Rivista "IBC" XXV, 2017, 4

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Pubblichiamo l’intervento tenuto dal professor Battistini nel corso del convegno di studi “Il ‘gusto’ della ricerca” in onore di Piero Camporesi svoltosi a Forlì e a Bologna in occasione del ventennale della sua scomparsa.
Tormenti e sopportazione della povertà in Giulio Cesare Croce

Andrea Battistini
[Docente di Letteratura italiana all'Università di Bologna]

Uno dei periodi di maggiore depressione economica che l’Europa abbia mai conosciuto è quello che va dalla fine del Cinquecento al primo Seicento. Fernand Braudel descrive quei decenni come quelli che preparano “la proletarizzazione, la pauperizzazione di notevoli masse di uomini miseri e sventurati, tormentati dal bisogno del pane quotidiano”. Questa condizione generalizzata ha suscitato un incremento di interesse letterario per vagabondi e mendicanti, fino allora ignorati o fatti soltanto oggetto di riso e di comicità, di burla e di disprezzo. Simbolo di una svolta è il Lazarillo de Tormes, l’opera di metà Cinquecento con cui per Corrado Alvaro “qualcosa di fuggiasco, di inquieto, di crudele, e d’una miseria inesorabile è entrato nell’arte”. In letteratura non sono mai mancati i poveri, ma è con il Lazarillo che la fame diventa l’assillo esclusivo, non dovuta a casi straordinari della vita, a rovesci della fortuna, ma patita ordinariamente, come normalità.

La Bologna di Giulio Cesare Croce è particolarmente sensibile a questi soggetti di povertà: basti pensare alla serie delle Arti per Via, rassegna dei più umili mestieri disegnati da Annibale Carracci, autore tra l’altro del Mangiafagioli, e incisi da Giuseppe Maria Mitelli. E proprio di area bolognese è la prima vera versione italiana del Lazarillo de Tormes, risalente al 1597. Si tratta delle Disgrazie di Bartolino, attribuite a Croce prima che Piero Camporesi individuasse il vero autore in Pompeo Vizzani, esponente di spicco della facoltosa e ristretta cerchia senatoria bolognese cui era parso disdicevole che “un’opera di genere burlesco”, oltretutto ambientata in contesti di bassa estrazione sociale, uscisse sotto il suo nome.

Se Vizzani non poteva permettersi di figurare come autore delle Disgrazie di Bartolino, sembrava del tutto naturale che potesse esserlo Giulio Cesare Croce, un autore saldamente radicato nelle consuetudini della sua terra che a Bologna era diventato molto popolare per una moltitudine di operette che, pur senza la carica dissacratrice del Lazarillo, descrivevano con efficacia la vita dei picari e il dramma della fame e della povertà. Come Lázaro raccontava la vita delle piazze e delle osterie, dove ciarlatani e mendicanti circuivano e ingannavano gli ingenui, Croce ha potuto cantare i gesti, i suoni, i movimenti, le piccole avventure di una cronaca minore bolognese, spesso drammatica. La sua è un’epopea della fame e degli stenti, vissuta da personaggi respinti dalla società e in cerca di qualsivoglia protezione. Il loro statuto è quello del subalterno calato nella realtà che Bachtin ha chiamato, in riferimento a Rabelais, il mondo “basso”, “materiale e corporeo”.

A Croce piaceva il ruolo di mediatore, favorito forse dal suo mestiere originario di fabbro, un artigiano che forniva gli arnesi ai contadini ma che al tempo stesso veniva in contatto, in quanto maniscalco e forgiatore di armi, con nobili e cavalieri. Croce insomma appartiene a quella che Camporesi chiama “cultura-ponte”. Da una parte tutta la materia del suo narrare fa riferimento alle esperienze proprie del picaro, abituato a vivere alla giornata con espedienti e a muoversi secondo la logica di una civiltà della miseria. Dall’altra i frequenti lamenti delle atroci condizioni in cui vivono i poveri come lui non si risolvono mai in una denuncia o in una rivolta sociale perché i destinatari delle sue poesie sono anche i signori che di sicuro alle proteste e alle rivendicazioni preferivano la rassegnazione. “Ma se ben siamo meschini, / e del tutto omai distrutti, / derelitti e mal concotti, / non però siam disperati”, si legge nella Compagnia de i rapezzati, in cui “tutti i falliti, i frusti, i strazzosi e i ruinati” se ne vanno “per la via” “lieti e contenti”, “se ben così straziati”, perché sostenuti dalla “speranza / ch’anche un dì la sorte pazza / ci farà tornar bonazza / né sarem sempre beffati”.

