Rivista "IBC" XVII, 2009, 1
biblioteche e archivi / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi
Il 17 gennaio 1609, quasi sessantenne, moriva a Bologna Giulio Cesare Croce. Nato a San Giovanni in Persiceto da una famiglia di fabbri ferrai, alternò il mestiere di fabbro a quello di cantastorie, fino al 1575, quando cominciò a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Girovagò per corti, fiere, mercati e case patrizie, accompagnandosi con un violino rudimentale e stampando in piccoli opuscoli le sue composizioni, che gli valsero una grande popolarità. Il 17 gennaio 2009, a quattro secoli esatti dalla morte del celebre creatore di Bertoldo, la Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna ha aperto ufficialmente le celebrazioni in suo onore presentando al pubblico il volume Giulio Cesare dalla Croce l'arguto bolognese, scritto da Elisabetta Lodoli, illustrato da Federico Maggioni ed edito da Bononia University Press. Quello che segue è il testo dell'intervento pronunciato nell'occasione dal professore Ezio Raimondi, presidente dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna e del Comitato nazionale per il IV centenario. Le celebrazioni proseguiranno per tutto il 2009 (www.archiginnasio.it/GiulioCesareCroce/).
Il libro di Elisabetta Lodoli, Giulio Cesare dalla Croce l'arguto bolognese, è un'introduzione che serve sia a coloro che già conoscono Giulio Cesare Croce sia, soprattutto, a quanti non lo conoscono ancora. Non è un libro di divulgazione; è piuttosto un libro che si costruisce come un'invenzione straordinaria, non comune, direi, per il dialogo veramente singolare che si realizza tra la parola e l'immagine, restituendoci un clima, un'atmosfera, anche attraverso il filtro del genio pittorico della realtà bolognese.
È il racconto di una giornata di Giulio Cesare Croce, oramai alla fine della sua esistenza, in una situazione nella quale, preso da diversi scrupoli, ha bisogno di ricuperare qualcosa del suo lavoro. Siamo nella gelida aria di un inverno, quello del 1608, che non voleva finire; Giulio Cesare Croce si sveglia nella sua bottega di via Malcontenti, dove si è addormentato mentre lavorava.
Il discorso comincia dunque in termini squisitamente narrativi. Lo scrittore si è destato perché lì vicino, nel canale, tre lavandaie si sono messe a cantare. Ed ecco che subito si anima il mondo: siamo nella realtà dell'antica Bologna, di cui qualcuno di noi ha potuto rivivere, nella propria lontanissima infanzia, qualche spicciolo, qualche reliquia. Il nostro è crucciato per avere scritto soltanto un indice dei suoi scritti, durante la notte, addormentandosi per la fatica.
Ha qualche dubbio anche sulle proprie opere, su quello che ha guadagnato. Troviamo qui la prima citazione dell'autore, che è assai eloquente: "I denari sono il primo sangue dell'uomo". Non ha guadagnato molto, non ha trovato una collocazione nell'Olimpo dei grandi, ma vi aveva rinunziato giocando anzi esplicitamente sull'esserne fuori.
Giulio Cesare Croce decide comunque di portare tutto al suo editore, e il racconto lo segue mentre, col suo elenco, esce da via Malcontenti e attraversa il centro della città per giungere in via Lame, dove abita. E in questo racconto la letteratura diventa un mondo di fantasmi che gli si fanno incontro: sono come visioni che permettono di narrare e ricostruire la sua storia. Lo stesso Giulio Cesare Croce diventa un personaggio da romanzo, in cui si mescolano la verità storica e la finzione del cantastorie.
Una delle operazioni intelligenti e ben riuscite del libro è la perfetta saldatura tra la parola del narratore moderno e la voce originaria del personaggio che viene riproposto. E a questo punto è la pagina d'illustrazione, quasi sempre decorata con i testi di Giulio Cesare Croce, che rappresenta questa voce all'interno del montaggio narrativo.
