Rivista "IBC" XII, 2004, 2

musei e beni culturali / corrispondenze, inchieste e interviste, mostre e rassegne, progetti e realizzazioni, leggi e politiche

Nel settembre 2004 a Washington si inaugura il National Museum of the American Indian - Smithsonian Institution. Attraverso le parole del direttore, Walter Richard West, cerchiamo di capire meglio che cosa si intende per "ripatriazione", il principio a cui si ispira il nuovo museo.
L'orizzonte restituito

Franca Di Valerio
[museologa]

Nel breve saggio The Hottentot Venus il noto biologo e divulgatore Stephen Jay Gould racconta di una sua visita, agli inizi degli anni Settanta, alle collezioni del Musée de l'Homme di Parigi e dell'incontro, in quella occasione, con Saartjie Baartman, la cosiddetta "Venere Ottentotta". Strappata nel 1810 al suo popolo, i Khoisan dell'attuale Sudafrica, per essere esibita nelle piazza europee a nutrire il razzismo delle folle della prima metà del XIX secolo, ella finì per morire di malattie e stenti a Parigi nel 1815, dove il suo corpo dissezionato venne incluso nelle collezioni dell'allora Musée d'Ethnographie, successivamente ridenominato Musée de l'Homme, a dimostrare come i "popoli primitivi" fossero esempi di una fase più remota dell'evoluzione della specie, il punto di transizione tra Natura e Cultura.

Nell'osservare il macabro poutpourri costituito dalle varie parti anatomiche conservate in formalina, l'attenzione di Gould viene attratta da "una testimonianza immediata e raggelante", per usare le sue stesse parole, della mentalità e del razzismo, nonché del ruolo e della funzione ideologica dell'istituzione museale nel contesto culturale e politico dell'Europa tardo-ottocentesca: il contenitore con i genitalia di Saartjie, appunto, dissezionati direttamente da George Cuvier ed esibiti quale prova della "primitività" ed arretratezza del suo gruppo etnico di appartenenza che, per inciso, era considerato appena al di sopra degli scimpanzè e degli oranghi.

Questo episodio e le considerazioni che esso implica sono stati in seguito ripresi dal museologo Tony Bennett nel volume The Birth of the Museum. History, Theory, Politics,2 a proposito del cruciale ruolo svolto, nel caso specifico, dai musei di antropologia, e dall'antropologia in quanto disciplina, nel tracciare una netta linea di separazione tra la storia delle nazioni e delle culture del mondo occidentale e quella del resto del mondo, in cui i "popoli primitivi" venivano ad essere collocati in una zona indefinita tra natura e cultura. L'esposizione museografica di parti anatomiche serviva precisamente a questo scopo.

Abbiamo ricordato la vicenda di Saartjie Baartman perché il suo recente epilogo è emblematico delle mutazioni e delle problematiche con cui il museo contemporaneo, inteso come luogo di articolazione e disseminazione di conoscenza e valori, si trova a doversi confrontare e, di conseguenza, a ridefinire i propri paradigmi ed il proprio ruolo in una società multietnica e globalizzata. Nel maggio del 2002, infatti, il Musée de l'Homme - in seguito alla richiesta ufficiale del governo sudafricano, alle pressioni diplomatiche internazionali, ed in seguito all'approvazione di una legge ad hoc da parte del governo francese3 che ha "deaccessionato" le spoglie dalle collezioni museali nazionali di cui facevano parte, e perciò inalienabili - ha restituito in forma ufficiale al Sudafrica i resti della "Venere", che con una solenne cerimonia funebre hanno ritrovato la propria dignità ed il riposo eterno nella terra d'origine.

Ricordiamo anche le ultime restituzioni: quella della mummia di Ramesses I all'Egitto da parte del Carlos Museum della Emory University di Atlanta; la restituzione al Botswana del cosiddetto "Negro de Banyoles", altro trofeo umano letteralmente impagliato ed esposto al pubblico presso il Museo di storia naturale di quella città catalana dalla metà del XIX secolo; la restituzione agli aborigeni della Tasmania dei resti dei loro antenati da parte del Royal College of Surgeon Museum dell'Università inglese di Oxford.