Se la morale è quella di un timorato benpensante, la solidarietà e la compassione di Croce verso i poveri sono in ogni caso sincere, e introducono in letteratura un accento inedito nella tradizione italiana, dove il dramma della fame, le rare volte in cui è introdotto nel tempo che va dal Rinascimento al Barocco, tende, come rileva Camporesi, ad “accademizzarsi e a stemperarsi in un certo compiaciuto edonismo letterario o in divertimento di facile e svelta novellistica” indulgente al tono caricaturale e grottesco. Anche se in Croce manca l’impegno sociale e la constatazione della sofferenza si risolve nel paternalismo, la secolare fatica sopportata dagli uomini per sopravvivere non la si descrive impassibilmente dall’esterno o dall’alto del palazzo signorile o dell’accademia, ma dalla prospettiva stessa del tugurio, dalla parte dei poveretti, dei miserabili, dei mendicanti, di quelli che non hanno un giaciglio. Arrivando a Bologna dalla campagna circostante, egli aveva trovato una città prostrata dalla concomitanza di ripetute carestie ed epidemie che verso la fine del XVI secolo avevano gettato gran parte della popolazione nell’estrema indigenza. Di questa “civiltà della miseria” il sorriso di Croce non nasconde l’asprezza, non sorvola sulle condizioni di vita dure, crude, spietate, ma le rappresenta, sia pure senza indignarsi. Anche dietro la cantabilità dei versi parisillabi, anche dietro l’irrisoria facilità nel confezionare versi su versi resi orecchiabili dalla rima, si può cogliere ugualmente la terribile realtà descritta dagli storici del tempo. Proprio Pompeo Vizzani, l’autore della versione bolognese del Lazarillo, è stato anche lo storico della sua città che ha descritto da testimone oculare la carestia degli anni 1590-1597 tradotta in poesia da Croce. Il quadro non potrebbe essere più terribile:

non si trovava oramai più chi avesse formento in casa da far pane per la sua famiglia, e con tutto che il Senato e molti particolari cittadini e mercanti facessero ogni sforzo possibile per trovare e far condurre formenti forastieri, non puotero perciò far tanto, che non morissero di fame, anco per le publiche strade, nella città fino a diecemilla poverelli, e nel contato ( sic) per tutto, fino per li campi, più di trentamilla contadini […]; essendosi assai volte i meschini costretti dalla fame trovati in necessità di mangiare non solamente pane fatto di ogni sorte di legumi e di semola, ma di radici di erbe e ogni sorte d’immondezza, ancora che grandemente aborrita dal senso umano.

Questa è la situazione del 1590, lo stesso anno in cui Croce ambienta il Banchetto de’ malcibati, una commedia nella quale il Prologo, impersonato da Appetito, preannunzia che “l’invenzion di tal soggetto / nasce dal tempo e da l’occasione / de l’anno del Novanta tanto stretto”. I suoi versi corrivi, come non hanno valore di protesta, non hanno nemmeno finalità primariamente estetiche, ma propositi documentaristici, stesi in vista di resoconti che diano la testimonianza dei fatti di una comunità fiaccata dalla miseria. Per questo molti suoi componimenti sono dedicati, come avviene di rado in letteratura, alle diverse attività produttive, di cui Croce mette a nudo la crisi con il ricorso al genere del “Lamento”, suscitato volta a volta dal costo della vita, dalla carestia, dal freddo, dalla fame. Tale è il Lamento di tutte l’arti del mondo […] per le poche facende che si fanno alla giornata, nel quale si prende atto con dolore accorato e partecipe che “finalmente l’arti tutte / son al fin ormai ridotte / e per quanto scorgo e veggio / credo andrà di male in peggio / perché a dirlo non mi ascondo / più ogni dì si stringe il mondo, / non cred’io che più s’allenta”. Come è consuetudine nei testi di un cantastorie come Croce che li recitava sulle piazze, anche il Lamento, quasi volesse rivaleggiare con la contemporanea Piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tomaso Garzoni, allunga smisuratamente la sua gittata con un interminabile elenco di più di cento mestieri accomunati dalla forzata inattività e con una rassegna altrettanto lunga di città che manifestano il loro malessere sociale. C’è senza dubbio in questa tecnica che può sembrare un pezzo di bravura una forma di “edonismo linguistico” in cui il significante sembra valere per se stesso, per la sonorità delle sue voci, ma in realtà non si deve dimenticare che dietro questi repertori si intravede la tragedia sempre più opprimente di un lavoro che andava scemando e di una disoccupazione che con il suo inventario analitico si mostrava generalizzata.

