Rivista "IBC" XI, 2003, 3

musei e beni culturali / interventi, mostre e rassegne

Una mostra del Metropolitan Museum di New York sulle prime città-stato è l'occasione per riflettere sui rapporti ambigui tra il collezionismo e il mercato, legale e non, dei beni culturali.
Le magnifiche prede

Franca Di Valerio
[museologa]

Girando intorno alla grande lira proveniente dalla città sumera di Ur, precisamente dalla Tomba del Re, e arrestandosi di fronte alla straordinaria testa taurina che domina la sua parte frontale, in oro e lapislazzulo, ornata da una folta barba ancora più straordinaria nei riflessi blu prodotti dall'uso della preziosa pietra, non si può fare a meno di fantasticare su che tipo di sonorità questo strumento, costruito tra il 2550 e il 2400 avanti Cristo, abbia mai potuto produrre.

E non si può fare a meno di pensare, tuttavia, agli altri inestimabili oggetti ora definitivamente persi dopo il saccheggio del Museo nazionale iracheno a Baghdad nei mesi scorsi. Questa lira, per così dire più fortunata, appartiene alle collezioni del Museum of Archaeology and Anthropology della University of Pennsylvania-Philadelphia, ed è stata in esposizione al Metropolitan Museum of Arts di New York, nella mostra "Art of the First Cities. The Third Millennium B.C. from the Mediterranean to the Indus" (8 maggio - 17 agosto 2003).

La mostra illustrava l'evoluzione dell'arte e della cultura parallela al consolidarsi delle prime città-stato, e dei primi imperi, durante il terzo millennio avanti Cristo soprattutto in Mesopotamia e in Siria, e l'estensione della loro influenza fino alla valle dell'Indo e all'Asia Centrale. I reperti esposti provenivano dai più importanti siti archeologici del mondo antico, quali le Tombe Reali di Ur, appunto, il palazzo e i templi di Mari, la cittadella di Troia, le tombe di Alaca Höyük in Anatolia, il kurgan di Maikop nel Caucaso settentrionale, le necropoli di Gonur-Depe in Turkmenistan, fino alle città lungo la valle dell'Indo: Mohenjo, Daro, Harappa, Chanhudaro, Dholavira, passando per i siti in Afganistan e in Pakistan.

Questi oggetti delineano, loro malgrado, un'area della geografia politica contemporanea tra le più travagliate, ma ancora più direttamente lo fanno, con la loro assenza, quelli comunque inseriti nel catalogo che accompagnava la mostra, come la figura umana nuda, dimezzata e seduta che tiene tra le gambe l'incavo per sostenere probabilmente un'asta, proveniente dagli scavi di Bassetki e risalente alla dinastia accadica (2300-2159 a.C.). Significativa non solo come manufatto artistico, ma soprattutto per il contenuto dell'iscrizione incisa sulla sua base circolare - che reca importanti e inedite informazioni su uno dei più importanti governatori del periodo, Naram-Sin, per il quale essa venne creata - è tra gli oggetti trafugati e definitivamente scomparsi dal Museo nazionale di Baghdad. La sua immagine, oltre che nel catalogo della mostra, compare tra le foto segnaletiche delle opere d'arte rubate, most wanted, dell'Interpol e della "Emergency Red List of Iraqi Antiquities at Risk" stilata dall'International Council of Museums (ICOM).

Accade così che la mostra del Metropolitan Museum si trovi a trascendere il significato strettamente culturale, e disciplinare, per diventare metafora di problematiche e interrogativi che riguardano la protezione del patrimonio culturale mondiale, il mercato legale e non dei beni culturali, la storia recente del collezionismo, sia di quello privato che di quello alimentato dalle grandi istituzioni museali internazionali, e le sue contraddizioni.

