Rivista "IBC" XIV, 2006, 1

musei e beni culturali / interventi, progetti e realizzazioni, pubblicazioni

Dopo il saccheggio del Museo di Baghdad (tuttora chiuso) il patrimonio culturale iracheno continua a essere depredato ogni giorno. Le risorse dei paesi occidentali, intanto, sembrano perdersi in progetti dall'utilità "virtuale"...
L'archeologia al tempo della guerra

Maria Pia Guermandi
[IBC]

Nelle ultime settimane hanno trovato grande risalto sulla stampa le notizie di restituzioni e scambi di opere d'arte fra alcuni paesi occidentali. A partire dalla trattativa tuttora in corso fra il Metropolitan Museum di New York e il nostro Ministero per i beni culturali per uno scambio/restituzione di alcuni tesori sul cui trafugamento dal nostro territorio paiono esserci ora prove incontrovertibili (primi fra tutti il cratere di Eufronio e gli argenti di Morgantina), per finire alla restituzione di un frammento del fregio del Partenone alla Grecia da parte dell'Università di Heidelberg. In quest'ultimo caso il risarcimento, pur relativo a un frammento veramente piccolo, ha immediatamente acquisito un significato simbolico dirompente, sottolineato dalla dichiarazione del premier greco Karamanlis che l'ha definito un "dovere verso l'umanità". Evidente appare il richiamo al perdurante, totale rifiuto di restituzione dei "marmi Elgin" da parte del British Museum. Si tratta senza dubbio di una vicenda intricatissima che tocca da vicino alcuni dei nervi tuttora scoperti della museografia occidentale, in gran parte costituitasi a lato di, e grazie a, politiche coloniali dirette o accordi di dubbia trasparenza e validità giuridica per lo più con paesi economicamente deboli.

Così appare davvero assai discutibile, sia dal punto di vista politico che da quello culturale, rifiutare anche l'apertura di una discussione, appellandosi a un rischio di destabilizzazione irreversibile del sistema museale mondiale laddove richieste di restituzione anche documentate (come nel caso dei "marmi Elgin") venissero accolte. Il rischio di "svuotamento" di collezioni ormai storiche è in realtà inesistente e, al contrario, la politica di scambio di opere a medio e lungo termine ultimamente perseguita dal Ministero italiano sembra istituzionalmente molto efficace e dimostra la sua validità anche sul piano culturale se utilizzata come strumento di promozione all'estero del nostro patrimonio. Fatte salve le imprescindibili esigenze legate alla conservazione e all'integrità delle opere d'arte, un'articolata politica di scambi e condivisione delle opere fra istituzioni museali di paesi diversi continua ancora a essere, se inserita all'interno di un progetto culturale di largo respiro, operazione primaria per la diffusione culturale intesa nel senso più profondo.

Il patrimonio culturale di un popolo è strumento primario di costruzione della sua identità, ma non può che essere considerato, in senso ideale, come proprietà dell'intera umanità: si tratta di concetti perfino banali nella loro ovvietà e tante volte riascoltati da apparire scontati. Eppure oltre alle querelle sopra ricordate - che oggi più che mai contrappongono le lobby costituite dai più potenti musei occidentali alle pretese dei governi di molti paesi del terzo mondo - il valore e l'intangibilità del patrimonio culturale continuano a essere negati, anche ai giorni nostri e nella maniera più radicale, nei paesi attraversati da conflitti bellici, primo fra tutti l'Iraq.

Come sappiamo, la situazione irachena sembra attualmente caratterizzata, dal punto di vista politico, da uno stallo sempre più deflagrante: le timide prove di normalizzazione vengono quotidianamente sopraffatte dalle notizie di attentati suicidi, ormai ridotti al ruolo di tragica routine mediatica. Eppure, in una situazione ancora così caotica, in cui hanno ripreso vigore anche le minacce di rapimento nei confronti degli stranieri, già da molti mesi alcune istituzioni culturali occidentali operano nel paese. Non si può certo dire che non vi sia enorme necessità di risorse di ogni tipo per cercare di porre qualche rimedio a una situazione, anche per quanto riguarda l'ambito culturale, disperata. Tutti noi conserviamo ancora il ricordo drammatico del saccheggio del Museo archeologico di Baghdad e dell'incendio della Biblioteca e degli Archivi statali nel marzo e nell'aprile del 2003, all'epoca della seconda invasione americana. Ma saccheggi e danneggiamenti irreversibili sono continuati fino ai giorni nostri nei confronti di un patrimonio che si estende sull'intero territorio di quella che era l'antica Mesopotamia, una sola immensa località archeologica le cui colline, al 90%, rappresentano altrettanti siti archeologici.