C’è quindi serietà e partecipazione quando, a causa di una “piccola età glaciale” occorsa a fine Cinquecento, Croce alza un Lamento della povertà per l’estremo freddo del presente anno 1587. Le difficili condizioni climatiche fanno per altro emergere le differenze di classe e Croce non si esime dal rilevare che se “ben han danno i cittadini / e patiscon doglie strane”, stanno “peggio i poverini, / che non ponno aver del pane / e si muoion nelle tane, / che non han nissun per loro, / senza aiuto né ristoro, / però stan con viso mesto”.

Era inevitabile che i forti squilibri economici innescassero preoccupanti tensioni sociali e suscitassero nelle classi dominanti atteggiamenti di diffidenza e sospetti verso i poveri, quasi sempre sfociati in azioni repressive, seguite a violente sollevazioni e rivolte. Un’eco di questi contrasti, spesso culminati nel sangue, si può intravedere anche nella produzione di Croce che tuttavia non affronta la piaga della povertà in chiave sociale o politica, ma, per così dire, moralistica, prendendosela, oltre che con i peccati degli uomini, puniti per questo con la carestia, con chi ne approfitta per arricchirsi rincarando il pane oltre misura.

Nella multiforme produzione di Croce è costante il confronto tra la povertà e la ricchezza, un tema per il quale la predisposizione dialogica bene si presta a raffigurare una prospettiva del mondo che, come ricorda Piero Camporesi, è “tutto un intersecarsi di contrasti e d’opposizioni e la vita si svolge in un clima di conflittualità permanente”. A fronteggiarsi possono essere, come si inferisce dal catalogo delle sue opere, l’abbondanza e la carestia, Carnevale e Quaresima, guerra e pace, i fornai o gli osti e i loro clienti, il fuso e la rocca, i meloni e i fichi, l’estate e l’inverno, ma in ultima istanza l’antitesi di fondo è sempre quella socio-economica tra i ricchi e i poveri, i padroni e i servi. Sbaglierebbe però chi si aspettasse da lui pronunce tendenti a sovvertire la gerarchia delle classi. I suoi contrasti dialogati non sono eristici, ma irenici e si risolvono sempre non già con un vincitore e un vinto, ma con un accordo finale che predica la pace sociale. Ne è prova, tra i tanti, un canto amebeo che Croce immagina tra il “pane di formento e quello di fava”. Dapprima il pane di fava, che era il cibo povero dei contadini venuto in città, è altezzosamente invitato dal pane dei cittadini a tornarsene dove era venuto, ma il contendere è di breve durata e la disputa, a differenza di quanto avveniva nella realtà, si ricompone grazie al temperamento pacifico dell’elementare filosofia crocesca.

Era però difficile, in una stagione che conobbe ognuna delle maledizioni bibliche della guerra, delle carestie e dei morbi diffusi a dimensione di pandemie, tutti fenomeni luttuosi messi continuamente in versi dal nostro cantastorie, evitare ogni tanto qualche via di fuga dalla spietata condizione umana, con cui concedere un qualche “riposo” al vero, come si sarebbe espresso di lì a poco Torquato Accetto nella Dissimulazione onesta, ovvero una tregua temporanea con cui tenere “un poco chiusi gli occhi della cognizion della propria fortuna, per meglio aprirli dopo così breve ristoro”. Da questo punto di vista, che concede a “colui ch’è misero” di “viver con qualche imagine almen di sodisfazzione, sì che sempre non abbia presente l’oggetto delle sue miserie”, Croce non fa eccezione e, a compensare le frustrazioni, si rifugia talvolta nei miti d’evasione, nell’utopia e nei sogni egualitari in grado di riscattare un sistema sociale fondato sui privilegi dei padroni. “Non sia nissun, che facci oltraggio, o scorno / ad altri, e sappi che siam tutti uguali, / e che per tutti il Sol gira d’intorno”, è la sentenza che nel corso di una visione si sente dire da uno dei sapienti che banchettano nella cornice di un tipico locus amoenus. Il componimento di cui questo enunciato egualitario fa parte s’intitola, pour cause, L’alba d’oro consolatrice.

