divida il vescovo dal duca, il Medioevo dal Rinascimento, Roma dall'Impero). Per i secondi, la strada separa il dietro dal davanti, la partenza dall'arrivo, il passato dal futuro. C'è un'incompatibilità goniometrica tra le due visioni: una torsione di novanta gradi. Per questo la strada è stata, è, e sarà sempre un luogo di conflitto. Non è sociologismo astratto: stanziali e nomadi litigano davvero, tutte le notti, in certe strade di questa città.

Luogo controverso, conteso, conflittuale, la strada lo è anche per la rappresentazione. La strada è una sfida iconografica. Impone una scelta di parte: guardarla da dentro, guardarla da fuori. Tertium non datur. Sfida raccolta più volte, con intelligenza e successo, dall'esplorazione pioniera, emotiva e narrativa, di Luigi Ghirri e dei suoi amici, fino alle analisi distaccate e topografiche del gruppo di Linea di Confine. Visioni da dentro, visioni da fuori. Mancava l'impossibile tertium.

Solo Nino Migliori, forse, poteva trovarlo. Un fotografo che è anche un fotologo, un artista che non riesce a rappresentare senza contemporaneamente riflettere sui modi e sui limiti della rappresentazione, un creatore di immagini di luce che da decenni lavora non solo con (e spesso senza) la fotocamera, ma anche su, attorno e magari contro di essa. Insomma l'attrezzatura concettuale per tornare sulla strada già tante volte calcata e trarne del nuovo, Nino Migliori la possedeva tutta intera, lo ha già spiegato qui perfettamente Lucia Miodini [nel catalogo, ndr].2 Gli mancava solo un'attrezzatura metalmeccanica. Se l'è fatta costruire da un fabbro: un cappello-staffa che supporta due fotocamere in grado di scattare simultaneamente. Una davanti all'occhio; l'altra dietro la nuca. Un apparecchio nuovo nella storia della fotografia: e si sa quanto gli strumenti hanno cambiato il carattere dello sguardo fotografico. Migliori ha dunque inventato il retrovisore fotografico. Apparecchio bifronte che denuncia ed estremizza la grande, fondamentale, ontologica specificità della fotografia: essere un atto volontario e assieme casuale, una produzione iconica e anche una registrazione indicale. Solitamente i due opposti convivono nella stessa immagine: Nino ha provato a distinguerli, a metterli in contrapposizione. La strada, con la sua ambivalenza naturale (due sensi di marcia) gli ha fornito lo straordinario pretesto, l'esca, la metafora per un'operazione di critica dell'immagine fotografica.

Dunque Migliori è sceso in strada, sulla via Emilia, e ha cominciato a scattare dittici. Per ogni inquadratura intenzionata, una involontaria. Per ogni immagine composta dall'occhio del fotografo (che contiene tutte le immagini della storia dell'arte, tutta la sapienza della prospettiva rinascimentale, tutta la tradizione del vedutismo), un'immagine composta solo dall'inconscio tecnologico (direbbe Franco Vaccari) della fotocamera, cioè dal sapere che abbiamo tradotto in ingranaggi e circuiti stampati, abbiamo depositato nel corpo meccanico dello strumento e poi abbiamo dimenticato lì. Coppie di fotografie: una voluta e una accettata; una prodotta e una ricevuta; una scelta e una accettata. La distinzione, finalmente resa visibile, tra i due modi di produrre un'immagine fotografica, che solo la lingua inglese sa rendere: to take a photograph, oppure to make a photograph. Migliori ha inventato, e collaudato su strada, la prima fotocamera take-make.

Ma si è anche ricordato che la strada non è semplicemente un luogo bifronte, bensì quadrifronte. Frutto dello scontro fra le due coppie di opposti di cui dicevamo. (Non so se Migliori abbia percorso gli stessi ragionamenti che gli ho prestato all'inizio, ma certo i risultati leggibili in questo suo lavoro, per dirla come direbbe la polizia scientifica, sono coerenti e compatibili). Così, dovendo scegliere luoghi puntuali e discreti (in senso geometrico) per scattare, ha scelto gli incroci. Dove il conflitto tra stanziali e nomadi si fa evidente, palese, aspro (se non altro perché molto spesso è lì, agli incroci, che i nomadi prendono sotto con l'automobile gli stanziali appiedati). L'incrocio, nel racconto della strada, è una pausa pericolosa e incerta. È il luogo dei dubbi, delle indecisioni, il luogo dove l'errare può diventare errore: se non altro perché, delle quattro alternative che propone, solo una è quella che ti porta davvero dove vuoi andare. È il luogo delle tentazioni: dove il viaggio programmato può sviarsi per la suggestione di un cartello indicatore, di un incontro, di un paesaggio visto in lontananza. È il luogo dello sviamento: geografico e morale. Non per nulla, coma sa bene chi conosce la storia del blues, è agli incroci che si incontra il diavolo. (E francamente, chi abbia incontrato Nino mentre, addosso il suo copricapo cornuto, effettuava misteriose danze al centro di un crocevia, non avrà potuto che confermare la superstizione).

Infine, questa esplorazione di Nino Migliori ci fa un altro regalo intellettuale. Operazione meta-fotografica, critica del medium, ci mette in guardia da uno dei difetti più antipatici della fotografia: la sua presunzione onnivora. "Tutto è stato fotografato": ma non è vero niente. L'orgoglio imperialista della fotografia, la bulimia del primo apparato icono-poietico che si sia ritenuto capace di replicare integralmente il mondo (come se fosse poi un gran risultato: già Borges scrisse su questa follia inutile un affascinante racconto), franano miseramente sulla banale osservazione che, per ogni fotografia prodotta, ce ne sono mille altre possibili a cui abbiamo rinunciato. Per dimostrarcelo, all'apparecchio bifronte di Migliori basta mostrarci la prova pratica del fatto che, per ogni foto che il nostro sguardo consapevole produce, ce n'è almeno un'altra a cui voltiamo le spalle. Forse, ci suggerisce Nino, la più strepitosa, la più grande, la più importante fotografia della storia non è stata fatta perché, in quel momento, il fotografo era girato dall'altra parte.

 

Note

(1) Italia anni Cinquanta. Le foto di Nino Migliori, "IBC", XI, 2003, 2, p. 3.

(2) L. Miodini, Topografie e sguardo bifronte, in N. Migliori, Crossroads. Via Emilia, Bologna, Damiani Editore, 2006, pp. 16-43.

 

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