Rivista "IBC" XIII, 2005, 1
musei e beni culturali / interventi, restauri
In Emilia-Romagna la città che sicuramente possiede il maggior numero di mosaici è Ravenna. Qui l'arte musiva ha subìto, tra il I secolo a.C. e il VI-VII secolo d.C., uno sviluppo di eccezionale importanza. È naturale che proprio a Ravenna si sia venuta a creare nel tempo una delle migliori scuole di restauro del materiale musivo. Le sue origini sono da ricercare lontano nel tempo e, per ripercorrerne i vari momenti di crescita, è opportuno ricordare i diversi interventi operati nei secoli in due dei principali edifici ravennati: Sant'Apollinare Nuovo e San Vitale. Essi ci serviranno per orientare il nostro discorso, per ricordare i nomi dei restauratori e per osservare il mutare degli atteggiamenti metodologici.
Per quanto riguarda i mosaici di Sant'Apollinare Nuovo, bisogna innanzitutto ricordare i primi lavori eseguiti sulle due fasce inferiori delle decorazioni parietali, di poco posteriori al 561, quando l'imperatore Giustiniano concede alla chiesa cattolica, nella figura dell'Arcivescovo Agnello, tutti gli edifici religiosi della città. Tra questi vi era anche Sant'Apollinare. La chiesa, originariamente consacrata al culto ariano, conservava al suo interno, nelle decorazioni musive delle fasce inferiori, rappresentazioni legate all'Arianesimo. I lavori così non saranno tanto di restauro, ma piuttosto di rifacimento: i mosaicisti incaricati eliminano dai mosaici ogni richiamo alla religione ariana, realizzando immagini legate invece al cattolicesimo, come ad esempio il famoso Corteo con le Sante Vergini e quello con i Santi. In epoche successive, tra il XVI e il XVIII secolo le lacune venutesi a creare sulla superficie musiva subiscono integrazioni di tipo perlopiù pittorico, con intonaco colorato o neutro.
Il restauro pittorico viene progressivamente abbandonato a favore di integrazioni a mosaico. A questo concorrerà la partecipazione ai restauri dei mosaicisti della scuola romana. Fra tutti si ricordano Liborio Salandri e Felice Kibel.
Il Salandri - molto attivo anche a Venezia - sarà il primo a occuparsi seriamente dello stato conservativo dei mosaici ravennati. Il suo modo di operare consisteva generalmente nel collocare le tessere su un cartone rovesciato per poi ribaltarlo ponendo in opera le tessere sul piano parietale trattato con un mastice di calce e polvere di marmo. Il risultato è la creazione di una superficie piatta, in netto contrasto con le zone circostanti. Si tratta di un metodo indiretto che troverà applicazione, in epoche successive e con opportuni accorgimenti, nella creazione di grandi lavori musivi, come ad esempio quello recente della Metropolitana di Roma.
Il lavoro del Salandri viene proseguito dal suo allievo Francesco Mazzoni, che opera impiegando cartoni di Ignazio Sarti. Al Sarti si deve, nel 1838, il Piano di esecuzione pei restauri da farsi al musaico delle pareti del tempio di S. Apollinare dentro la città di Ravenna, in cui si nota il desiderio di conferire agli interventi di restauro un carattere di scientificità attraverso l'esame dettagliato dell'area di intervento e la programmazione del lavoro. Dopo il 1850 arriva a Ravenna Felice Kibel, anch'egli di scuola romana, che viene incaricato di lavori di pulizia e di restauro, che comprendevano il consolidamento delle superfici e l'integrazione delle lacune.
Il Kibel lavorerà per Sant'Apollinare tra il 1853 e il 1873 (1853-55, per la parete settentrionale, 1857-73 per quella opposta, con un'interruzione tra il '58 e il '61). Felice Kibel, al contrario del Salandri, opererà direttamente sulla parete, introducendo l'uso, come legante, di un mastice composto di calce, pietra calcarea e morchia di lino. Tale mastice presenterà alcuni inconvenienti come ad esempio il suo ritirarsi eccessivamente in fase di essiccazione, determinando conseguentemente il distacco di parti di superficie musiva. Per il consolidamento delle zone di stacco il Kibel utilizzerà grappe metalliche, che però daranno problemi di ossidazione e, col tempo, si arrugginiranno. Molto dannosi sono stati poi i lavaggi da lui operati sui mosaici con acido nitrico e soluzioni di potassa. I restauratori ottocenteschi eseguivano le integrazioni di lacuna in modo abbastanza libero, impiegando generalmente il rifacimento: là dove mancava una parte dell'immagine la ricomponevano seguendo criteri piuttosto singolari. Un esempio è quello dell'ultimo pannello della fascia superiore di sinistra, con scene cristologiche. Il Kibel vi rappresentò La moltiplicazione dei pani, mentre, secondo una precedente incisione del Ciampini, vi si trovava rappresentata la scena de Le nozze di Cana. Questo non è tuttavia il solo episodio di rifacimento arbitrario di un mosaico e non si tratta di un atteggiamento da attribuire al solo Kibel.