È una voce diretta che proviene dalle immagini, le quali diventano, anche quando si tratta di paesaggi nevosi della vecchia Bologna, come altrettanti muri dove la scritta sul muro è appunto la scrittura di Giulio Cesare Croce, più violenta nel momento in cui è sostenuta dalle immagini di quanto non accada nella parte narrativa. Tutto viene, per così dire, smorzato in quest'aria di neve che cade o che sta per cadere, e attenua i ritmi.
Questo libro può dunque essere davvero l'introduzione di un centenario nel quale si dovrà cercare di conoscere meglio il personaggio, di giungere più vicino a certe sue battute, di ricostituire certi motivi della sua realtà. E la narrazione di Elisabetta Lodoli procede verso l'interiorizzazione di Giulio Cesare Croce: assumendo altrettante sensazioni del passato, esse vengono ricostituite in un nuovo montaggio narrativo come verità di quella giornata.
A questo punto passano in rassegna le immagini del mondo di Giulio Cesare Croce, i suoi fantasmi che gli vengono incontro. Il primo è Bertoldo, personaggio straordinario che riassume una quantità di battute, di ragioni proprie dell'autore, del cantastorie. E dopo l'incontro con Bertoldo c'è il senso del Carnevale come tripudio, la riscoperta di un mondo libero, per così dire alla rovescia, dove la follia diventa la strada della nuova verità, dove tutti possono capovolgere e mutare le proprie maschere, dove il mondo si rovescia per un momento, prima di ritornare al grigiore del quotidiano, regolato dall'ordine e dal potere.
Il lettore è intanto entrato in familiarità con il suo personaggio, lo accompagna nei suoi movimenti e magari, se è un bolognese, lo insegue attraverso il riconoscimento di un angolo, di un luogo particolare. È un inverno rigido, i parchi sono ghiacciati e, nel passare attraverso un ponte, si scopre una Bologna con i canali scoperti, la Bologna vera, che noi oggi stentiamo a riconoscere, considerandola un luogo di terra, quando invece è un mondo sotto l'insegna di Nettuno e dell'acqua. Il personaggio scivola sul ghiaccio, anzi "sblesga" - l'espressione viene ripetuta con la forza del dialetto: probabilmente abbiamo perduto una certa energia, una certa violenza della nostra lingua, nel momento in cui abbiamo dimenticato o messo tra parentesi il dialetto. Thomas Mann diceva che lo stile di uno scrittore è la sublimazione del dialetto che abbiamo ricavato dai nostri avi.
Proseguendo il suo itinerario, Giulio Cesare Croce passa vicino a una filanda vuota: e a noi ricorda che Bologna è stata un centro di produzione della seta. A Giulio Cesare Croce la filanda vuota riporta l'immagine di Simona dalla Sambuca, una canterina delle sue tante canzoni dedicate alle filatrici.
Ma non è più la giovane di allora, è diventata grassa e ha avuto cinque figli. Più di dieci ne aveva avuti del resto Giulio Cesare Croce, ma sette erano morti: era un vivere difficile, costellato anche dalle carestie. Ma subito scompare la voce che cantava, la voce delle pulite e leggiadre "caldirane", e scompare anche il fantasma, mentre il vecchio Giulio Cesare Croce con il suo fardello sottobraccio arriva in piazza, guarda l'immagine di Papa Gregorio e lo ringrazia perché la piazza è del tutto vuota e silenziosa.
Ma la piazza gli genera un'immagine doppia: da una parte quella vivida e gaia della festa della Porchetta, che colpiva immancabilmente i viaggiatori che giungevano dalle nostre parti, una festa popolare, dove è in gioco la gente "nobile plebea" (le parole sono di Giulio Cesare Croce). E, dall'altra, però l'immagine è come raddoppiata nella visione cupa di un patibolo con la condanna dell'oste Bastiano, e di una gentildonna, Ippolita.