Questa crescente consapevolezza di una necessaria, maggiore prospettiva etica da parte dei musei nei confronti del collezionismo e delle collezioni, e dunque del proprio ruolo e significato soprattutto quando le collezioni originano da culture vive e reattive, ha portato ad una inedita attenzione per le richieste sempre più numerose di restituzione di reperti eticamente "sensibili" quali resti umani, oggetti religiosi o cerimoniali, oppure di oggetti del patrimonio storico-culturale dal valore fortemente simbolico, che creano o consolidano il senso di appartenenza: che si tratti della stele di Rosetta, dei marmi del Partenone, dell'obelisco di Axum, o quant'altro, è irrilevante, questi oggetti costituiscono quasi dei "miti di origine", per usare una definizione di Jean Baudrillard, perché sono cruciali nel definire la percezione e la proiezione di sè, in una parola l'identità, di una nazione, di un gruppo etnico, o di una comunità.

I musei sono così costretti a confrontarsi con la pluralità e l'alterità delle storie, dei valori, e dei significati che gli oggetti delle loro collezioni racchiudono. E che la museologia contemporanea non possa più sottrarsi al confronto con gli interrogativi che tali problematiche le pongono, esigendo da essa improrogabili risposte, lo dimostra il fatto che anche l'International Council of Museum (ICOM), emendando il proprio codice di deontologia professionale, raccomanda che: "Le richieste di rimuovere dall'esposizione al pubblico resti umani o materiali di significato sacro devono essere affrontate sollecitamente con rispetto e sensibilità. Richieste di restituzione di tali materiali dovrebbero essere trattate nella stessa maniera".4 In aggiunta, sebbene a distanza di due anni e pur adottando un approccio salomonico, lo stesso ICOM ha dato voce al dibattito suscitato dalla Dichiarazione sull'Importanza ed il Valore del Museo Universale sottoscritta nel dicembre 2002 dai direttori di diciannove tra i maggiori musei europei e nordamericani,5 in sostanza una inequivocabile e netta affermazione di immunità nei confronti delle richieste di restituzione di oggetti contesi conservati nelle proprie collezioni. Il numero 1/2004 del periodico "ICOM News" è dedicato ai cosiddetti musei universali e alla controversia sulla restituzione, o meglio, utilizzando una definizione più articolata, sulla "ripatriazione".

Ripatriazione è un concetto dalle complesse implicazioni culturali e, naturalmente, politiche, che trascende la specificità etnica e la circoscrizione a determinate nazioni (quelle con un passato coloniale, sia da dominanti che da dominate, o quelle con comunità indigene) come pure specificità disciplinari (non solo l'antropologia o l'etnografia, ma anche l'archeologia, la storia, l'arte); questo concetto definisce il riconoscimento ed il rispetto per l'interesse che una comunità esprime per il proprio patrimonio culturale, e dunque il riconoscimento del diritto di chiedere, ed ottenere, la restituzione di elementi che reputa insostituibili di tale patrimonio. Oltre la restituzione fisica, la ripatriazione presuppone anche la condivisione di autorità e responsabilità per la conservazione, l'interpretazione e l'esposizione dei materiali, ossia per il processo di museificazione, con le culture o le comunità a cui tali materiali afferiscono.

È singolare notare, tuttavia, come nel nostro paese, dove non esistono né una museografia delle culture extraeuropee (nonostante le periodiche "grandi mostre" che le riguardano) né una qualsivoglia eredità coloniale, il termine ripatriazione provochi uno stato confusionale per cui da un lato si evoca uno scenario apocalittico, una sorta di horror vacui per cui migliaia di opere d'arte "altre" sciamerebbero fuori dalle sale dei musei per tornare ai propri luoghi di origine, nonché ad un destino incerto perché sottratto alla cura (o meglio, al controllo) della museografia occidentale. E dall'altro si manifesta una sorta di "complesso di Atlante", un mea culpa totalizzante per cui il curatore, finalmente conscio di avere reiteratamente tradito le culture "altre", si farebbe ora carico del fardello di un epocale sovvertimento ideo/metodologico teso alla decolonizzazione dello spazio museale. Per inciso, quest'ultima folgorazione si consuma di solito nel corso di viaggi "culturali" nelle riserve indiane e nei musei antropologici nordamericani, oppure nella lettura di altrui testi-rivelazione.