Successivamente i lavori vengono assegnati a Carlo Novelli, primo restauratore originario di Ravenna, che si avvale dell'aiuto di Giuseppe Zampiga. L'opera del Novelli segna la fine del dominio dei restauratori della scuola romana. Il Novelli consolida le parti pericolanti e pulisce i mosaici che si erano sporcati nei corsi di precedenti lavori sulla copertura. Egli utilizza un particolare tipo di grappa a vite, progettata dall'ingegnere Alessandro Ranuzzi. Interessante dei restauri del Novelli è il fatto che i suoi interventi non saranno mai di tipo irreversibile, anticipando così le più moderne teorie sul restauro. Il figlio ne proseguirà l'operato introducendo l'uso del cemento Portland.
I restauri passeranno poi allo Zampiga che, coadiuvato dall'Azzaroni, realizzerà, per volontà del Soprintendente Corrado Ricci, una serie di cartoni relativa allo stato dei mosaici su cui erano realizzati gli interventi. L'attività dello Zampiga, estendendosi agli altri monumenti ravennati, diventerà un'importante mappatura del mosaico ravennate, strumento imprescindibile per ogni futuro intervento sui mosaici del territorio - le celebri Tavole storiche.
Nel 1898 lo Zampiga, sotto la direzione del Ricci - diventato in quell'anno Soprintendente dell'appena costituita Soprintendenza ai Monumenti di Ravenna - interviene ancora sulle zone che presentavano rigonfiamenti e stacchi. Egli compie anche imbibizioni di cemento per aumentare la coesione, utilizza grappe in rame a croce per superare i problemi di ossidazione creati dal ferro e impiega anche il distacco su tela con successiva ricollocazione in situ. Lo Zampiga esegue anche un'integrazione in stucco dorato nella greca sovrastante il Corteo delle Martiri, intervento favorito dal Ricci che, avendo lo storico Agnello lodato nei suoi scritti gli stucchi di Sant'Apollinare, si convinse che qui si trovasse una cornice di stucco dorato, che poi verrà decorata dall'Azzaroni a finto mosaico.
In seguito alle numerose e sempre più accurate campagne di restauro che si effettuano nei tanti edifici ravennati, si forma a Ravenna in gruppo di esperti restauratori che poi insegneranno il restauro e il mosaico in varie scuole, garantendo così il mantenimento della tradizione musiva cittadina. Viene fondata nel 1924, all'interno dell'Accademia di Belle Arti, la Scuola del Mosaico, posta sotto la direzione dello Zampiga. Fra gli anni Trenta e i Quaranta la posizione di Ravenna in relazione ai restauri musivi si consolida ulteriormente grazie all'operato, che si farà nel tempo sempre più frequente, della Scuola suddetta, cui si aggiungerà negli anni la Bottega del Mosaico (la prima avrà come direttore nel corso degli anni Quaranta Renato Signorini, mentre la seconda Giuseppe Salietti); le due istituzioni lavoreranno, tra l'altro, sui mosaici pavimentali di San Vitale.
I restauri dei mosaici pavimentali di San Vitale permettono di chiarire il percorso del restauro musivo ravennate durante il XX secolo. Tra il 1898 e il 1906 Corrado Ricci promuove i lavori per lo smantellamento delle strutture non originarie dell'edificio. Sempre il Ricci inizia a occuparsi del problema del ripristino delle quote pavimentali originali per quanto riguarda l'abside e il presbiterio. Alla base della concezione del restauro del Ricci si trova il dato storico: l'esame diretto del monumento non può prescindere dall'essenziale nozione storica dello stesso e viceversa. In collaborazione con l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, il Ricci provvede anche alla realizzazione di un nuovo paramento marmoreo per la zona presbiteriale. Il lavoro del Ricci sulle quote pavimentali verrà ripreso tra il 1911 e il 1932 dal Gerola e dal Bartoccini. Esso presenta dei problemi di difficile soluzione essendo Ravenna interessata dal fenomeno della subsidenza, con conseguente innalzamento della falda acquifera e progressivo sprofondamento del terreno.
Il lavoro del Gerola sulla ricerca del piano originario di San Vitale sarà relativo non solo alla zona presbiteriale e absidale ma anche al corridoio anulare e all'ottagono centrale. Il Gerola, tra l'altro, rimosso il terreno di riempimento, troverà il sacello di San Vitale, da lui datato al V secolo. Gli scavi effettuati dal Gerola lungo tutto il percorso del deambulatorio e i vari ritrovamenti di lacerti musivi sono testimoniati da un'ampia serie di disegni eseguiti dall'Azzaroni che riguardano tutte le campate e i lunettoni corrispondenti. È pervenuta una prima serie di disegni databili tra il 1912 e il 1913, comprendenti alcune ipotesi ricostruttive dei mosaici a matita, mentre tra il 1926 e il 1929 l'Azzaroni disegna le definitive ipotesi di ricostruzione. I lavori di ricollocamento in situ dei primi mosaici del deambulatorio si protraggono nel tempo e hanno luogo tra il 1926 e il 1932, grazie all'intervento dell'Opificio delle Pietre Dure. Nel 1932 il Bartoccini, diventato nel 1929 il principale rappresentante della Direzione degli Scavi Monumenti e Opere d'Arte per la provincia di Ravenna, collabora con Fulvio Vetraino del Museo Nazionale di Roma e con le maestranze ravennati, come del resto avviene anche per i lavori su alcuni spicchi dell'ottagono centrale.
