Rivista "IBC" XV, 2007, 2

territorio e beni architettonici-ambientali / convegni e seminari, interventi, progetti e realizzazioni, leggi e politiche

Dal 2007, nel mondo, la popolazione urbana pareggia quella rurale. Da Nanterre a Bologna, e da qui a Napoli, si ripropone il tema della qualità abitativa delle periferie.
Tornando a casa

Piero Orlandi
[IBC]

Da circa quindici anni - da quando la legge 179 nel 1992 diede avvio ai primi programmi integrati, ai quali fecero seguito i programmi di recupero urbano (1993), di riqualificazione urbana (1994) e, poco più tardi, i primi contratti di quartiere - gli urbanisti, i sociologi, i geografi parlano molto di periferie, del loro degrado, dei loro abitanti, e dei progetti che possono migliorarne le condizioni. È un tema al quale il mondo dei beni culturali ha dedicato poca attenzione, nel presupposto che i beni culturali siano altrove, nei centri storici o nelle aree rurali. Questo è sempre meno vero: il fenomeno della città diffusa ha inglobato vecchi borghi e beni sparsi, mescolando le carte tra nuovo e antico, tra bello e brutto, tra patrimonio e degrado; e anche le periferie consolidate pretendono più attenzione da parte degli storici, se non altro come aree in cui si addensano oggetti di interesse testimoniale, e a volte perfino di interesse architettonico. Peraltro, una visione moderna dei beni culturali antepone al puro censimento e restauro dei beni, un approccio globale, dove l'attenzione alla storia dell'arte si unisce alla capacità di intervento progettuale, e compone una nuova materia che è riflessione sul fondamento culturale delle azioni pubbliche, di conservazione, ma anche di sviluppo, di integrazione con l'esistente.

Due incontri recenti hanno toccato l'argomento delle trasformazioni urbane e del ruolo delle aree periferiche: a Nanterre, in Francia, il "Colloque international 'Pérennité urbaine ou la ville par-delà ses métamorphoses'" (15 e 16 marzo 2007); a San Giovanni a Teduccio (Napoli), un convegno organizzato dall'Istituto nazionale di urbanistica (INU) con il titolo "Quante periferie? Quali politiche di governo del territorio", dedicato ai territori e alle città del mezzogiorno (22 e 23 marzo 2007).

Nel 2007, secondo le stime dell'Organizzazione delle nazioni unite, per la prima volta nella storia dell'umanità la popolazione urbana pareggerà quella rurale. Quasi tutta la crescita demografica dei prossimi trent'anni, nel mondo, sarà concentrata nelle zone urbane. Ma poiché da tempo non è più l'esodo rurale ad alimentare le città, queste cercano continuamente idee nuove per essere attrattive e per drenare nuove imprese e nuovi abitanti. Restauro, rinnovo, riabilitazione, riqualificazione, comunicazione: tutti i mezzi sono buoni per una metamorfosi di immagine che sia anche sviluppo della propria identità. Come fare per accordare perennità e metamorfosi? Ecco il quesito di fondo dell'incontro di Nanterre. E ancora: se queste nuove strategie urbane impattano sull'identità, quali sono le conseguenze osservabili?

Tra i molti contributi presentati, non pochi si sono dedicati al tema delle friches urbane, definite come le tracce di attività divenute obsolete, e dunque come la traduzione sul terreno degli sconvolgimenti economici, politici, demografici, ideologici e sociali avvenuti nella storia urbana. Queste friches però non devono essere viste come semplici terreni in stato di abbandono che "alla fine" saranno riutilizzati. Al contrario, vanno interpretate come un processo dinamico, che evolve lungo una traiettoria di cambiamento che si riferisce al passato ma che pone problemi di gestione del tempo presente e che implica una visione di prospettiva: in altri termini, occorre pensare alla trasformazione della friche in un pezzo di territorio urbanisticamente durevole. In questo senso, "tra passato e futuro, tra luogo e non-luogo, tra identità e anonimato, la nozione di friche urbana ci obbliga a pensare alla città come movimento".1 E già questo è un pensiero che si discosta sensibilmente da una certa abitudine a pensare al rapporto con le preesistenze storiche solo nei termini di una immutabilità che si esprime nel progetto conservativo, nel porre limiti all'uso possibile, e nel guardare con sospetto a un rapporto flessibile con la comunità locale.

