Rivista "IBC" XXII, 2014, 1
musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni
In Italia lo chiamano Stile Floreale, in Francia Art Nouveau, nella mitteleuropa Jűgendstil e nei paesi anglosassoni Modern Style, ma per tutti è il Liberty: più che un movimento artistico, uno stile di vita che tra Otto e Novecento si fece interprete dell’aspirazione a raggiungere un linguaggio che superasse ogni confine. Andare oltre le identità locali e aprire le porte al progresso che veniva celebrato dalle esposizioni: questo era il sogno. Un sogno raffinatissimo che all’insegna della Belle Époque si proponeva di far rivivere lo splendore del primo rinascimento e la linearità femminile del Botticelli così come era stata rilanciata, in Inghilterra, dai Preraffaelliti (ma con uno sguardo, anche, alla tensione eroica di Michelangelo).
Proprio per questo la mostra promossa tra l’inverno e la primavera 2014 dalla Fondazione Cassa dei risparmi, dal Comune e dai Musei di San Domenico di Forlì, è stata pensata – dai curatori Maria Flora Giubilei, Fernando Mazzocca e Alessandra Tiddia, e dal presidente del comitato scientifico Antonio Paolucci – come un’unica, vasta rassegna che per la prima volta mettesse insieme nei suoi diversi aspetti il Liberty.1 Uno stile per l’Italia moderna, come si potrebbe dire parafrasando il titolo dell’esposizione, ed è così che in effetti questo fenomeno si era espresso a livello nazionale.
Dalla pittura alla scultura, dalla ceramica alla fusione, dall’illustrazione al manifesto, dall’architettura al design per l’arredo, per il ferro battuto, per il tessuto e per l’abbigliamento, l’allestimento è riuscito felicemente a rievocare lo spirito di un’epoca, e soprattutto quell’idea di arte totale che attraverso la produzione figurativa, l’illustrazione e il progetto aveva messo in relazione tra loro la letteratura, la musica e il teatro. Ma dietro quello slancio serpeggiava un’inquietudine nascosta e quasi un presentimento. Di lì a poco, infatti, la magnifica utopia avrebbe fatto naufragio: colpita una prima volta nel 1912 dalla tragedia del Titanic, quell’illusione gioiosa sarebbe colata a picco due anni dopo, e in maniera definitiva, con la Grande Guerra.
Rimangono però le opere a testimoniare quella stagione dorata: i dipinti, degli italiani Segantini, Previati, Boldini, Sartorio, De Carolis, Casorati, e degli stranieri Max Klinger, Aubrey Bearsdley, Edward Burne-Jones, Gustav Klimt e Franz von Stuck; le sculture, di Troubetzkoy, di Bistolfi, di Wildt, di Andreotti; le decorazioni, di Casanova e di Galileo Chini; i manifesti, di Dudovich, di Bompard, di Metlicovitz, di Cappiello; i mobili, di Bugatti, di Zen, di Basile; e i tessuti, dagli arazzi neobizantini di Vittorio Zecchin ai merletti di “Aemilia Ars”, che insieme ai vestiti di Eleonora Duse e a una grandissima quantità di ceramiche e di suppellettili completano il repertorio.
Un patrimonio straordinario, quindi, che nel suo insieme ci restituisce le sfaccettature di una produzione vastissima ricostruita in una sintesi dettagliata, rappresentativa di un panorama ampio. Formidabile, di conseguenza, l’efficacia didattica del percorso espositivo, che ha distribuito gli oggetti secondo sezioni ben definite, nelle quali convergono, conversando tra loro, le tante forme di questo stile universale. Uno stile la cui rappresentazione fu la linea sinuosa, il famoso coup de fouet del ciclamino di Obrist, meglio noto come lo “schiocco di frusta”, che accomunò in una linearità fluttuante la dinamica di un’energia in atto.
