Rivista "IBC" XXI, 2013, 4

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / mostre e rassegne, progetti e realizzazioni

A Bologna, in un quartiere periferico affacciato sul Reno, ha aperto la nuova "Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia", un edificio polifunzionale che salda il legame tra un'azienda e la città in cui si è sviluppata.
Questo è un MAST!

Piero Orlandi
[IBC]

A Bologna, all'inizio del mese di ottobre del 2013, ha aperto i battenti "MAST - Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia", un grande complesso polifunzionale composto da unagallery, una academy, un auditorium, oltre a caffetteria, nido, ristorante aziendale e centro benessere. La città e il quartiere Reno acquistano un'architettura prestigiosa e una serie di servizi sociali, culturali e ricreativi di grande qualità.

È questo l'esito di un percorso durato alcuni anni. Nel 2006 G.D, la nota azienda bolognese leader del settore delle macchine per la produzione e il confezionamento delle sigarette, e la sua presidente Isabella Seràgnoli, bandirono un concorso di architettura a inviti per la realizzazione dell'ampliamento della propria sede tra le vie Battindarno, Vittoria e Speranza, su un'area confinante con quella già occupata dall'azienda.

Il fatto stesso che un'impresa privata decidesse di ricorrere a una procedura di tipo concorsuale per selezionare il progetto di un intervento di grande rilievo simbolico e funzionale per la città costituiva un fatto culturale assai significativo, particolarmente apprezzato da tutti coloro che, a Bologna e in regione, lavorano per uno sviluppo urbano connesso con la qualificazione dell'architettura contemporanea.

La giuria, composta tra gli altri dal sindaco Sergio Cofferati, da Francesco Dal Co, docente allo IUAV di Venezia e direttore di "Casabella", dall'ex direttore della Galleria d'arte moderna della città, Danilo Eccher, e dall'architetto paesaggista Paolo Pejrone, scelse il progetto proposto dallo studio "Labics" dei giovani architetti romani Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori.

Il proposito fondante del progetto consisteva nell'idea di migliorare la funzionalità e l'efficienza degli spazi, a beneficio del personale impiegato nell'azienda, comunicando al tempo stesso alla città un'immagine nuova e qualificata di G.D. Il disegno, proprio per questo, prevedeva una sorta di edificio unico e multifunzionale, capace di assumere forme diverse accogliendo un asilo nido e un ristorante, pensati sia per i dipendenti che per le necessità del quartiere e della città, un auditorium di 400 posti e un museo aziendale. Questo segmento del quartiere Santa Viola ha un tessuto particolarmente frazionato, fatto di piccoli edifici mono o bifamiliari: nel progetto è molto evidente l'intento di relazionarsi con il contesto urbano attraverso una grande scalinata che rende permeabile e aperta la nuova architettura verso il parco pubblico che giunge fino alle rive del fiume Reno.

La presenza del sindaco ai lavori della giuria testimoniava dell'interesse vivo della città a una struttura che avrebbe contribuito in modo decisivo a dotare di servizi quel comparto urbano. Servizi anche di una certa dimensione - come l'auditorium - difficilmente pensabili per una pubblica amministrazione già a quei tempi alla ricerca di partnership con i privati: tanto è vero che in quegli stessi anni si costruiva in project financing la nuova sede istituzionale del Comune alla Bolognina.


Avviata la fase di costruzione del nuovo complesso, Isabella Seràgnoli diede impulso anche alla riflessione sul tipo di museo da realizzare, che doveva dar conto al pubblico della storia dell'azienda, ma più in generale del significato e del ruolo dell'industria e del comparto metalmeccanico nella realtà bolognese, nazionale e internazionale. Considerata anche la presenza in città di un'importante collezione pubblica come il Museo del patrimonio industriale (che conserva anche pezzi riguardanti la produzione industriale di G.D), Seràgnoli preferì pensare a una struttura che, anziché rischiare di essere una replica di altre analoghe dove si conservano reperti e testimonianze della storia dell'industria, si facesse centro di promozione della ricerca artistica contemporanea sui luoghi del lavoro, e sulle relazioni complesse tra lavoro, persone, società, paesaggio. Decise che la fotografia poteva essere il linguaggio più consono a rappresentare queste relazioni, e che dunque il nascente museo di G.D doveva intendersi come collezione di opere di fotografia contemporanea dedicate all'industria, in questa accezione larga.