La miopia dei "wannabe Indians" nostrani rimanda tuttavia alle riflessioni e agli interrogativi molto più sostanziali e complessi che assediano il senso ed il ruolo dell'istituzione museale contemporanea, in primo luogo se siano possibili dialogo e collaborazione tra i musei e le comunità di cui essi hanno acquisito elementi significativi del patrimonio culturale, e se la pratica museale possa essere svolta in collaborazione e nel rispetto delle convinzioni e degli interessi di tali comunità. È questa una delle fondamentali ragioni per cui il prossimo 21 settembre 2004 a Washington, dopo oltre quindici anni di incubazione e riflessione, si attende con grande aspettativa l'apertura al pubblico del National Museum of the American Indian - Smithsonian Institution. Un'apertura che in una inedita operazione museografica, e ancor prima culturale, restituisce alla fruizione pubblica la più vasta collezione di oggetti indigeni relativi all'intero continente americano mai assemblata al mondo, già nota come Museum of the American Indian - Heye Foundation, con sede a New York.

Creato dall'ossessione collezionistica del magnate George Gustave Heye sotto l'influsso dei più autorevoli antropologi dell'epoca (Franz Boas, Marshall Saville, Ales Hrdlička, George H. Pepper) e aperto al pubblico come istituzione privata nel 1922, questo museo è stato acquisito dalla Smithsonian Institution, e dunque dal governo statunitense, nel novembre del 1989, per scongiurarne la dispersione in seguito alle gravi difficoltà economiche attraversate dalla Fondazione. In modo significativo, l'atto legislativo che ha istituito il National Museum of the American Indian (NMAI) all'interno del sistema museale della Smithsonian quale suo sedicesimo museo, ha affermato e definito contestualmente anche i principi e le procedure per restituire alle comunità native i reperti "sensibili", primi fra tutti i resti umani, conservati nelle sue collezioni come pure in quelle del National Museum of Natural History, costituendo in tal modo il modello per una successiva legge, il Native American Graves Protection and Repatriation Act del 1990. Quest'ultimo provvedimento, lungi dall'essere una concessione alla political correctness come qualcuno equivoca, ha avuto un impatto profondo sulla museologia non solo statunitense, affermando de jure l'obbligo dei musei (nel caso specifico quelli che negli Stati Uniti ricevono fondi federali, e dunque, a differenza di quanto si crede, la grande maggioranza) a restituire alle comunità native, se queste ne fanno richiesta e ne dimostrano la legittimità, specifiche tipologie di oggetti conservati nelle collezioni museali (oggetti sacri, cerimoniali, funerari, o rilevanti per il patrimonio culturale tout court).

È questo dunque il contesto in cui il progetto culturale, museografico e perfino architettonico del nuovo museo è maturato: concettualizzato fin dalle sue premesse come luogo attivo tanto della memoria delle culture native storiche quanto della vitalità di quelle contemporanee, esso è il risultato di un lungo ed elaborato processo di collaborazione e consultazione con le diverse comunità native, che dall'Artico alla Patagonia sono state coinvolte in tutti gli aspetti e le fasi di progettazione e realizzazione. Con le sue curve sinuose, a differenza dei grigi monoliti che ospitano gli altri musei della Smithsonian nel Mall, l'edificio evoca ad un tempo Falling Water, il capolavoro di Frank Lloyd Wright, e le architetture dei siti archeologici del Sudovest statunitense, utilizzando nei suoi elementi costruttivi materiali e richiami fortemente simbolici o rappresentativi dell'habitat originario nativo, come l'ampia rotonda centrale sormontata da una cupola di vetro che all'interno accoglie i visitatori: denominata Potomac, come il fiume che attraversa Washington, essa è un omaggio alla tribù Patawomeke che originariamente abitava l'area, e significa "luogo di raccolta". Molto più che una semplice area di incontro, essa rappresenta uno spazio di effettivo scambio fra culture, in quanto è destinato allo svolgimento di performances, workshops e dimostrazioni dal vivo.