Innanzitutto è singolare, o forse no, che dopo lo sdegno iniziale per una annunciata catastrofe culturale, e ancor prima umanitaria, che ha impoverito la cultura mondiale e la storia dell'umanità nel suo complesso, si cerchi ora di minimizzare sulla reale entità di quanto è andato perduto del patrimonio iracheno. Le ragioni politiche per cui gli Stati Uniti tentano di ridurre il numero degli oggetti perduti dal Museo nazionale di Baghdad a cifre risibili (25, a fronte dei 13.000 pezzi scomparsi dai soli depositi del Museo),1 sono piuttosto chiare. Basti pensare che insieme alla Gran Bretagna gli USA non hanno mai ratificato né la convenzione internazionale dell'UNESCO del 1954 sulla protezione del patrimonio culturale in caso di conflitto armato, né il protocollo internazionale relativo alla stessa protezione del 1999, e che hanno ignorato sia i moniti forniti dalla precedente esperienza della guerra del Golfo, quando tutti i musei iracheni vennero saccheggiati, come pure gli appelli e le sollecitazioni inviati direttamente a Washington dall'UNESCO insieme alla mappa dettagliata dei musei e dei siti archeologici iracheni.

Meno chiaro, almeno in apparenza, è il trionfalismo con cui si è annunciata la riapertura, entro settembre, di due (due!) sale di quel museo per esporre il ritrovato "tesoro di Nimrud", della cui salvaguardia bisogna ringraziare paradossalmente lo stesso Saddam Hussein, che alla vigilia della guerra del 1991 aveva fatto chiudere questi reperti nel caveau della Banca nazionale. Il propagandismo insito nella subitanea esposizione dei gioielli, delle corone, del vasellame intarsiato che costituiscono il tesoro di Nimrud non può attenuare in alcun modo il lutto per la perdita della Biblioteca nazionale, distrutta dal fuoco; della Awgaf, la biblioteca islamica bruciata con i suoi manoscritti; del saccheggio dei musei di Mosul, Tikrit, Bassora; del saccheggio dei siti delle città-stato di Nimrud, Larsa, Fara, Erech, Isin; della distruzione di moschee, palazzi, fortezze, chiese e monasteri. Questa lunga digressione nella cronaca, questo cahier de doléances di cui non conosceremo probabilmente mai la consistenza, ci introduce direttamente a un'altra questione riproposta gravemente e in termini estremi dagli avvenimenti bellici in Iraq: il traffico illegale dei reperti e, più in generale, il collezionismo d'arte e il suo mercato.

Anche a questo proposito la mostra "Art of the First Cities" ispira significativi elementi di riflessione. In una delle sale iniziali del percorso espositivo venivano presentate due piccole statuette di rame, datate tra il 3000 e il 2800 a.C., raffiguranti entrambe un demone, o forse un "eroe sciamanico"; provenienti dall'Iran e oggi appartenenti a collezioni private. La relativa scheda del catalogo ci informa che, "tristemente", questi due pezzi provengono dal mercato antiquario, e così il luogo del ritrovamento è sconosciuto, e le attribuzioni e la loro identificazione sono possibili solo in via ipotetica e per confronti formali. Questo testimonia come, ancora una volta, lo scavo illegale abbia definitivamente cancellato ogni informazione contestuale, e dunque la possibilità di ricostruire il significato e le relazioni del reperto nell'ambito della sua epoca storica.

Identico tono contrito viene utilizzato per descrivere, sempre nel catalogo, due straordinarie figurine femminili stilizzate sedute, risalenti al 3000-2000 a.C., provenienti dall'Asia centrale: l'una, priva della testa, appartiene ai reperti trovati nel sito di Gonur-Depe ed è conservata presso il Museo nazionale del Turkmenistan; l'altra, perfettamente conservata, di cui si ignora invece l'esatta provenienza, ora nelle collezioni del Metropolitan Museum dono di un collezionista, è probabilmente comparsa sul mercato antiquario europeo e statunitense negli anni Sessanta a seguito di scavi illegali. In mancanza di sufficienti informazioni che ne avrebbero permesso la interpretazione, si possono solo azzardare insoddisfacenti conclusioni sulla sua natura e funzione.