I cambiamenti degli ultimi quarant'anni ci hanno costretto a guardare la città con occhi diversi e con strumenti diversi. Ormai, molte delle aree rese vuote dalle dismissioni sono state, bene o male, riutilizzate e riempite con nuove costruzioni, affiancate a edifici preesistenti che dovevano essere conservati per il loro valore storico-testimoniale o architettonico; e quasi sempre l'area dell'intervento trasformativo si inserisce nella città storica o la lambisce. È un tema tipico di ogni parte del mondo, dai West India docks londinesi alle aree ricavate dal letto del fiume Turia a Valencia. "La città storica contemporanea" - come si intitola il ciclo di incontri organizzato, tra aprile e giugno 2007,2 dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, l'INU e l'Urban Center di Bologna - non può non confrontarsi con questi problemi, e l'apparente ossimoro del titolo scelto li riprende in sintesi.

Forse a qualcuno non piace questo approccio, e pensa che sia contro la storia, nel senso che vi si scorge il rischio di una più o meno forte cancellazione della storia dalle nostre città. Mi pare, invece, che sia una presa d'atto della storia. La crescita disordinata delle città (e certo si può parlare anche di Bologna) è un fatto vero, ma non è, come qualcuno sembra credere, solo il frutto dell'azione perversa di un limitato gruppo di persone: politici e amministratori più o meno corrotti o conniventi, architetti compiacenti con speculatori e proprietari di aree. Sarebbe una semplificazione. Quello che è avvenuto nei decenni scorsi è già in gran parte la storia del nostro paese, della sua volontà di cambiare, di avere una prima e una seconda casa, di averla per sé in città, al mare, ai monti, di prendere l'auto e di muoversi senza condizionamenti e senza differenze di censo. La storia siamo noi. E se da oggi - sarebbe stato senz'altro meglio da ieri - vogliamo cambiare registro, mi pare lo si debba fare considerando la forza di questa realtà, senza esserne succubi, ma nemmeno astrattamente antagonisti.

Altro tema classico del progetto di conservazione delle aree storiche è la salvaguardia della trama viaria, come simbolo a terra della storia e dell'identità urbana. Anche di questo i geografi hanno discusso a Nanterre: chiedendosi se gli allineamenti urbani sono dei punti da mantenere sempre, a ogni costo. È ovvio che gli allineamenti si iscrivono tra le tracce della perennità urbana. Ma cosa rivelano a proposito delle turbolenze per le quali la città è passata?

 

Regolari o irregolari, delimitano il costruito e le aree stradali, dividono e riuniscono, uniscono nella varietà, fissano la scala e la trama, testimoniano degli incroci dei percorsi più antichi e dei corsi d'acqua nascosti, convertono vecchi agglomerati in insiemi urbani [...]. Ridotti allo stato di tracce, divengono la memoria fondiaria della città [...]. Bisogna conservarli nello stato in cui sono, restaurarli riaggiustandoli, o re-inventarli al fondo di una tabula rasa? Dal loro disegno, tra memoria, storia e dimenticanza, dipende la città futura e la sua identità. La storia degli allineamenti si riassume in tendenze contraddittorie, successive o concomitanti: la rigidezza di un tracciato e il suo scioglimento, l'inerzia e il movimento, la ripetizione e l'invenzione, il rigore e la fantasia. Può esserci della razionalità nella flessibilità, dell'assurdo nella rigidità.3

 

E dunque c'è una sola risposta possibile: non possiamo affidarci a una regola comoda e sempre uguale, a decidere deve essere la sensibilità del progetto di rinnovo urbano.

Dall'incontro napoletano vengono molte indicazioni sullo stato delle città del Meridione d'Italia, nel quadro di osservazioni di carattere generale, e dunque valide, se pur con toni meno accentuati, anche per i casi emiliani e romagnoli.4 Per esempio, si sottolinea sempre più spesso l'avvenuta "perifericità" dei centri storici, soprattutto delle grandi città del Sud: il caso di Palermo è significativo. Pur in presenza di un piano particolareggiato esecutivo per il recupero del centro storico, questo resta in larga misura una zona degradata, in continuità con le condizioni ottocentesche, quando la zona era sovraffollata e in precarie condizioni igieniche, e con quelle postbelliche, quando i bombardamenti avevano prodotto enormi squarci e molta parte del patrimonio edilizio era stato danneggiato.