"Il National Museum of the American Indian rappresenta, fondamentalmente, un cruciale terreno d'incontro, una significativa opportunità storica di riconciliazione e comprensione culturale tra il mondo nativo e quello non-nativo, una opportunità che la storia americana ha mancato fin dall'inizio" ci dice Walter Richard West, il carismatico founding director alla guida del Museo dal 1990, che ha dedicato la propria vita professionale, e gran parte di quella privata, a lavorare per e con i Nativi su problemi e questioni legali, politici, culturali (egli stesso è Cheyenne/Arapaho dell'Oklahoma). Profondamente informato del panorama museale americano ed internazionale avendo ricoperto per anni la carica di presidente dell'American Association of Museums, ed essendo l'attuale vicepresidente del comitato nazionale statunitense dell'ICOM, a lui abbiamo chiesto di spiegarci cosa caratterizza e differenzia il nuovo Museo rispetto ad altre realtà, anche internazionali:


Il National Museum of the American Indian rappresenta una esperienza museografica e culturale inedita perché ad essere rappresentate sono culture e persone reali che parlano in prima persona di sé stesse attraverso la presentazione e l'interpretazione degli oggetti delle nostre collezioni. Inoltre, l'identità e l'esistenza, o meglio la persistenza, delle comunità native vengono mostrate come fenomeni dinamici ed attuali, piuttosto che come sopravvivenze del passato destinate a scomparire. È questo che ci differenzia, per fare un esempio, dai nuovi allestimenti della sezione Nord America del British Museum, dove ancora una volta è il curatore (seppure un curatore esperto e con una profonda conoscenza dei materiali quale è Jonathan C. H. King, che ha curato il riallestimento della sezione, e che conosco e stimo molto) a scegliere ed interpretare attraverso il proprio filtro culturale, la propria visione, che in questo caso si concretizzano ancora una volta in un approccio e in una presentazione "etnografici" degli oggetti e delle culture in esposizione.

Per quanto riguarda il nostro Museo, invece, c'è un impegno esplicito e coerente per una totale collaborazione e per un rapporto di partecipazione reciproca con le comunità native nella loro rappresentazione e interpretazione in tutte le attività del museo, dallo studio e dalla ricerca, alle mostre e alla didattica. È ciò che chiamiamo "condivisione di autorità", ed è in base a questo principio, coinvolgendo direttamente le tribù (sono ventinove per le esposizioni inaugurali) attraverso consultazioni ed incontri svolti nell'arco di più di tre anni, che abbiamo individuato e focalizzato, insieme a loro, i concetti e gli argomenti presentati sia nei tre allestimenti permanenti ("Our Universes: Traditional Knowledge Shapes Our Worlds"; "Our Peoples: Giving Voice to Our Histories"; "Our Lives: Contemporary Life and Identities") sia nelle due mostre temporanee inaugurali ("Native Modernism: The Art of George Morrison and Allan Hauser"; "Window on Collections: Many Hands, Many Voices"), mentre gli oggetti sono stati selezionati direttamente da esse.

Le cinque esposizioni che inaugurano il Museo esplorano l'esperienza umana nativa attraverso il tempo, una esperienza che ha inizio circa diecimila anni fa, ma che viene sempre ridotta agli ultimi secoli, quelli che coincidono con la colonizzazione europea, dimenticando anche, sempre, che essa continua nella contemporaneità: attualmente in questo emisfero siamo quasi trentacinque milioni di indigeni, siamo la testimonianza di una continuità culturale e storica viva e attiva, non dei fossili viventi. È questo concetto, forte, della continuità culturale nel suo significato più ampio, della rappresentazione reale e non mitologica delle culture native, tanto di quelle storiche quanto di quelle contemporanee, che ispira i nostri allestimenti insieme all'altro, sopra ricordato, del coinvolgimento e della collaborazione con le comunità.