Questa blanda stigmatizzazione non deve farci dimenticare che il Metropolitan, uno dei più grandi musei universali del mondo, ha avuto e continua ad avere una politica eufemisticamente disinvolta nell'acquisizione di reperti dalla provenienza incerta o affatto documentata: il "tesoro di Morgantina", per esempio, è solo l'ultimo degli innumerevoli contenziosi aperti con l'Italia, e il coinvolgimento del Metropolitan, seppur indiretto, nel caso della phiale d'oro restituita all'Italia nel febbraio del 2000 dopo una lunga battaglia legale è indicativo dei saldi rapporti che comunque esistono tra il mercato del collezionismo privato e il mondo dei musei.

Il caso della phiale è estremamente indicativo perché, oltre al protagonista, Michael Steinhardt, collezionista e tra i maggiori benefattori del Metropolitan - molti reperti antichi di sua proprietà sono in prestito a lungo termine presso il museo, che ha peraltro proceduto all'autenticazione della phiale nonostante la dubbia provenienza, e certamente non per puro interesse scientifico o curatoriale - ha letteralmente chiamato in causa, durante il dibattimento legale, l'intera comunità museale Americana, che con le sue più autorevoli associazioni professionali (American Association of Museums, Association of Art Museum Directors, American Association for State and Local History) si è schierata e ha testimoniato contro la restituzione all'Italia del reperto conteso. In particolare, la American Association of Museums ha sostenuto con forza che il riconoscimento della legislazione italiana sulla protezione dei beni culturali, come pure quella di altri Paesi, da parte della Corte suprema statunitense ha compromesso la futura capacità dei musei di collezionare ed esibire opere d'arte antica, ammettendo così implicitamente che molte acquisizioni avvenute nel passato hanno riguardato oggetti dalla provenienza oscura, accompagnati spesso da documentazione falsa.

Nell'imminenza dell'attacco all'Iraq l'idea che gli interessi del collezionismo, sia pubblico che privato, debbano essere difesi dalle intimidazioni provenienti dalle leggi internazionali e dal dibattito pubblico si è concretizzata tempestivamente in una associazione, la American Council for Cultural Policy. Promossa dall'ex vicepresidente dei Trustees del Metropolitan Museum, Ashton Hawkins, e costituita da collezionisti privati e mercanti d'arte, in quei giorni i suoi rappresentanti si sono ripetutamente incontrati con il Ministero della difesa: ufficialmente per offrire consulenza e aiuto nella conservazione del patrimonio artistico iracheno, molto più plausibilmente - come temono gli archeologi di tutto il mondo, primo fra tutti Dominique Collon, vice-curatore del Department of Ancient Near East del British Museum, che ha lanciato l'allarme - per definire un tacito accordo volto a facilitare l'esportazione dei reperti nel post-Saddam.

Non dobbiamo illuderci, tuttavia, che queste politiche e pratiche museali borderline siano peculiari solo della realtà statunitense, anche se altrove si manifestano in maniera meno aggressiva. Appena nella primavera del 2002 il Louvre è stato costretto a un accordo, di cui tra l'altro non sono perfettamente chiari i termini, con la Nigeria che reclamava tre antiche sculture della cultura Nok trafugate dal suo territorio e in mostra tra i reperti dell'imminente, e già per altre ragioni controverso, Musée du quay Branly, ospitati temporaneamente nei propri spazi del Pavillon des Sessions. La sospetta presenza di altri oggetti di non chiara provenienza ha provocato una inusuale decisa presa di posizione da parte dell'ICOM il quale, nella versione emendata nel 2001 del proprio codice di deontologia professionale, afferma

 

