Rivista "IBC" XI, 2003, 1

musei e beni culturali / inchieste e interviste, mostre e rassegne

La civiltà occidentale, come i cannibali coi loro pentoloni, si è ormai abituata a rapire, cucinare e poi mangiare le culture altrui: è la tesi di una mostra organizzata dal Museo etnografico di Neuchâtel, in Svizzera. Isabella Fabbri l'ha visitata per noi, Riccardo Bonavita ha intervistato il direttore del museo.
L'appetito vien classificando

Riccardo Bonavita
[dottorando di ricerca in italianistica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Firenze]
Isabella Fabbri
[IBC]

Ci sono mostre che spiegano e appagano e altre che inquietano. L'obiettivo tendenziale delle prime (le più numerose) è quello di rispondere a una domanda culturale di conoscenza (su un evento, un personaggio, un periodo dell'arte o della storia) nello stesso tempo supposta e costruita dalla mostra stessa, proponendo percorsi centrati il più delle volte sull'esibizione spettacolare di oggetti "capolavoro". L'obiettivo delle seconde (molto più rare e difficili da realizzare) è quello di sollevare questioni, di confondere certezze precostituite e date per scontate, di spostare l'angolo da cui si inquadra e si giudica, utilizzando le armi perturbanti per eccellenza del paradosso e dell'ironia.

È il caso della mostra "Il museo cannibale" ospitata dal febbraio 2002 al marzo di quest'anno negli spazi del Museo di etnografia di Neuchâtel nella Svizzera francese: una esposizione che si propone come messa in scena / messa in discussione autoironica e feroce delle modalità con cui il museo si confronta con gli oggetti delle proprie collezioni. Il fatto che il museo che riflette su sé stesso sia un museo etnografico, se da una parte non assolve gli altri, dall'altra aggiunge urgenza e necessità alla questione di che cosa si agiti sotto l'apparente tranquillità dei rapporti tra una istituzione figlia prediletta della cultura occidentale e i prodotti delle culture altre, variamente definite come culture primitive, arcaiche ecc.

Jacques Hainard, direttore del museo e curatore della mostra, ha scelto il cannibalismo come filo conduttore di questa mostra/ragionamento articolata in scene e installazioni. Il comportamento più oltraggioso tra quelli che marcano la zona limite attribuita dal sapere e dall'immaginario collettivo occidentale alle culture primitive viene rovesciato e ricondotto a modalità tipica della nostra cultura e assunto come metafora generale delle nostre relazioni con l'altro.

Chi mangia chi? Siamo noi, suggerisce la mostra, che mangiamo le culture altrui e le cuciniamo, come il disgraziato missionario nel pentolone delle vignette: per renderle commestibili, gradevoli e inoffensive. Le nostre società, ricorda Lévi Strauss, tendono ad espellere l'altro dal corpo sociale piuttosto che inglobarlo, ma questo non esclude che una pulsione generalizzata, anche se nascosta e indicibile, al cannibalismo simbolico non sia altrettanto forte e attiva. La metafora cannibalica è così inseguita ed esplorata nella mostra in tutti i suoi risvolti, in tutte le pieghe di potenziale significato aggiunto. Le scene che si susseguono hanno titoli definitivi: "L'imbarazzo della scelta"; "L'appetito vien classificando", "Il gusto degli altri"; "Al vero buongustaio" e via metaforizzando.

Il punto di partenza è rappresentato dal grande mercato degli oggetti, massa incombente di manufatti comuni ed esotici moltiplicata da pareti di specchi, su cui è necessario operare una selezione, pena la minaccia di esserne sopraffatti. Le istituzioni museali si incaricano di farlo, ritagliando nella compartimentazione dei saperi in diverse discipline ciascuna il proprio terreno di caccia, i propri criteri ordinatori e coltivando le proprie ossessioni particolari in aggiunta a quelle comuni che sono per tutti "accumulare e classificare".

Anche il museo di etnografia classifica (ed esorcizza) il proprio patrimonio accumulato per donazioni e vendite, ma soprattutto frutto o bottino di missioni e spedizioni sul campo che rinviano nella loro generalità al periodo coloniale. Dietro un asettico tavolo di studio su cui sono gettati alla rinfusa oggetti e strumenti di classificazione (dal calibro al computer) passano a ciclo continuo le immagini impietose dei padri fondatori dell'etnografia e dell'antropologia, paternalisticamente sorridenti tra piccoli gruppi di indigeni in posa. Ogni diapositiva, svanendo, porta con sé la memoria fugace di quegli uomini lontani. Restano gli oggetti etichettati e conservati nella dispensa/deposito del museo, incellofanati come reperti deperibili in apposite celle frigorifere. Pronti per essere esposti/cucinati.