Sebbene gli articoli della convenzione dell'Aja del 1954 e la convenzione dell'UNESCO del 1970 sanciscano il dovere da parte delle forze occupanti di proteggere i beni culturali, gli eserciti alleati sono fra i primi responsabili delle distruzioni. Così Babilonia è stata occupata dalle truppe fin dai primi giorni dell'invasione del paese, che tuttora si aggirano coi loro mezzi corazzati sui fragili pavimenti di antichi mattoni. Da ultimo, per cominciare la "ricostruzione del paese", gli occupanti stanno radendo al suolo le poche zone delle città vecchie sopravvissute ai bombardamenti: ciò che non è stato distrutto dal fuoco, viene cancellato dai bulldozer delle imprese occidentali. E ancora, il direttore generale dei musei iracheni, Donny George Hannah, ha più volte denunciato come il saccheggio incessante dei manufatti di ogni tipo sia preparato e commissionato da potenti mafie al servizio di collezionisti, gallerie e musei (fra i quali il Metropolitan Museum di New York... così come accaduto in Italia in anni non lontanissimi), mafie connesse proprio a quel terrorismo internazionale che le armate occidentali sarebbero venute a sconfiggere. Il Museo archeologico di Baghdad, uno dei luoghi simbolo di una delle civiltà più antiche della storia dell'umanità è tuttora chiuso e in stato di assoluta precarietà per quanto riguarda la conservazione dei reperti, così come manoscritti e testi della Biblioteca (750.000 volumi) attendono ancora di essere ripuliti dai detriti e dalla cenere degli incendi.

In questo contesto ha destato non poche riserve di opportunità, politica e culturale, una notizia di qualche mese: il direttore del British Museum Neil Mac Gregor, con aplomb tutto anglosassone, annunciava quale contributo al recupero del patrimonio iracheno la pubblicazione di un volume sui tesori del museo di Baghdad, pubblicazione che in absentia dovrebbe consentirci di ammirare, grazie al "superbo materiale fotografico", i più pregevoli manufatti conservati nel museo iracheno. Stupisce innanzitutto la povertà culturale della lettura del materiale archeologico fornita; nel testo, The Looting of the Iraq Museum, Baghdad,1 sono così descritti, secondo quanto affermato da Mac Gregor, i pezzi di maggior magnificenza: una raccolta di capolavori, insomma, secondo uno schema degno della più attardata museologia occidentale. Naturalmente il volume è esclusivamente in lingua inglese e Mac Gregor non è neppure sfiorato dal sospetto che le risorse utilizzate a questo scopo avrebbero forse trovato migliore e più consono uso se devolute, in toto, per operazioni di restauro del museo stesso, che pure ci viene descritto come "privo di illuminazione e aria condizionata" e dove, secondo le sue stesse parole, "il lavoro di conservazione è pressoché impossibile".

Non occorre essere raffinati cultori di scienza museografica per comprendere come, in un contesto del genere, le prime operazioni di reale, immediata utilità, consisterebbero piuttosto nell'organizzare una speditiva ricognizione dell'esistente con documentazione fotografica a supporto (con immagini non "artistiche", ma finalizzate esclusivamente al riconoscimento del reperto). Una ricognizione che permetta di costruire un'agenda delle priorità degli interventi di restauro sulla base dello stato di conservazione; a seguire, assolutamente urgente appare la messa in sicurezza dei reperti (imballaggio e ogni altra operazione di conservazione): in simili condizioni non ha il minimo senso, se non quello di pura propaganda politica, prefiggersi di tenere il museo aperto. Infine sarebbe di maggiore utilità operare una martellante campagna a livello internazionale per frenare le devastazioni che gli eserciti di occupazione compiono a tutt'oggi sull'intero territorio.

L'inquietante parallelismo fra la composizione della coalizione armata e il team di studiosi che ha presieduto all'elaborazione del volume (italiani, americani, inglesi) è un calco di assordante evidenza che non merita commenti. Con molta onestà occorre sottolineare che pressoché tutti gli studiosi che hanno attualmente libero accesso in Irak sono per lo più al seguito delle truppe occupanti del loro Paese. Così concepita, insomma, l'offerta di Mac Gregor sottolineata dal titolo dell'articolo (Prepariamoci per quando potremo offrire un aiuto)2 ricorda pericolosamente pratiche neocolonialiste che si vorrebbero dimenticate e che sembrano piuttosto ispirate allo spirito di Lord Elgin.