Così viene evocata la polarità di un universo, tra Manierismo e Barocco, la gioia da una parte, il dolore e la pena dall'altra; il bene insieme con il male: ma tutto è soltanto suggerito e non verbalizzato. Ed è il narratore che ci fa sentire queste realtà, che ci fa diventare familiari con questo universo del passato, attraverso il dialogo tra Giulio Cesare Croce e le sue creature, mentre, in una dimensione più ampia, il secolo è vissuto per così dire in re, nelle cose dirette, quelle che sono come un centro d'esperienza.
La giornata raccontata, e con essa il percorso per Bologna, creano una sorta di ritratto vivo e concreto di uno scrittore che non si giudica degno di figurare nei piani alti delle biblioteche, ma che ha giocato su un ruolo minore, ma sempre con il senso della propria dignità.
Nel parlare del "musico", Giulio Cesare Croce afferma che ha bisogno di "buona scienza e buona orecchia e buona voce": ed egli stesso dimostrò queste attitudini nella rappresentazione del mondo che aveva intorno, il mondo basso, il mondo della strada, della quotidianità che rimaneva lontana dalla dignità letteraria, o vi figurava soltanto come rappresentazione grottesca di una dimensione puramente comica.
Ma Giulio Cesare Croce si pone fuori anche da questa alternativa, la sua è una letteratura più corrente, come ebbe a dire un erudito dell'Ottocento, una "letteratura da un soldo" che non ha dignità nelle biblioteche (mentre oggi sappiamo quanta ne ha...); rappresenta una dimensione alternativa alla letteratura alta, senza però creare un'opposizione, bensì una coesistenza nella quale si esprimono umori, capricci: quella che Giulio Cesare Croce stesso definisce la "letteratura del chiacchieramento", oggi, ma è improprio, si direbbe gossip. Sono le voci collettive della strada, della piazza, i rumori della sera.
Il libro ci introduce splendidamente a un periplo di questo mondo, istituendo un rapporto tra le immagini e la parola quale raramente capita di cogliere. È un duetto nel quale le due parti hanno pari forza e pari dignità rappresentativa, alle parole si aggiungono le battute dirette, dove i colori densi e intensi ci restituiscono una realtà carica, grassa, verrebbe da dire, ma non secondo lo stereotipo corrente, una realtà fortemente fisica con immagini che hanno lunghi nasi e fanno pensare a una rappresentazione grottesca di tipo settentrionale. E in effetti un clima di tal genere, di là dalle polemiche su Amico Aspertini, percorreva Bologna, e anzi il grottesco era già un elemento interno alla realtà: i muri sono appunto i vecchi muri un poco umidi, con tracce ancora di neve, e la neve è il pulviscolo che si agita nell'aria insieme con immagini di San Giovanni in Persiceto, il paese originario di Giulio Cesare Croce.
Le illustrazioni creano una specie di palude con strani fiori dove il rosso e l'azzurro si mescolano a neri e verdi intensissimi. È una scrittura pittorica che aggiunge densità al racconto, e ci suggerisce per analogia qualcosa del mondo di Giulio Cesare Croce, dove la risata squilla ma vi è anche il senso del quotidiano con la sua durezza e la sua asprezza.
In questi ultimi decenni gli studiosi hanno fortunatamente esplorato il mondo di Giulio Cesare Croce: le analisi scintillanti di Piero Camporesi, in cui l'umore della Romagna si aggiunge a quello di Bologna, e gli studi più recenti di Monique Rouch, a testimoniare un'attenzione che viene anche da fuori della lingua italiana, ci hanno permesso di cominciare a verificare questo universo, quantitativamente ricco e complesso: sono più di seicento pezzi quelli che si trovano alla Biblioteca Universitaria, e uno scrittore per essere conosciuto deve essere letto per intero.
Si tratta dunque di un universo che abbiamo cominciato a indagare e a sentire nelle sue ragioni profonde, ma che bisogna ancora percorrere e che probabilmente aspetta anche altro, tanto più poi se vi aggiungessimo una domanda di natura antropologica: che voce Giulio Cesare Croce rappresenta in quel passato che può ancora diventare presente, anche se tanto del passato è venuto meno?