Spiega il visitatore trasognato che le fantasticherie nascono perché, quando “spente le forze son, resta il desio”. Croce sviluppa così una letteratura del desiderio per fuggire le angosce di un presente troppo assillante e tenebroso, sostituendo per un attimo il principio del piacere al principio del bisogno. “Il faut tenter de vivre”, esclamerà poi Paul Valéry, e viene il momento in cui si liberano l’estro, l’immaginazione, il ghiribizzo, proprio nei termini con cui si fissa la poetica enunciata nell’autobiografia crocesca in versi: “or quindi dier principio a saltar fuori / i grilli, i parpaglioni e le chimere / de la sua zucca, e i stravaganti umori”. Ecco allora che, quasi a risarcire con l’ingorgo iperbolico e il gigantismo delle parole la cronica carestia delle cose, come se i verba a buon mercato diventassero il surrogato delle res costose e inavvicinabili, il maccheronico gusto nomenclatorio di un interminabile inventario si applica golosamente alla lista delle portate richieste dal re Carnevale, il quale ordina per tutti che “s'ammazzino capponi, galline, pernici, fagiani, starne, pavoni, quaglie, ortolani, torni, cotornici, colombini, beccafichi, anitre, capretti, agnelli, castrati, vitelli, et omnes genere pollastrorum, porcorum, manzorum, vacinorum, pecororum, leprorum, conigliorum, et omnes progenie animalorum, e che si faccino torte, pastizzi, potaggi, intingoli, guazzetti, brodetti”, e via di questo passo.

I sogni però sono incontrollabili, e perfino nel loro regno evanescente delle chimere la realtà non sempre cambia di segno a piacimento, e nelle sue metamorfosi oniriche può addirittura accentuare al massimo grado la fatica già di per sé opprimente del vivere. L’invocata consolazione si capovolge allora in incubo, come quello che affligge Croce nel corso dei suoi Sogni fantastichi della notte, opera nuova e curiosa nella quale si vede quante strane chimere, e bizzarre fantasie s’appresentano al nostro intelletto, mentre che si dorme. Le ristrettezze e le angustie economiche si traducono in situazioni claustrofobiche che lasciano sgomenti:

 

Parmi tal’hora di cadere a basso

et andar giù per qualche precipizio,

né potermi aiutar, né muover passo.

[…]

et una notte fui sepolto vivo […].

Sono uscito tal’hor fuor de le porte,

e mi son fitto in antri e in spelonche

e parlato più volte con la Morte […].

In un buco tal’hora sono entrato,

né innanzi ho mai potuto gir né indietro,

ben ch’uscir mille volte habbi provato.

Sono casi da manuale di psicopatologia, sorprendenti in un giullare evidentemente molto più complesso di quanto si pensi. Il disagio non è soltanto fisico, come quando si sente mozzare il naso e le mani, al pari dei ladri, o stravolgere i piedi e troncare le gambe, come chi è sottoposto a tortura, o ancora quando diventa improvvisamente cieco, senza denti o storpio. In questo delirante cauchemar vengono ad affiorare dall’inconscio i tormenti angosciosi dell’esclusione sociale, confermando un asserto dello stesso Croce, per il quale “l’invenzïon nasce dal vero”.

Il suo fatalismo gli consente di sopportare la povertà e il conseguente male di vivere perfino nei sogni notturni, nati forse da oscuri sensi di colpa che considerano le sofferenze della miseria una meritata punizione dei vizi umani. Anche quando nell’ Alba d’oro consolatrice si augura l’avvento di una nuova età dell’oro, ne attribuisce la latitanza alla malvagità degli uomini che regna ovunque, “onde la terra già grassa e feconda / è divenuta sterile e mendica, / e tutto è perché ’l vizio soprabonda”. Il vizio e la carestia stanno dunque in un rapporto di causa ed effetto. Il fatto è che la povertà non è solo la conseguenza delle ingiustizie sociali e della recessione economica: se in questa forma è immeritata e suscita compassione, quando è dovuta alla dissipazione, allo sperpero e alla prodigalità la colpa e la responsabilità sono esclusivamente a carico degli uomini. In questo caso Croce rovescia l’utopia dell’abbondanza in distopia. La barca de’ rovinati, nel rivolgersi ai “falliti, / a i frusti, a i mal condotti, a i consumati, / a quei che per lor colpa son periti, / a quei che per giocar son iti a male, / over dietro le liti impoveriti, / a chi per voler fare il liberale / anzi il prodigo, il largo, ha speso e spanto”, li fa salire a bordo e li porta in vista di un’”isoletta amena / dove ogni gaudio, ogni piacer abonda”, ma non è questo l’approdo degli scialacquatori perché la barca li porta all’isola del Pentimento dove “purgando ognun andrà la sua pazzia / finché rimanghi schietto dalla mente”. Come ha scritto Camporesi, “il grande vizio, per il Croce, è la prodigalità”.