Ed è per questo che oggi l'inaugurazione del nuovo complesso è stata accompagnata da "Foto/Industria, Biennale 01 di impresa, lavoro". Si tratta di una serie di diciassette mostre in undici sedi, arricchita da incontri e dibattiti con fotografi e critici, svoltasi dal 3 al 20 ottobre. Curata da Francois Hébel, con l'équipe de "Les Rencontres de la photographie d'Arles", la rassegna ha avuto luogo in diverse sedi espositive, tutte nel centro storico: dalla Pinacoteca nazionale al Museo civico archeologico, all'ex Ospedale degli Innocenti in via d'Azeglio. Lo si può leggere come un ritorno - almeno per immagini - dell'industria nel centro della città, un centro un tempo ricco di opifici che fecero di Bologna una delle capitali europee della produzione della seta, nei mulini mossi dalla forza idraulica. Per l'occasione l'editore Contrasto ha pubblicato un cofanetto con diciassette minicataloghi dei lavori degli artisti, fra cui Robert Doisneau, Henri Cartier-Bresson, Elliott Herwitt, Gabriele Basilico, Cesare Colombo.

Nella mostra, i profondi e ormai storici rapporti tra fotografia e industria vengono mostrati nella loro molteplicità: le foto aziendali con i dipendenti messi in posa in gruppo, le stanze dei consigli di amministrazione, la fatica degli operai alle prese con le macchine, i processi produttivi nelle loro varie fasi, i luoghi diversi del lavoro, la comunicazione del prodotto, e così via. Le esposizioni temporanee sono integrate e completate dalla galleria permanente allestita nel MAST e intitolata "I mondi dell'industria", curata da Urs Stahel, direttore del Fotomuseum di Winterthur. Qui la collezione di fotografia industriale - che comprende opere di grandi autori come Bernd e Hilla Becher, Bill Brandt, Berenice Abbott, Lewis Hine, Guido Guidi, Thomas Ruff - è suddivisa secondo temi che mettono in risalto l'evoluzione del mondo della produzione dal fuoco, dalla polvere, dal grande numero degli operai dell'industria manifatturiera ed estrattiva, agli ambienti asettici dell'era digitale.


Fin qui i fatti, che disegnano un'esperienza di cultura d'impresa ai massimi livelli. Nei giorni subito successivi alla inaugurazione, la città è stata scossa da una polemica innescata dall'interpretazione data ad alcune parole di Seràgnoli, che molti hanno letto come una critica per la scarsa partecipazione delle istituzioni al progetto del MAST. Forse non è inutile in proposito relazionare i tempi dello sviluppo di questa idea progettuale, sia architettonica che culturale, al contesto ideologico e operativo che la città e la regione hanno vissuto in questi anni. Si è discusso più volte sul ritardo che il capoluogo regionale ha accumulato per decenni nei confronti della cultura architettonica e urbanistica contemporanea, evidenziato anche dal fatto che le maggiori imprese culturali del periodo - pensiamo al MAMbo e alla Manifattura delle Arti - continuavano una tradizione tracciata negli anni Settanta, dove i "contenitori" del centro storico erano gli unici protagonisti architettonici. Solo nell'ultimo decennio, anche attraverso la riqualificazione di comparti ex industriali nelle zone di via Larga e della Bolognina, per iniziativa sia pubblica che privata sono sorti nuovi spazi comuni e nuove architetture in grado di costituire un'alternativa al paesaggio urbano consolidato nei decenni precedenti.

Anche per forzare questa inerzia, nel 2001, la Regione e l'Istituto regionale per i beni culturali (IBC) sentirono la necessità di sfruttare pienamente la forza espressiva e comunicativa della fotografia di paesaggio per sottolineare il senso delle azioni che l'amministrazione regionale svolgeva con le proprie leggi in materia di gestione e sviluppo delle aree urbane. Nel 2001 Gabriele Basilico, che non aveva mai ricevuto grandi committenze né a Bologna né in regione, fu chiamato a commentare visivamente, con un imponente lavoro di circa settecento immagini, lo stato delle aree da riqualificare per impulso di una legge regionale del 1998; poi nel 2002 un'altra norma regionale sulla qualità architettonica diede impulso a ricerche fotografiche sulle incongruità del paesaggio e sull'architettura del secondo Novecento.

In questo quadro, nell'aprile del 2006, si tenne alla ex chiesa di San Mattia, a Bologna, una rassegna di lavori fotografici commissionati negli anni precedenti dalla Regione e dall'IBC sul tema delle relazioni tra architettura e paesaggio. Erano esposte opere di Gabriele Basilico, Nunzio Battaglia, Michele Buda, Alessandra Chemollo, Paola De Pietri, Guido Guidi, Riccardo Vlahov, Giovanni Zaffagnini, eseguite nel corso delle campagne fotografiche sulla riqualificazione urbana nel 2001, sui paesaggi incongrui nel 2003, sull'architettura del secondo Novecento nel 2005. Chi scrive accompagnò Seràgnoli a visitare questa mostra, lieto di contribuire a sostenere la sua intenzione di comporre una storia contemporanea dell'industria e del lavoro attraverso la fotografia: un'intuizione molto acuta e pertinente, in una città come Bologna che era al tempo stesso capoluogo di una regione dalla grande tradizione fotografica - pensiamo alla attività di organismi come "Linea di Confine per la fotografia contemporanea" a Rubiera, come il "SI Fest" di Savignano, come la Fototeca Panizzi a Reggio Emilia - ma priva di una solida tradizione di produzione e comunicazione della fotografia d'autore.