Protagonista del Liberty fu la donna, espressione dell’eleganza e immagine di una libertà nuova che si andava affermando, ma anche natura naturans, giardino fiorito, bellezza spirituale e metafora della Vita, così come l’avevano percepita i Preraffaelliti. Per questo, per sottolineare l’incidenza dell’estetica degli inglesi sullo Stile Floreale italiano, la mostra si apre sul verziere della Principessa Sabra (Musée d’Orsay, 1865), tela giovanile di Burne-Jones nella quale si condensa l’idea della rinascenza “fiorita”, che prefigurava, per estensione, un’ideale Primavera delle Arti: “... virgo prerafaelita, o voi che compariste un dì, vestita di fino argento, a Dante Gabriele, tenendo un giglio ne le ceree dita...” (Gabriele D’Annunzio, La Chimera, 1886).
L’“Arte Nuova” si ispirava, infatti, alla Primavera del Botticelli, che per i Preraffaelliti fu un dipinto emblematico, e quasi un auspicio per il nuovo gusto; per il repertorio floreale e per lo “stile lineare” (come anche il Liberty era definito) il maestro fiorentino sembrò in anticipo sul simbolismo. La passione botanica, che tante meravigliose creazioni suscitò in Inghilterra anche nell’arte dei giardini, ispirò l’arte italiana, e agì sull’immaginario, ispirato dal Quattrocento toscano. Dagli Angeli della tela di Giulio Bargellini al Fiore di Vita di Carpanetto, al bronzo con La Danza di Edoardo Rubino e agli spazi siderei della Danza delle ore di Gaetano Previati, è l’esaltazione della linea a trionfare. La coreografia estatica dei manifesti di Leonardo Bistolfi per l’Esposizione del 1902, organizzata a Torino, evoca un clima di idealità alta, in una dimensione di pura gioia: con cadenze preraffaellite, le figure danzano sospese, e come Isadora Duncan, ondeggiano in accordo con il fluire dei veli.
All’aprirsi del secolo, si annuncia la rinascita dell’Arte, “predicato della bellezza femminile in armonia con il rifiorire della natura” (Virginia Bertone). Le esposizioni universali fecero convergere sulle città italiane l’avanguardia internazionale. Tra il 1895 e il 1914 l’Arte Nuova si diffuse in tutta l’Europa; un vento di modernità spirò sulle soluzioni artistiche in ogni settore. In Italia l’Arte Floreale fu assunta come linguaggio artistico nazionale. Esaurita la vitalità del neocinquecentismo umbertino, il Paese guardava con attenzione all’Inghilterra, all’area franco-belga, e in particolare all’Austria, per la sua capacità di mantenersi in equilibrio tra svolta progressista e tradizione.
Il nuovo stile portava al suo interno cambiamenti importanti, come il concetto, derivato dall’alleanza arte-industria, di una progettazione globale, ovvero un’unità inscindibile tra interno ed esterno, tra decorazione e struttura. In Italia l’alfiere di questa nuova tendenza fu Camillo Boito. Predicata dal Modernismo, la coerenza tra l’elemento suntuario e la funzione dell’oggetto segnò l’avvento di un’estetica fondata sulla collaborazione tra gli artisti e le aziende.
I padiglioni dell’Expo torinese, progettati da Raimondo D’Aronco e ispirati a una fantasia “fervidissima”, ebbero certamente il senso di una provocazione, ma la bizzarria ebbe però il merito di ufficializzare il dibattito. Ovviamente, i centri italiani ricettivi all’aggiornamento furono le città più avanzate dal punto di vista culturale, ma prima ancora da quello dello sviluppo industriale e della manifattura. Torino, Milano e Trieste furono particolarmente aperte, e specialmente nell’architettura. A Roma e in altre città la riflessione si attardò invece sul dibattito storicista, e sulle oscillazioni tra le opzioni dell’eclettismo. In altre parole, sulla tradizione, in sede artistica mai completamente liquidata.
Dalle suggestioni simboliche, ma neobarocche, dei gruppi in gesso del Baccarini (Sensazioni dell’anima, 1903), ai profili sinuosi dei vasi della Società Ceramica Italiana, ai fregi di Galileo Chini e Aristide Sartorio, lo stile italiano giocava su registri diversi, ambientati negli scenari della nuova architettura, progettata da D’Aronco, Basile e Sommaruga.
