Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

Dossier: 6000 caratteri per un museo - Luoghi d'incontro e nuove narrazioni nei musei dell'Emilia-Romagna

musei e beni culturali, dossier /

Il casolare

Michele Tosi
[docente di Storia dell'arte all'Istituto tecnico commerciale "Rosa Luxemburg", Bologna]

Quella era una giornata senza desideri.

Mi alzai presto come al solito ma, dopo essermi vestito, restai lì, sulla sedia, senza sapere cosa fare.

Avrei dovuto terminare una tela con raffigurato un battesimo, ma non era giornata. Non avevo voglia di prendere in mano i pennelli.

Decisi così di uscire, di fare un giro per Bologna alla ricerca di qualche spunto per i miei dipinti.

Mi cambiai, mi rivestii con qualche straccio, indossai un ampio cappello per proteggermi dal sole battente, e m'incamminai verso la campagna.

Man mano che la città si allontanava, percorrendo quei longhi (sic) sentieri, sentivo tornarmi il buon umore: i visi della gente, le loro voci, i loro gesti erano così veri e così rusticamente emiliani, niente a che vedere con le affettazioni cittadine. Anche le cose, in quei luoghi, parevano possedere una loro umanità.

Mi piaceva quella realtà - o forse dovrei dire "la realtà" -, mi piaceva rappresentarla nelle mie opere, mi piaceva mischiarmi a essa. Per questo nel mio guardaroba, così ricercato da farmi meritare l'appellativo di "Spagnoletto" perché vestivo spesso eleganti abiti di foggia spagnola, tenevo anche alcune camicie e qualche pantalone da contadino - come quelli al ginocchio che portavo quel giorno, così inadeguati per un uomo di una cinquantina d'anni qual ero all'epoca. Così vestito potevo avventurarmi nella campagna o nei posti più umili della città, dove i bambini correvano ignudi per le strade, senza farmi notare e, se entravo in qualche osteria, venivo regolarmente invitato a farmi qualche mano di tarocchi.

Dopo ore di cammino, e di incontri, e dopo tanto guardare e stupirmi, e commuovermi e, insomma, dopo tanto divertirmi in quel viaggio con me stesso, verso sera, ormai ritemprato nello spirito, scorsi, sulla via del ritorno, un casolare e decisi di fermarmici per un po'.

Entrato nella corte mi addossai a un muro e lì principiai a fare i miei bisogni.

Fu in quel momento che, mentre un gatto cercava di graffiarmi, mi sentii apostrofare duramente da una voce di donna; trasalii, al punto che, nel voltarmi stupito verso di lei, mi bagnai i pantaloni.

La donna era poco distante da me e stava lavando dei panni in una mastella. Immerso nei miei pensieri non avevo fatto caso alla sua presenza, come non mi ero avveduto della presenza di un'altra donna seduta sotto il portico, con alcune scodelle fra le mani, intenta ad accudire un bambino.

Il bimbo mi sorrise. Le due donne no.

Mi ricomposi e andai verso di loro. La più aggressiva, quella che mi aveva apostrofato, vedendomi avanzare verso di lei si fece più cauta e mi squadrò silenziosa, con diffidenza; l'altra si alzò nell'eventualità che dovesse intervenire per difendere la compagna.

Mi avevano scambiato per un vagabondo e, di questi tempi, non si sa cosa aspettarsi da un uomo che gira solo per le campagne. Perlopiù niente di buono.

Mi fermai scusandomi per la mia scortesia e dissi loro di non avere paura, che non avevo cattive intenzioni.

Raccontai perché mi trovavo lì e le donne risero di gusto pensando a questo gentiluomo vestito di stracci e che, come sovrappiù, faceva quasi dieci chilometri per andare a fare pipì contro un muro. I mie pantaloni bagnati poi sembravano accentuare a dismisura l'effetto comico della situazione paradossale.

Anche il bimbo pareva divertirsi. Sembrava un angelo.

Le donne mi offrirono un poco di pane con del formaggio e un bicchiere di vino. Restammo a parlare per qualche tempo, non troppo, perché quando si è poveri, e loro lo erano, il tempo non si può perdere a bighellonare.

Io restai per qualche tempo, mentre loro seguitavano nelle loro occupazioni, a guardarmi intorno, a cercare di fare amicizia col gatto, con un cane lì vicino e a far giocare il bimbo con una trottola a corda.

Il gatto riuscì finalmente a graffiarmi, il cane mi ignorò, mentre, per quanto riguarda il bambino, credo di essermi divertito più io di lui.

Le donne poi mi chiesero se mi volevo fermare a desinare - di lì a poco sarebbero rientrati anche i loro mariti. Quella sera ci sarebbero state patate in tavola. Una bella mangiata di patate... mi ricordò qualcosa... forse un mio lavoro? Forse no.

Era arrivata l'ora di andarmene - in verità quell'ora era passata ormai da un pezzo. Salutai le donne e abbracciai con calore il bambino; ma il mio sguardo correva ormai lontano, per i campi, a seguire l'ombra di una volpe che si perdeva nella sera come il profumo di quella giornata.

Nell'allontanarmi mi voltai e chiesi quale fosse il nome del bambino: "Francesco" mi disse la lavandaia.

Sorrisi, non so perché.

 

[l'opera citata: Giuseppe Maria Crespi, Il casolare o Scena di cortile, olio su tela, prima metà del XVIII secolo]

 

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