Proprio nel 2006 si era aperta a Genova, curata da Germano Celant, una mostra sul lavoro nelle arti per celebrare i cento anni della CGIL. Il lavoro umano nel Novecento è stato trasformato dalla grande fabbrica, e gli artisti di quel secolo hanno dedicato molte opere a questo tema, da Picasso a Sironi, a Boccioni, a Léger, fino a Gabriele Basilico. Appunto nello studio di Basilico si svolse un incontro, nell'estate del 2006, per riunire alcune delle persone che avrebbero potuto supportare l'intenzione di G.D verso la fotografia: oltre al maestro milanese, a Isabella Seràgnoli e a chi scrive, c'erano Giovanna Calvenzi, critica ephoto editor, Roberta Valtorta, direttrice del MuFoCo di Cinisello Balsamo, unico museo italiano dedicato alla fotografia, e Laura Gasparini, responsabile della Fototeca Panizzi, custode tra le altre di molte immagini di Luigi Ghirri.

Si pensò subito a un concorso internazionale per giovani artisti fotografi, fu costituita con i presenti la giuria, poi integrata con Daniela Facchinato e con Pippo Ciorra, attuale curatore del museo MAXXI Architettura e instancabile organizzatore e propugnatore di ogni iniziativa atta a rimettere al centro dell'attenzione istituzionale l'architettura. Solo due anni prima era uscito, con l'intento di surriscaldare un poco l'atmosfera bolognese, un numero di "Gomorra", rivista edita da Meltemi, dedicato a Bologna, la metropoli rimossa, con una serie di fotografie graffianti di Nunzio Battaglia, poi esposte all'Urban Center in una delle sue prime mostre fotografiche. In copertina campeggiava un'immagine delle famose Gocce, l'accesso all'Urban Center comunale progettato da Mario Cucinella. Non bisogna dimenticare che la sua demolizione fu una delle prime azioni della nuova giunta Cofferati, non esattamente un atto di affettuosità nei confronti del progetto contemporaneo.

Nella prima riunione bolognese della giuria del premio fotografico di G.D, Ciorra propose di intitolare il concorso "GD4PhotoArt", e questo è rimasto il titolo delle tre edizioni sin qui svolte. Alla prima, nel 2007-2008, parteciparono 36 fotografi, indicati da 12 selezionatori (direttori di musei, gallerie, agenzie fotografiche, curatori, critici) di altrettanti paesi europei, e invitati a presentare i propri curricula e i progetti fotografici. La giuria assegnò tre borse di studio a Dita Pepe, Rob Hornstra, Léa Crespi, che consentirono la realizzazione dei loro lavori, poi esposti nella mostra "Photography meets industry", a Palazzo Pepoli Campogrande, dal 7 al 23 novembre 2008. Il catalogo, come i successivi, era curato da Giovanna Calvenzi e fu edito da Damiani.

Dalla seconda edizione la giuria si è poi arricchita con la presenza e le competenze di Quentin Bajac (già responsabile delle collezioni fotografiche del Centro Pompidou di Parigi, poi direttore del dipartimento fotografico del MOMA di New York) e del gallerista londinese Michael Hoppen. I selezionatori e i paesi rappresentati nell'edizione 2009-2010 furono 17, 30 i fotografi che inviarono progetti e quattro i vincitori: la francese Olivia Gay, il britannico Justin Jin, l'italiano Alessandro Sambini e l'olandese Niels Stomps.

Alla terza edizione 2011-2012 hanno partecipato 39 concorrenti, per la prima volta anche di paesi extraeuropei (Cina, Giappone, Sudafrica, Brasile). E tra i finalisti infatti c'era la giapponese Tomoko Sawada, oltre a Jiang Jun (Cina), Txema Salvans (Spagna), Andrea Stultiëns (Olanda). La mostra è stata aperta dal 22 novembre al 30 dicembre 2012 presso la Pinacoteca nazionale di Bologna.

Naturalmente la progressiva realizzazione di questo concorso ha consentito di creare i presupposti di contenuti e relazioni che hanno portato quest'anno, con l'inaugurazione del MAST, alla prima edizione della Biennale di fotografia bolognese.


Nota

L'autore ringrazia Mariella Criscuolo e Simona Poli per le notizie gentilmente fornite.

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