[...] è estremamente non-etico per un museo tollerare il mercato illegale in qualsiasi modo, direttamente o indirettamente [...]. Deve essere fatto ogni sforzo per assicurarsi che un oggetto o un reperto non sia stato acquisito illegalmente nel, o esportato dal, paese di origine o da alcun paese intermedio in cui potrebbe essere stato posseduto legalmente. Una debita attenzione a questo riguardo dovrebbe essere utilizzata per accertare l'intera storia dell'oggetto fin dalla scoperta o produzione, prima di prenderne in considerazione l'acquisizione.2

 

La risposta congiunta delle maggiori istituzioni museali occidentali (in primis British Museum, Louvre, Metropolitan Museum of Arts, Berliner Staatliche Museen, Hermitage, Prado, Rijksmuseum) è stata un documento reso pubblico nel dicembre 2002, in cui si dichiara senza possibilità di equivoco, e nel nome dell'importanza e del valore del museo universale, la assoluta contrarietà alla restituzione di reperti reclamati dalle nazioni di origine acquisiti sia durante il periodo coloniale sia attraverso modalità attualmente ritenute illecite. L'unica eccezione concessa riguarda le opere d'arte espropriate alle vittime dell'Olocausto.3

Il concetto del museo universale, del "mondo intero sotto un unico tetto", per usare la definizione del direttore del British Museum, Neil MacGregor - secondo il quale le opere d'arte sono meglio apprezzate nel contesto di una esposizione panoramica delle civiltà mondiali, e per questo si accinge a riportare il Museo britannico al suo assetto originale del 1753 - questo concetto viene utilizzato per giustificare un mercato aperto delle opere d'arte, un mercato che in realtà rimuove i pezzi dai paesi d'origine a favore delle ricche e potenti istituzioni europee e americane.

Prendendo possesso di oggetti e reperti rari o significativi questi musei affermano il diritto di inquadrare e interpretare l'identità storica e culturale altrui, assumendo di fare questo in modo più obbiettivo di quanto possa avvenire nei paesi d'origine; essi stabiliscono cosa ha più valore del Passato, e dunque cosa vale la pena di trasmettere al Futuro. Non solo: la rimozione dei beni culturali dai loro luoghi di origine, soprattutto se questi ultimi coincidono con i Paesi del cosiddetto Terzo Mondo o con i Paesi decolonizzati, e la loro dispersione sul mercato, sono giustificate anche come un contributo alla loro conservazione: uno dei modi migliori per assicurarne la protezione, che sarebbe a rischio nei luoghi di origine.4 La qual cosa, riflettendo sui graffiti di vernice spray con cui i marines hanno vandalizzato le antiche mura della sumera Ur durante la loro avanzata verso Baghdad, tutto sommato non ci sentiamo di escludere.

 

Note

(1) B. Meyer, Most Iraqi treasures are said to be kept safe, "The New York Times", 6 maggio 2003. In una conferenza stampa tenuta presso il British Museum il 9 luglio 2003, il direttore del Museo nazionale iracheno ha affermato che finora sono 13.000 gli oggetti spariti dai depositi del Museo, e 47 quelli trafugati dalle sale espositive. Fonte: Iraq's Looted Art, "The New York Times", 9 luglio 2003.

(2) International Council of Museums (ICOM), Code of Ethics for Museums, as amended by the 20th General Assembly meeting in Barcelona on July 2001.

(3) C. Bohlen, Major museums affirm right to keep long-held antiquities, "The New York Times", 11 dicembre 2002.

(4) A questo proposito si vedano: Claiming the Stones, Naming the Bones. Cultural Property and the Negotiation of National and Ethnic Identity, edited by E. Barkan and R. Bush, Los Angeles, Getty Trust Publications, 2003; K. E. Meyer, The Plundered Past. The Story of the Illegal International Traffic in Works of Art, New York, Atheneum Books, 1977; C. Renfrew, Loot, Legitimacy and Ownership, London, Duckworth, 2000.

 

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