L'aspirante curatore di mostre ha a disposizione, a questo punto, una vera e propria cucina e un ricettario con cui imbandire la tavola per i visitatori affamati di alterità. Il ricettario propone una vasta gamma di soluzioni/ricette: l'oggetto esotico potrà essere esposto privilegiando ora questo ora quell'elemento che lo differenzia o lo rende simile agli oggetti che conosciamo: la funzione sacra, il valore estetico, il mimetismo, la giustapposizione, le relazioni logiche o le associazioni poetiche. Maschere, idoli, statue, ornamenti cerimoniali non sono ormai più visibili nella loro materialità: nascosti dietro vetri fumè, compaiono nitidamente solo all'interno dello schermo di un computer, come immagini a corredo di una scheda: per farli apparire occorre puntare contro di loro una di quelle pistole (sic) che vediamo maneggiare alle casse del supermercato per il riconoscimento del codice a barre che marca ogni prodotto.

Il visitatore è ora pronto per entrare nel cuore (cruento) della mostra: la sala da pranzo rumorosa di voci e stoviglie di un ristorante, completa di rasi rossi e specchi dorati alle pareti, in cui campeggiano sette grandi tavole imbandite che offrono ciascuna un particolare menu, compendio dei diversi modi in cui l'oggetto esotico è offerto ai nostri occhi e al nostro palato. C'è il menu che punta sul recupero del gusto primitivo, quello che privilegia le associazioni forti e scabrose di sapori e cibi, quello che propone l'esotico import-export tipico del mondo globale in cui viviamo, quello che sceglie di valorizzare la valenza estetica dell'oggetto: un piccolo idolo di legno africano servito con raffinatezza tra due schizzi di salsa rossa. Nouvelle cuisine museal-espositiva. Alle pareti riproduzioni di illustrazioni d'epoca ripropongono per il piacere dei commensali cannibali il tema dell'ormai datato cannibalismo altrui.

La mostra non finisce qui, anzi si spinge ambiziosamente a provare la tenuta della metafora che la fonda anche al di fuori dell'istituzione museale, spostandosi in terreni più ardui come quelli del nostro rapporto con il sacro. Ma la rappresentazione del nostro normale cannibalismo culturale è talmente forte e brillante da non tollerare quasi esercizi supplementari di intelligenza o provocazione. Chi volesse gustarsela direttamente, può trovarne un riassunto sul sito del museo www.men.ch oppure digitando direttamente su un motore di ricerca "musée cannibale".

C'è da aggiungere solo che le domande che la mostra mette in scena e le vie di uscita problematiche che suggerisce si ritrovano sparse anche nel museo e nelle scelte che presiedono alle sue esposizioni permanenti. Nato nel 1904, il museo etnografico di Neuchâtel possiede circa trentamila oggetti, più della metà dei quali appartenenti a collezioni africane. Ma esistono anche consistenti fondi asiatici, eschimesi e dell'Oceania. Succede così che il visitatore possa scegliere tra la settecentesca collezione di storia naturale del generale Charles Daniel De Mauron e un'esposizione permanente dedicata all'Himalaya in cui oggetti antichi e industriali, statue dorate del Bhutan e confezioni di crema solare Sherpa Tensing convivono organizzati in due mandala giustapposti.

 

[I.F.]

 

Esporre è turbare l'armonia. Intervista a Jacques Hainard

 

Nel sito internet del vostro museo si legge una sorta di "manifesto" dell'esposizione museale contemporanea. La prima battuta suona così: "Esporre, è turbare l'armonia". Che genere di armonia cercate di turbare?

Turbare l'armonia significa che si vuole sconvolgere la tranquillità e soprattutto la certezza che abbiamo sempre di possedere la verità. Vogliamo che i visitatori, uscendo dalle nostre mostre, si pongano domande del tipo: "Perché penso nel modo in cui penso?", "Perché dico quello che dico?". A Neuchâtel noi non organizziamo mostre esplicative, ma mostre che si propongono di sollevare problemi. Tanto meglio se la gente esce di qui turbata, a volte anche arrabbiata. L'importante è che si rimetta davvero in questione.

 

Perché avete scelto la metafora del cannibalismo? Per produrre il massimo di choc, straniamento e spettacolarizzazione possibili, oppure perché questa metafora racchiude un nocciolo cognitivo?

