Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

Dossier: 6000 caratteri per un museo - Luoghi d'incontro e nuove narrazioni nei musei dell'Emilia-Romagna

musei e beni culturali, dossier /

Bastioni

Ivaldo Gualdi
[tecnico ambientale del Comune di Vignola (Modena)]

No, Mario proprio non ne aveva voglia: "Ala mi etè... [alla mia età...]".

Quando suo figlio aveva detto che li avrebbe accompagnati a vedere qualcosa di nuovo a Bologna, lui e sua moglie, entrambi ultrasettantenni che non si erano quasi mai allontanati dalle montagne della Val di Setta, proprio non pensava di entrare in un museo.

Mario era cresciuto nei campi. Fin da bambino era stato abituato alla zappa e al falcetto, a mungere la capretta che i genitori gli avevano affidato in custodia, facendolo sentire un piccolo uomo, responsabile insieme agli altri del mantenimento della famiglia. Aveva imparato presto a battere il ferro e a usare la pietra per affilarlo, sempre pronta e riposta nel corno di bue legato al fianco durante i caldi giorni di giugno, quando si mieteva il grano a mano, quasi arrampicandosi sugli appezzamenti coltivati della vallata. A scuola non c'era mai andato volentieri, e aveva smesso con la quinta elementare, approvato dalla stessa maestra che aveva ratificato con la propria autorità la sua "predisposizione" a fare il contadino.

E ora eccolo lì, impacciato, nel vestito buono che metteva solamente per le feste comandate, amorevolmente spinto dalla moglie, sempre pronta a riprenderlo per il suo selvatico disordine, aggirarsi fra gli alti, ampi corridoi illuminati della Pinacoteca nazionale.

Un gruppetto di anziani un po' chiassosi, allegri e colorati, che deambulavano sorpresi in questo ambiente nuovo, accompagnati da quei matti dei loro figli, generi e nuore, che avevano avuto questa bella pensata di sostituire l'annuale scampagnata primaverile fra i parenti più stretti con un tuffo nel traffico cittadino, fra i portici e gli autobus dell'ATC che facevano tremare il lastricato in pietra delle strade, e poi qui, fra tanti di quei quadri che non finivano mai.

Mario era sempre stato un po' lontano dalle chiese, e non aveva una gran confidenza con santi e madonne, ai cui rappresentanti in terra si rapportava peraltro con timoroso rispetto in quei momenti della vita nei quali si sentiva moralmente obbligato, quali matrimoni e funerali. Un "Sgnaur Arziprit... [Signor Arciprete...]" con il berretto in mano era il suo biglietto da visita in quelle occasioni.

E adesso, a trovarsi in mezzo a quell'affollamento di severi santi dorati, di mani benedicenti, di sguardi compassionevoli, gli sembrava di essere in una sagrestia interminabile, nella quale si muoveva impacciato, sorpreso e magari un po' curioso, pur senza ammetterlo a sé stesso, cocciutamente insofferente di quella situazione nella quale si sentiva estraneo. Si muoveva sospinto dagli altri, più addomesticati, approvando con un cenno del capo agli sguardi interrogativi o alle spiegazioni di suo figlio, quell'unico figlio che si era staccato dai ritmi delle stagioni nei campi per andare a fare l'impiegato, come quasi tutti quelli della sua età, del resto, mettendosi in fila tutte le mattine sulla statale. Sovrappensiero seguiva il gruppo, sfiorava con lo sguardo le tele, ne avvertiva distratto i colori.

Poi... fece alcuni gradini, entrò in una nuova sala, e quando gli altri spostarono le proprie sagome, quasi all'improvviso, vide quei volti.

Le bocche delle madri, il freddo pallore dei bimbi uccisi, la mano trattenere la fuga disperata, i pugnali alzati, assassini. Dopo una prima improvvisa sensazione, di vuoto e di stanchezza, Mario sentiva pian piano sciogliersi le braccia, come quando la sera, stanche del lavoro vigoroso dei suoi trent'anni, si scaldavano del tepore domestico sulla tavola apparecchiata.

E sentiva svanire quel disagio, già lontano, e appesantirsi il cuore, e bruciare un po' gli occhi.

E gli pareva di essere illuminato da quella stessa luce di una sera d'Appennino, e sentiva come un fragore di tuono, e di pianti d'innocenza strappata, e di voci straniere...

E sentiva come un odore di fumo, salire fra i casolari delle sue montagne, su, su, fino a Casarsa, e a Casaglia, e a Cerpiano, su, su, fino a Monte Sole, fra le strade inghiaiate, e le capezzagne, e le vigne.

Odore di fumo, e di fuoco, e crepitìo di spari, ed esplosioni, e il proprio sudore, e l'affanno della corsa, via, via, via fra i campi, e salire, via, via, e arrampicarsi, e mani e gambe e occhi, via, via, via fra i fossi, e le siepi, e i boschi, e i grotti.

No, non era caldo in quella grande sala, davanti a quella grande immagine, ma Mario sentiva il colletto della camicia bagnato; prese il fazzoletto dalla tasca della giacca e si asciugò.

Stava per riporlo, quando lo sorprese la moglie.

"Cum fet po' a suder, an n'è megga cheld... [Come fai poi a sudare, non è mica caldo...]".

 

Mentre risalivano lungo la fondovalle i fari delle auto illuminavano ormai la strada, e la luce della sera, quella stessa luce di una sera d'Appennino che illuminava quei bastioni e quelle colonne testimoni di una strage d'innocenti raccontata da un pittore, andava spegnendosi dietro il Monte Sole, sull'altro versante di Marzabotto.

 

[l'opera citata: Guido Reni, Strage degli innocenti, olio su tela, 1611]

 

Pinacoteca nazionale

Bologna, via delle Belle Arti 56

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