Non vi è dubbio che egli giochi la sua parte decisamente al basso, e tuttavia, per quanto autodidatta, egli possiede una certa cultura, si pronunzia su certe cose, e nel suo sentimento dell'esistere si riconoscono voci che riprendono forza e vengono per così dire ricondotte alle cose: in questa civiltà dei proverbi, dei motti, delle arguzie, figura in testa una battuta che rappresenta probabilmente anche qualcosa della poetica di Giulio Cesare Croce, experientia magistra rerum. L'esperienza è maestra delle cose, insegna ad ascoltare le voci, a restituirle in quello che è un dettato corrente, fluido, dove, insieme con le frasi buttate giù quasi per istinto, in un parlato prodigiosamente vivo e immediato, valgono anche certe cadenze che sembrano ammiccare alla letteratura alta.
Accanto all'antica saggezza dei proverbi, lo scrittore, quando è il momento, sa anche ricorrere agli strumenti della cultura alta: le virtù del poeta, osserva, sono l'elocuzione, la battuta, la voce limpida, la retorica che egli usa e capovolge con un gusto della parodia, dello sberleffo, ma anche con il senso dell'asprezza che si nasconde dentro il sorriso.
Vi è un sentimento che somiglia alla protesta nelle pagine in cui Giulio Cesare Croce parla del freddo di cui soffrono i mendicanti, i poveretti, i miserabili, quelli che non hanno un giaciglio: era cominciata una civiltà della miseria, nel momento in cui, tra il Cinque e il Seicento, le città hanno uno sviluppo straordinario e prende vita un genere letterario che descrive questo mondo non del palazzo, ma del tugurio, dell'osteria, il mondo picaresco. E qualche cosa di tutto ciò si ritrova anche in Giulio Cesare Croce e nel suo sguardo sul reale: il termine "umorista", che comincia ad apparire nel suo linguaggio, vuol dire ancora capriccioso, volubile, ma ha anche un'intonazione più ampia e moderna.
Il libro diventa in qualche modo l'altra parte della realtà: e forse a questo punto occorrerebbe vedere meglio certi rapporti con altri libri che rappresentano qualcosa dello stesso universo. Nel 1585 era uscita per esempio La Piazza universale di tutte le professioni del mondo del canonico Tomaso Garzoni, dove pagine e pagine sono dedicate ai saltimbanchi, ai cerretani, al teatro che è insieme il luogo dell'astuzia, dell'insidia e dell'inganno: è un'enciclopedia straordinaria, un rincorrersi di rappresentazioni di ciò che è il mondo di tutti i giorni, dove colui che scrive apre una finestra e da quella contempla i mestieri più diversi, cominciando però gerarchicamente da coloro che detengono il potere e arrivando via via agli altri; e poi a un certo punto chiude la finestra, entra nella biblioteca e ricupera l'erudizione.
Questo desiderio di rappresentare l'universo in tutto ciò che è più nascosto, segreto, irregolare, questa volontà enciclopedica di sorprendere la totalità dell'esistere in ciò che ha di più curioso, di più stravagante, e qualche volta di più significativo, corrisponde probabilmente a un'ansia del secolo che crescerà nel corso del Seicento. Con la sua voce, con il suo volto, Giulio Cesare Croce appartiene proprio a questo universo che conosciamo soltanto in parte e del quale, nel corso di quest'anno, cercheremo di scandagliare altre ragioni e altri modi.
Ma intanto il personaggio di Croce è tornato tra noi e con noi continuerà a dialogare: e può darsi che dialogando con le sue invenzioni, ricuperando certe sue cadenze, ritrovando certe sue astuzie e certi suoi ammiccamenti, avvenga di scoprire anche qualcosa che ci parla direttamente di noi, perché tra i suoi lazzi, le sue contraddizioni, il suo gusto dell'antitesi e della metafora, ciò che contava era alla fine l'amore per l'esistenza.
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