Per le aree di Bari e di Reggio Calabria si pensa di redigere un atlante della "città pubblica", ovvero di registrare i modi con cui è avvenuta la stratificazione dei successivi interventi di edilizia sovvenzionata e agevolata. L'obiettivo è evidentemente il confronto tra i caratteri delle diverse parti costruite, per mettere in luce punti di forza e di debolezza. Ma si tratta anche di sottoporre a giudizio l'efficacia di strumenti d'intervento come la riqualificazione, la densificazione, l'inserimento di aree pubbliche. Per Napoli si propone di analizzare e comprendere le nuove forme di periferia generate dalla città contemporanea, dove la "dilatazione urbana" ha dato luogo a città diffuse, conurbazioni lineari, scattering development; ognuna di queste realtà intrattiene relazioni peculiari con l'area urbana di riferimento, relazioni che con il tempo tendono a modificare le morfologie territoriali. Nel capoluogo campano si assiste alla compresenza dei grandi interventi di pianificazione - i piani di zona della legge 167, il post-terremoto, le grandi opere infrastrutturali - con la moltitudine di iniziative individuali che dietro l'apparente assenza di regole celano razionalità spesso clandestine.

Emerge qui il tema della sicurezza urbana, a volte anche in termini paradossali. Una relazione presentata al convegno napoletano riferisce sulla produzione di esclusione sociale da parte delle politiche pubbliche: è un caso avvenuto a Ponticelli, dove lo sgombero di cittadini rom, albanesi, nordafricani e italiani da alcune abitazioni, per ragioni di insalubrità, ha semplicemente trasferito gli abitanti in spazi aperti e campi esterni alle residenze, con una sorta di "retrocessione" abitativa che li ha resi oggetto di una forte stigmatizzazione sociale, prima inesistente, almeno in forme così rilevanti.

Alcuni contributi (su Agrigento, Catania, ecc.) analizzano il nesso tra la scarsa qualità dello spazio pubblico e l'indebita appropriazione per fini privati. Per disincentivare queste pratiche abusive diventa quindi necessario riqualificare gli spazi pubblici, con l'obiettivo di renderli luoghi simbolici dell'autorappresentazione. A questo proposito una maggiore consapevolezza dei fenomeni urbani, soprattutto periferici, può essere ottenuta attraverso tecniche anche molto diverse (fotografia, letteratura, arte), tutte comunque in grado di far emergere notazioni utili sia alla pratica progettuale (rapporto tra conoscenza qualitativa e quantitativa, tra verità "scientifica" e "finzione" narrativa), sia alla crescita di una pratica dell'impegno civile attivo, che in Italia non è più in uso da decenni.

Un contributo presentato dall'Università di Catania insiste sulla necessità di smantellare la retorica della riqualificazione dei luoghi periferici. In questa prospettiva "riqualificare", inteso nel senso di riportare certi luoghi alle condizioni di normalità che caratterizzano la città dominante e minoritaria, lascia il posto all'agire in periferia e al lasciarsi modificare da essa. Questi luoghi, dunque, evidenziano le questioni di iniquità sociale contenute nel progetto della città moderna, e obbligano la disciplina ad aggiornare non solo il suo statuto epistemologico ma anche, forse soprattutto, il suo codice etico. Alla fine, insomma, c'è anche una possibile interpretazione positiva della periferia: se non se ne guarda solo il lato geografico (come qualcosa di esterno al centro) ma la si considera nella sua "utilità", si tratta infatti, per molti strati sociali, dell'unico luogo della città in cui è possibile esercitare il proprio diritto all'abitare. Solo qui si presentano quelle condizioni di marginalità (urbanistica, economica, sociale) che permettono ai cittadini di avere accesso al bene casa, primo passo necessario per avvicinarsi al sistema città.

 

Note

(1) P. Amphoux, Sous le signe du faire: notes sur les notions de friche et de jardin urbain, "Collage", 1997, 4 (Fédérations suisse des urbanistes: www.f-s-u.ch/it/collage_archiv.php).

(2) Per il programma: www.ibc.regione.emilia-romagna.it/pdf/storicacontemporanea.pdf.

(3) A. Moignet-Gaultier, "Alignements. Calages et décalages dans les reconstructions urbaines, de l'Antiquité au XXe siècle (Rome, Louvain et Saint-Malo)", relazione presentata al "Colloque international 'Pérennité urbaine ou la ville par-delà ses métamorphoses'" (Nanterre, 15-16 marzo 2007): www.colloque-perennite.org.

(4) Per il programma e gli abstract degli interventi: www.inu.it/attivita_inu/convegno_napoli1.html.

 

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