Nella stessa direzione, purtroppo, sembra collocarsi pure il progetto italiano, pubblicizzato anch'esso pochi mesi orsono, e in corso di realizzazione da parte del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e di altre istituzioni culturali italiane su finanziamento del nostro Ministero degli esteri. Si tratta dell'elaborazione di un Museo di Baghdad "virtuale", per mezzo del quale, tramite le tecniche di ricostruzione digitale, sarà possibile raccogliere, virtualmente appunto, i reperti ancora disponibili e quelli andati perduti. Un museo che "al pari di tutti i musei moderni", come recita il comunicato CNR, sarà fornito "di un bookshop per gli acquisti di merchandising tramite web" ( www.cnr.it/cnr/news/CnrNews?IDn=1349).

L'impressione, del tutto spiacevole, è che la battaglia attualmente in corso per la spartizione della "torta" irachena sia in pieno svolgimento anche sul piano del patrimonio culturale. Con ironica amarezza ci potremmo rifare, questa volta in senso letterale, al ricorrente parallelo sui "beni culturali come petrolio", più volte ripreso anche da esponenti dell'attuale governo. E davvero verrebbe da suggerire, ai colleghi iracheni, come risposta a simile offerte di aiuto, quella che fu di Laocoonte di fronte al velenoso dono del cavallo di Troia: timeo Danaos et dona ferentes.

Gli anni Ottanta hanno rappresentato un momento cruciale per il ripensamento della scienza museologica con la messa in discussione definitiva dell'autorevolezza dell'istituzione museale e della sua capacità legittimante: si rinnovano radicalmente gli allestimenti e la percezione degli spazi espositivi. Il decennio successivo sarà caratterizzato soprattutto dall'esplosione del turismo culturale: l'aumento del numero dei visitatori provocherà innanzitutto una ridefinizione radicale degli spazi, che cominciano a essere dedicati, in misura sempre più consistente, a funzionalità diverse da quelle espositive, e in primis commerciali. La perdita di centralità della collezione diviene definitiva con l'avvento dell'architettura-spettacolo: il Guggenheim di Bilbao segnala il punto di arrivo di un processo di ribaltamento dei ruoli in cui il contenitore ha ormai preso il sopravvento sul contenuto.

Gli ultimi anni, se da un lato confermano queste tendenze che paiono riportare la macchina museale (o per lo meno il suo edificio) a un ruolo di elemento qualificante del tessuto urbano, paiono contrassegnati anche, soprattutto in ambito statunitense, da una ripresa del gigantismo espositivo, che sembra però prescindere o accantonare l'analisi sulla visione culturale e storica che ogni progetto espositivo implica e che tutto è tranne che neutrale. Eppure, in questo senso, appare ancora oggi valida l'analisi di Pierre Bourdieu, che negli anni Settanta sottolineava come le collezioni dei nostri musei si fondano su un complesso sistema di codici che presuppongono conoscenze specifiche spesso molto più avanzate di quelle possedute dalla media dei visitatori e proprie per lo più di quella che il sociologo francese definiva una classe di "privilegiati". Lungi dall'essere stata risolta, tale impasse comunicativa si dilata a dismisura quando si cerca di esportare questo paradigma interpretativo in contesti culturali "altri" e diversi da quelli occidentali.

La comunità internazionale di chi opera in ambito culturale, quindi, oltre a adoperarsi in maniera più pressante e operativamente efficace di quanto sinora accaduto per una immediata cessazione delle continue distruzioni del patrimonio culturale nelle zone di guerre, dovrebbe anche impegnarsi, fin da adesso, a un ripensamento critico e radicale delle proprie metodologie. Senza nulla disconoscere alla priorità, su ogni altro aspetto, della tutela delle vite umane e della loro dignità, non dobbiamo neppure sminuire l'importanza e l'urgenza in questo settore: dietro tanti conflitti, in prima linea quello iracheno, c'è anche, e soprattutto, uno scontro culturale senza esclusione di colpi. Di questa diversità culturale finora irriducibile, attorno alla quale ci affanniamo con spiegazioni incomplete e strumenti ermeneutici inadeguati, un aspetto non secondario è, appunto, la gestione del proprio passato e della propria memoria. Sulla base di quali considerazioni, che non siano quelle determinate da superiorità economico-militari, i nostri modelli di riferimento dovrebbero avere un valore assoluto e porsi, ancora una volta, all'apice di una gerarchia?

 

Note

(1) The Looting of the Iraq Museum, Baghdad. The Lost Legacy of Ancient Mesopotamia, edited by M. Polk, A. M. H. Schuster, New York, Harry N. Abrams, 2005.

(2) N. Mac Gregor, Prepariamoci per quando potremo offrire un aiuto, "Il Giornale dell'Arte", 2005, 245 (il testo integrale è disponibile sul sito: eddyburg.it/article/articleview/3219/0/129/).

 

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