In "Our Universes" vengono illustrate la cosmologia e la percezione del mondo delle varie culture tribali attraverso le cerimonie e le celebrazioni che scandiscono il trascorrere dell'anno solare, le quali rappresentano anche i momenti di condivisione e trasmissione del sapere tradizionale. In "Our Peoples" vengono affrontati gli eventi storici che hanno segnato l'esistenza delle varie tribù a partire dal 1492, e le strategie di sopravvivenza, fisica e culturale, adottate vengono narrate al visitatore in prima persona. "Our Lives" presenta le molteplici identità native, sia nei caratteri individuali che in quelli collettivi, e il modo in cui queste identità vengono influenzate dagli aspetti culturali, sociali, politici e finanche linguistici del mondo contemporaneo in cui sono inserite.

Gli spazi destinati alle mostre temporanee accolgono di volta in volta il lavoro di singoli artisti contemporanei, temi specifici della cultura nativa, oggetti provenienti dalle collezioni di altri musei: la retrospettiva "Native Modernism:The Art of George Morrison and Allan Hauser", che inaugura gli spazi, illustra l'interazione tra tradizione ed attualità, in questo caso tra la tradizione artistica nativa ed i movimenti artistici contemporanei, soprattutto europei, nella produzione di questi due influenti esponenti dell'arte nativa; le loro opere dimostrano, ed è questo che vogliamo trasmettere ai visitatori, che la creatività artistica nativa non consiste di forme statiche fisse nel tempo, ma cambia come cambia l'esperienza culturale, secondo un principio universale valido per tutti gli esseri umani. Morrison e Hauser sono importanti perché, attraversando confini culturali a dispetto di pregiudizi e stereotipi, hanno dato vita ad un approccio originale all'espressione artistica nativa. Infine, con "Window on Collections" viene offerto un saggio della eterogeneità e vastità delle collezioni del Museo attraverso una selezione di 3.500 oggetti, presentati e spiegati ancora una volta secondo la prospettiva nativa.

L'impegno del Museo con le comunità non si conclude, ovviamente, con la realizzazione degli allestimenti iniziali: è nostra intenzione, tra l'altro, ruotare gli allestimenti nel corso del tempo sostituendoli con nuove esposizioni realizzate insieme alle comunità non coinvolte in precedenza, e viceversa riallestire quelle sostituite presso le comunità con cui abbiamo già collaborato; per fare un esempio, esporre "Our Universes" in Cile presso i Mapuche, o in Sud Dakota presso i Lakota, o in Alaska presso gli Yup'ik, con i quali, appunto, l'abbiamo realizzata.

Ritengo che questo completi il circolo della condivisione, rafforzi la connessione, e renda davvero reale la collaborazione tra il NMAI e le comunità native delle Americhe.


Chiediamo infine a Richard West come la ripatriazione, al di là della restituzione fisica degli oggetti, abbia influito ed influisca sulla politica culturale e sulla prassi del Museo:


Quando nel 1990 è stata approvata la legge sulla ripatriazione, il Native American Graves Protection and Repatriation Act, nel mondo museale si è scatenata una tale opposizione, una tale paura irrazionale che gli oggetti fossero portati via dai musei, che le reazioni mi hanno sinceramente sconcertato: a quasi quindici anni di distanza da allora, non solo le collezioni dei musei non si sono affatto impoverite - voglio ricordare che solo alcune specifiche tipologie di oggetti sono soggette alle disposizioni della legge: ad esempio nel nostro caso, su circa 800.000 reperti, si tratta solo dell'1%, esclusi i resti umani [che sono stati tutti restituiti alle comunità di origine in vista dell'apertura del nuovo Museo, considerando eticamente inammissibile rapportarsi con esse avendo ancora i resti dei loro antenati nei propri depositi, nda] - ma le esperienze al riguardo sono per la stragrande maggioranza di segno positivo. Basti pensare all'arricchimento del sapere e delle informazioni che riguardano i reperti: di molti di essi spesso non riusciamo a capire il significato o la funzione perché ci manca la conoscenza del contesto originario, quel contesto che i rappresentanti delle tribù invece ricostruiscono e ci trasmettono quando, ad esempio, li esaminano o li utilizzano per eseguire riti o cerimonie (permettiamo infatti che gli oggetti vengano utilizzati nelle pratiche tradizionali dalle persone designate), aumentando così la nostra comprensione di ciò che conserviamo nelle collezioni.

Più in generale sono profondamente convinto che la ripatriazione rappresenti un critico e totale rinnovamento, una vera e propria rifondazione del rapporto tra i musei e le comunità native, dal momento che essa non consiste solo nella restituzione di oggetti ma soprattutto nel riconoscimento che l'autorità, per così dire epistemologica, rispetto ai materiali e alle operazioni museali origina e risiede nelle comunità. Da questo riconoscimento deriva la necessità di un reale coinvolgimento delle comunità stesse fin dalla progettazione architettonica e ambientale, e poi naturalmente nella disposizione degli oggetti nei depositi, nella scelta dei metodi di conservazione, nelle attività didattiche destinate ai visitatori, e così via. Questa collaborazione, come noi la intendiamo, si esplicita in entrambe le direzioni: da parte nostra è quello che definiamo "Fourth Museum", un museo virtuale che va oltre la struttura e la localizzazione fisica delle tre sedi del National Museum of the American Indian - Smithsonian Institution (G.G. Heye Center a New York, Mall Museum a Washington, Cultural Resources Center a Suitland), un museo a cui le comunità che vivono in luoghi remoti possono comunque accedere e con cui possono interagire, per consultare le collezioni, per scambiare informazioni, per la didattica nelle scuole, per realizzare mostre. Poiché le culture native sono entità vive ed attuali, e non in via di estinzione come credevano, affascinati, George Gustav Heye e gli altri collezionisti all'inizio del ventesimo secolo, il Museo ha la responsabilità, e direi l'obbligo, di sostenerle in tutti i modi e con tutti i mezzi possibili. Gli obblighi legali della ripatriazione sono semplicemente una delle manifestazioni di un principio e di una pratica molto più ampi.


Note

(1) S. J. Gould, The Flamingo's Smile. Reflections in Natural History, New York -London, Norton & Company, 1985.

(2) T. Bennett, The Birth of the Museum. History, Theory, Politics, New York - London, Routledge, 1995, p. 77 e p. 202.

(3) Preposition de Loi relative à la restitution par la France de la dépouille mortelle de Saartjie Baartman à l'Afrique du Sud, Assemblée Nationale, Onzième Législature, Session Ordinaire de 2001-2002: Texte Adopté n. 808.

(4)ICOM, Code of Ethics for Museums, Barcelona, July 2001.

(5) La Dichiarazione sull'Importanza ed il Valore del Museo Universale è stata sottoscritta dai seguenti musei: The Art Institute of Chicago; Bavarian State Museum, Munich (Alte Pinakothek, Neue Pinakothek); State Museums, Berlin; Cleveland Museum of Art; J. Paul Getty Museum, Los Angeles; Solomon R. Guggenheim, New York; Los Angeles County Museum of Art; Louvre Museum, Paris; The Metropolitan Museum of Art, New York; The Museum of Fine Arts, Boston; The Museum of Modern Art, New York; Opificio delle Pietre Dure, Firenze; Philadelphia Museum of Art; Prado Museum, Madrid; Rijksmuseum, Amsterdam; State Ermitage Museum, St. Petersburg; Thyssen-Bornemisza Museum, Madrid; Whithney Museum of American Art, New York; The British Museum, London.

 

 

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