Per quanto riguarda i restauri dei mosaici delle prime tre campate, opera dell'Opificio fiorentino, è bene ricordare che nessun lacerto originario è stato ricollocato in situ. La ricostruzione è stata effettuata su pannelli di cemento accostati, lavorati fuori opera sulla base dei disegni dell'Azzaroni, impiegando tessere nuove frammiste a tessere di recupero. Le lastre sono state poi collocate in opera in un secondo tempo. Nella terza campata, invece, Fulvio Vetraino, con l'aiuto dei ravennati Giuseppe Zampiga, Renato Signorini e Ines David, ricolloca in situ numerosi lacerti originali. Le parti originali, o di restauro antico - eseguito tra il XII e il XIII secolo - sono individuabili per il tipo di materiale impiegato, per gli andamenti e la forma delle tessere. Lo spicchio vicino al presbiterio è invece completamente ricostruito.
Tra il 1975 e il 1976 si prende in esame il problema della ricollocazione dei lacerti musivi originali del deambulatorio sulla base dei rilievi dell'Azzaroni. I lacerti originali, posti su lastre di cemento, avrebbero potuto essere restaurati, applicati su lastre di materiali più consoni, come l'aerolam, e musealizzati. Si decise invece di ricollocarli nella loro sede d'origine. Come dice la sovrintendente Iannucci: "L'integrazione dell'immagine non è qui da intendersi nella stessa accezione e con lo stesso atteggiamento ideologico degli interventi dei primi decenni del secolo. Non è la pretesa unità di stile che viene perseguita, quanto la certezza che la spazialità di un organismo è data dalla connessione e dal valore delle singole parti". I lacerti dovevano essere sempre riconoscibili e si doveva inoltre garantire la reversibilità dell'intervento. Questi sono i criteri che si sono tenuti presenti nel corso delle operazioni più recenti di restauro.
I lavori sono stati eseguiti dalla Cooperativa Mosaicisti di Ravenna e dal Centro Regionale di Avviamento Professionale di Ravenna. Le campate interessate sono la quinta, la sesta e la settima. Le metodologie di intervento sono eterogenee. Nel lunotto della settima campata e nella sesta campata si impiegano per le integrazioni tessere di colore più chiaro, adottando tessere vitree poste di taglio come elementi separatori tra integrazione e lacerto originale. Nella lunetta della sesta campata, essendo la rappresentazione caratterizzata da elementi figurativi - non quindi di carattere decorativo o geometrico - per le integrazioni vengono utilizzati fondi neutri a tessere chiare. La linea di demarcazione tra rifacimento e originale è resa per mezzo di tessere poste di costa.
Attualmente nel restauro musivo si impiegano con frequenza materiali non consustanziali riproducendo, ad esempio, la trama delle tessere per mezzo di malta incisa colorata, per garantire una più agevole reversibilità dell'intervento, e una sua facile riconoscibilità, come è stato spesso operato da Officina Mosaico di Luciana Notturni in relazione agli interventi sui mosaici della Casa dai Tappeti di Pietra o su quelli faentini e, più recentemente, nei lavori effettuati sui mosaici della Domus del Triclinium, eseguiti dal laboratorio di restauro di Paola Perpignani. Gli ultimi interventi citati si sono avvalsi dell'operato del restauratore musivo Paolo Racagni che, negli ultimi trent'anni, si è reso artefice dell'applicazione di nuovi e interessanti metodi di pulitura, consolidamento e integrazione di lacuna.
Da ultimo voglio ricordare due fondamentali istituzioni scolastiche ravennati: l'Istituto Statale d'Arte per il Mosaico "Gino Severini" e la Scuola per il Restauro del Mosaico (ora riconosciuta come sezione distaccata dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze), luoghi fondamentali per il tramandarsi, all'interno della formazione di quelli che saranno i nuovi operatori del settore, di una tradizione così importante e consolidata. Per il futuro si auspica un incremento degli interventi di restauro rivolto non soltanto alla preservazione dell'antico, ma anche alla tutela dei numerosi mosaici contemporanei ubicati nel territorio ravennate; tra questi voglio ricordare in particolare i mosaici del Parco della Pace (soprattutto il pavimentale con l'Albero della vita realizzato su progetto di Mimmo Paladino e il San Michele di Bruno Saetti, che presentano situazioni di particolare degrado) e la serie dei lavori realizzati per la mostra del 1959, esposti alla Loggetta Lombardesca.
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