Rispondo affermativamente a tutte e due le opzioni che mi propone. Si vuole certo scioccare perché la gente si interessi realmente alla problematica del cannibalismo metaforico, ossia alla nostra volontà di nutrirci dei prodotti di altre culture. Ma c'è anche una componente cognitiva. Effettivamente noi siamo i cannibali degli altri perché vogliamo ricondurre tutto a noi, alla nostra cultura, alla nostra società occidentale. Per più di duecento anni l'etnografia si è sistematicamente impossessata di reperti di culture altre per portarli nei musei etnografici, credendo in questo modo di poter spiegare il funzionamento delle società umane. Quando mancavano alcuni oggetti alla serie completa, si diventava ancora più golosi. Questa sorta di delirio di acquisizione ci ha condotto oggi ad una impasse perché non sappiamo più cosa questa operazione significhi. Dunque occorre rimettersi in discussione e ricominciare a riflettere sul ruolo e lo statuto del museo etnografico.

 

Nelle esposizioni che realizzate, il museo si decostruisce, diventa un luogo paradossale, il luogo del paradosso. Pensa che sia questo il ruolo del museo in generale e del museo etnografico in particolare?

Il museo ha il dovere di produrre un discorso teorico che deve essere comunque legato all'attualità: questa è una cosa a cui tengo moltissimo. E credo che il museo si debba decostruire, ma, per far questo, credo debba conoscere bene e rendere esplicita la propria storia. Solo mediante un'opera di decostruzione, il museo permette di capire come funziona la società in cui è inserito. Il museo in fondo funziona come cartina di tornasole della società, è un luogo di contrattazione su ciò che è lecito conservare o mostrare in un dato momento. Operare una decostruzione immergendosi nella storia è molto illuminante. Quando gli etnografi compivano missioni sul campo era assolutamente normale che riportassero oggetti ottenuti in modi discutibili: per avere reperti si è saccheggiato, rubato, negoziato anche in modo vergognoso.

Queste sono cose che vanno dette. Bisogna dire che siamo arrivati al punto di impagliare un essere umano per sistemarlo nei nostri musei. All'ingresso della mostra abbiamo messo una pagina di un numero di "Le Monde" uscito all'inizio del 2002 in cui si riferiva di come il governo sudafricano avesse richiesto i resti della celebre "Venere ottentotta", una ragazza che si chiamava Saartje Baartman, e di come la Francia dovesse pronunciarsi sulla questione se dei resti umani facessero o meno parte del patrimonio nazionale. Svelare episodi del genere serve per capire come noi guardiamo gli altri, come ci collochiamo, perché in fondo noi seguiamo sempre gli stessi criteri di riferimento e crediamo sul serio di avere la verità in tasca.

 

La vostra volontà di produrre paradossi e interrogazioni è molto vicina a quella dell'arte modernista e delle avanguardie. C'è una differenza tra la paradossalità estetica dell'avanguardia artistica e letteraria e la produzione di paradossi che voi mettete in scena nelle vostre esposizioni?

Ci sono sicuramente differenze nel risultato estetico e nelle modalità utilizzate. Io sostengo che il museo in generale e il museo etnografico in particolare debbano essere un luogo di destabilizzazione culturale. Questa è la loro missione. Nella nostra società ci sono già abbastanza luoghi dove si impara. Malgrado quello che se ne dice, le nostre scuole e le nostre università non sono scadenti. Non ci sono invece abbastanza luoghi dove apprendere una cultura critica. Credo che il museo sia un luogo privilegiato per cercare di far capire tutto questo in modo semplice, perché la mostra è un medium straordinariamente efficace, un medium totale in cui si possono utilizzare le tecniche del cinema e del teatro, ma anche gli odori, i suoni, l'informatica.

 

Quale è la ricezione sociale del vostro lavoro?

È sorprendentemente buona. Abbiamo fatto dei sondaggi su ciò che pensavano i nostri visitatori e siamo rimasti stupiti nel constatare quanta gente sia in grado di capire. Le nostre mostre - è un'immagine che uso spesso - sono come i dolci millefoglie, con gli strati di senso uno sopra l'altro. Così il visitatore medio, chiunque sia, può entrare in uno di questi strati per cercare di produrre senso e capire delle cose anche rapportandole a sé, al suo sapere, alla sua ideologia. Funziona molto bene e succede talvolta che i visitatori si spingano molto più in là di noi, facendo associazioni a cui non avevamo neanche pensato. Non c'è bisogno di essere specialisti. Il pubblico capta gli assunti che proponiamo e questa "captazione" lo riconduce ad un interrogativo. È questo il meccanismo. Nel caso del "Museo cannibale" abbiamo avuto un pubblico molto ricettivo. Le persone escono colpite dalla tesi che avanziamo, tanto colpite da essere arrabbiate o turbate o entusiaste. L'importante è che l'obiettivo di suscitare reazioni sia raggiunto. Allora si può dire che sia stato un successo.

 

[R.B.]

 

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