Ci si potrebbe aspettare che un moralista come Croce fosse ancora più severo con i professionisti della povertà, ossia con i vagabondi e i mendicanti, con coloro che nel secolo della simulazione e della dissimulazione fingevano invalidità fisiche e mentali per vivere alle spalle del prossimo, infrangendo la religione del lavoro che, sebbene non così sentita come nell’etica protestante, era comunque condannata anche nel mondo cattolico. Invece questo cantore della povertà, che, per essere un poeta di piazza, viveva fianco a fianco con i pitocchi avvezzi, come nel Lazarillo, a gabbare i gonzi commuovendoli con le loro querimonie, non destina agli espedienti usati dal picaro per non lavorare le stesse censure rivolte ai “falliti”, ai ricchi rovinatisi con le loro stesse mani. Mentre le autorità civili e religiose guardavano con preoccupazione al sovvertimento dell’ordine sociale che poteva provenire dal parassitismo di chi si sottraeva all’obbligo del lavoro abbandonandosi all’ozio e alla pigrizia, Croce si fa interprete con qualche simpatia e condiscendenza dell’ Arte della forfanteria dove, firmandosi “Gian Pitocho”, redige un lungo catalogo dei trucchi compassionevoli escogitati per rimediare qualche elemosina. Questa volta però il componimento non si conclude con il consueto pistolotto moralistico, visto anzi che il sedicente Gian Pitocco si immagina di andare con la sua bella all’ospizio dei poveri “dove […] ce n’andrem da fidi amanti / godendo letto, lenzoli e schiavina / senza pagar poi l’oste la mattina”. Eppure anche in questo finale la spregiudicatezza è solo apparente, e semmai conferma la moderazione crocesca, solo che lo si confronti con la materia del romanzo picaresco, che tocca con impudenza la sfera sessuale ed escrementizia, da lui evitata con cura.

Si capisce allora perché, pigiando ancora di più il tasto della rassegnata moderazione, egli si spinga perfino a celebrare, insieme con la dignità dei miseri, la Grandezza della povertà, riprendendo in clima controriformistico l’aureola di perfezione che nel Medioevo, sulla scia del Vangelo, questa condizione aveva assunto presso la predicazione francescana. In questo lavoro, sottotitolato “opera morale”, la solita interminabile filatessa di questa Arcadia della povertà, tipica della letteratura popolare, va ancora avanti molto, con esempi che, se si vuole, peccano di ingenua semplicità, ma nella sostanza il loro senso non è in niente diverso da quello di un’“opericciuola” spirituale di Daniello Bartoli, La povertà contenta, che mette a confronto “i tormenti dell’acquistare, la sollecitudine del mantenere, le doglie del perdere” da parte dei ricchi e i “poveri contenti nel non voler nulla del mondo”, che non hanno “fame di quel che non hanno” e non sono “legati alla ruota della Fortuna”.

Vero è che l’intento del gesuita vuole essere un memento mori e “una gran predica sopra la vanità e la manchevolezza delle cose del mondo”, mentre Croce si accontenta di un auspicio interclassista, evitando di raddoppiare la misura della sua operetta con la rassegna dei mali opposti della ricchezza che questa volta ci risparmia, accontentandosi di invitare i ricchi a essere più generosi con i poveri:

 

De la ricchezza poi non voglio dire

che non sia buona, e non la vo’ biasmare,

La robba è fatta sol per sovvenire

quei che son senza, e fargli guadagnare,

che quella aita questa, e questa quella,

e l’una e l’altra è poi più lieta e bella.

 

Al quadro terribile di Bartoli si contrappone quello, imperturbabile e consolatorio, di Croce, lieto dello status quo, espresso con l’abituale modestia espressiva e con l’andamento corrivo del verseggiare, tanto distante dall’eloquenza tornita e fiorita del gesuita. Ciononostatte, è probabile che, per un tema quale la povertà, sia più istruttivo rivolgersi a un autore di rango popolare, a un elementare filosofo della miseria il quale ai “poverelli” poteva dire di sé “che tal quai sete voi mi trovo anch’io”, per avere vissuto “organicamente” dall’interno una condizione sociale subalterna.

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