Un ruolo insostituibile per la diffusione del gusto lo ebbe la stampa, con in primo piano le riviste d’arte. Le illustrazioni di “Novissima” e i manifesti, rappresentati in mostra, cambiarono radicalmente i modelli. Nelle arti (e in questo senso va letto il rinnovamento introdotto dal cenacolo faentino di Baccarini) ma anche in relazione al senso della vita. In un’epoca in cui Aby Warburg inseguiva il sogno del rinascimento affacciandosi sul panorama di Firenze (forse a piazzale Michelangelo), l’enigma dell’esistenza venne affidato al mito. “Non è il calco in gesso, ma è il grandioso corteo in cui una pagana gioia di vivere si riserva un rifugio di sopravvivenza popolare, la forma dove i personaggi del mondo antico [...] rinascono in carne e ossa davanti agli occhi della società italiana” (Aby Warburg, Botticelli, 1893).
Per questo la sezione della mostra dedicata agli universi del mito si apre con una Menade: calco in gesso da un originale di Callimaco, la baccante inaugura il prototipo delle danzatrici Art Nouveau. Nell’epoca della psicanalisi, e specialmente junghiana, Giulio Aristide Sartorio – rappresentato da tele enigmatiche e spettacolari insieme a Ettore Tito, Max Klinger, Franz von Stuck – indicava la necessità di superare il positivismo e di ricercare nella mitologia il fondamento di un inconscio collettivo che, attraverso le immagini, nel corso dei secoli si era trasformato. Ma che esisteva. Nel simbolismo, dal mondo greco alle leggende italiche scorreva una “freschezza psichica” nuova.
Insieme al tema dell’allegoria – proposta in mostra da opere di Previati, De Carolis, Segantini (celeberrimo l’Angelo della Vita) – un altro argomento forte rilanciato dall’esposizione, è la natura. Nel Liberty, il senso dell’appartenenza, quasi un’interscambiabilità o una metamorfosi tra mondo vegetale e animale, era stato al centro delle sperimentazioni degli artisti. Da queste riflessioni erano scaturite, nelle arti decorative, le ceramiche di Galileo Chini o le manifatture Ginori disegnate da Edoardo Rubino: opere straordinarie, destinate a una fruizione dal basso e in grado di realizzare l’utopia di un’arte democratica nuova.
Ma la natura era anche senso panico, specchio degli stati d’animo, proiezione, e desiderio di superare le apparenze andando alla ricerca dei collegamenti con l’universo, ma in un radicamento alla terra; un atteggiamento, si potrebbe dire, straordinariamente moderno. Lo sguardo sulla Natura diventava, allora, visione simbolica; i fiori, elementi decorativi, assumevano valenza allegorica, primo fra tutti il più misterioso, la ninfea.
Quanto al paesaggio, superato il naturalismo e l’impressionismo, cominciò ad essere interpretato come specchio degli stati d’animo, e avventura interiore. La svolta era stata intrapresa con la pittura romantica, ma adesso si era al bivio di un anelito più profondo, come appare nella sezione intitolata “L’io nella solitudine dei ghiacciai”, raffigurati nei paesaggi innevati di Longoni, di Koester, di Carcano.
“Il ritratto di una società femminile” raccontata dalle signore bon ton di Ettore Tito e Giovanni Boldini, e il recupero di Michelangelo straordinariamente lontano dall’eleganza orientalizzante della Secessione, tra mobili di Bugatti e arazzi bizantineggianti di Vittorio Zecchin, completano il percorso dell’esposizione, integrata da un catalogo che si propone come uno strumento scientifico imprescindibile, integrato da un’utilissima rassegna biografica degli artisti rappresentati.
Nota
(1) “Liberty. Uno stile per l’Italia moderna”, Forlì, Musei di San Domenico, 1 febbraio - 15 giugno 2014. Catalogo: Liberty. Uno stile per l’Italia moderna, a cura di F. Mazzocca, Milano, Silvana Editoriale, 2014.
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