Rivista "IBC" XXI, 2013, 2

musei e beni culturali / mostre e rassegne

Mettendo a confronto gli artisti conclamati e quelli emarginati, il Museo d'arte della città di Ravenna indaga il confine incerto tra normalità e follia.
Borderline

Claudia Collina
[IBC]

"L'arte non riproduce ciò che è visibile. Lo rende visibile"
Paul Klee 1


La mostra "Borderline. Artisti tra normalità e follia. Da Bosch a Dalì, dall'Art Brut a Basquiat", tenutasi presso le sale espositive del MAR, il Museo d'arte della città di Ravenna, dal 17 febbraio al 16 giugno 2013, è prima di tutto un'indagine sulla creatività artistica, uno sguardo panoramico e un confronto tra artisti famosi e anticlassici, che innervano la colonna vertebrale della storia dell'arte internazionale, e artisti outsider, ignorati dal cosiddetto sistema dell'arte perché vissuti ai margini della società, esiliati, o internati in strutture manicomiali; un'esplorazione che costeggia il sottile crinale che divide la normalità dalla follia della mente e che sottende le espressioni visive dell'immaginario e i linguaggi artistici dalla fine del XVIII secolo al presente.

L'esposizione, curata da Giorgio Bedoni, Gabriele Mazzotta e Claudio Spadoni, offriva allo spettatore "una prospettiva che fa dell'arte una vicenda sospesa tra progetto e intuizione",2 in cui le opere di artisti alienati, o emarginati, erano accostate con necessaria, ma raffinata e coraggiosa ambiguità, a quelle di autori canonicamente riconosciuti per affinità tematica, mostrando, attraverso l'omogeneità qualitativa delle opere esposte, lo spessore artistico e la tenuta di qualità degli irregolari. Dimostrando quindi, in modo patente, quanto la visione non sia "una finestra sul mondo, ma davvero una creazione del cervello",3 e quanto siano determinanti, per la soglia tra normalità e follia, il tempo in cui si vive la propria vita, le esperienze che la investono forgiandola o segnandola indelebilmente, la capacità di reazione a esse, il progresso della civiltà, della cultura e della scienza.

Tra il XX secolo e l'inizio del XXI, infatti, gli studi psicanalitici e le neuroscienze hanno stabilito l'esistenza di una pluralità di inconsci, di cui quello cognitivo ha una particolare rilevanza nel processo creativo delle immagini: come ha posto in luce il premio Nobel per la medicina Eric R. Kandel, "l'inconscio cognitivo può avere un accesso particolarmente agevole a ciò che Freud chiama dinamica inconscia dei nostri conflitti, delle pulsioni sessuali, dei pensieri e delle azioni rimossi, e può, quindi, farne un uso creativo. Gli studi sull'azione volontaria, il processo decisionale e la creatività [...] hanno portato a una concezione dell'attività inconscia che è ancora più ricca e varia di quanto Freud avrebbe potuto immaginare un secolo fa".4

La mostra - condotta con impeccabile scientificità e ordinata per contenuti tematici e psicologici, articolando opere pittoriche, grafiche, scultoree ed etniche disposte con rimandi affini l'una all'altra - si apriva con la "perturbante bizzarria" di Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel, due fiamminghi visionari del XVI secolo con radici medievali, anticipatori del buio spettrale e mostruoso dell'inconscio raccontato da Francisco Goya, o di quello tormentato e introspettivo di matrice romantica espresso dalla ritrattistica venata di melanconia di Théodore Géricault, o della poesia notturna, onirica e inquieta di Max Klinger e Alfred Kubin.


All'inizio del XX secolo, Sigmund Freud aveva lasciato una traccia profonda e semi da far crescere, che l'arte raccolse e che iniziarono a germogliare e fruttare copiosamente tra le correnti del Surrealismo dopo circa un ventennio dal suo famoso saggio Il poeta e la fantasia(1907), in cui affermava che "tanto l'attività poetica quanto la fantasticheria costituiscono una continuazione e un sostituto del primitivo gioco infantile".5 Al termine della Seconda guerra mondiale l'arte visionaria degli "artisti asilari" veniva scoperta e considerata, da Jean Dubuffet, di importanza nevralgica per il rinnovamento artistico, perché l'arte degli autori marginali e irregolari è ingenua, spontanea, scevra da sovrastrutture culturali e costruzioni razionali, come quella delle popolazioni tribali e più primitive. Nasceva così l'Art Brut.

Nella sezione dedicata al "disagio della realtà" trovavano un confronto sorprendente le opere di Paul Klee con quelle dell'irregolare Gaston Chissac, a cui si associano i lavori di artisti del gruppo CoBrA ispirati alla spontaneità del disegno infantile e all'arte più popolare, e le rappresentazioni di "bellezza convulsa" (Breton, 1928) costruite sulla ricca simbologia formale di Madge Gill, Gaston Teuscher e Federico Saracini, asilare del San Lazzaro di Reggio Emilia, straordinario disegnatore e mistico visionario della sua epoca.


La sezione dedicata al "disagio del corpo" era posta sotto l'egida di un'affermazione di Jean Paul Sartre: "Il corpo è l'oggetto psichico per eccellenza" (L'Être et le Néant, 1943). Esso diventa il simbolo e il territorio in cui si manifestano i conflitti della psiche, i tormenti dell'esistenza e i traumi che molti artisti - asilari o meno - sperimentarono durante i conflitti mondiali. Come il surrealista André Masson e l'irregolare Carlo Zinelli, che sublima l'irreparabile ferita subita durante la guerra di Spagna con l'ossessiva rivisitazione figurativa di elementi legati allo shock che lo portò a rifugiarsi in sé stesso e al successivo internamento in ospedale psichiatrico.

A questi si affiancavano i ritratti solcati e deformati, tra espressionismo e visionaria naïveté, del "pittore contadino" reggiano Pietro Ghizzardi, nonché i ritratti sperimentali dell'Azionismo viennese di Hermann Nitsch, Günter Brus e Arnulf Reiner, che con l'espressione performativa e la tecnica fotografica arrivarono alle soglie della follia nell'indagine delle pulsioni più profonde, violente e autolesioniste dell'essere umano, anche costeggiando la rilettura di riti tribali antropologicamente inscritti nel DNA di ogni essere umano.

Non a caso, questa sezione era felicemente chiusa da alcuni manufatti contemporanei di arte oceanica del medio Sepik che, con la loro forza semantica, rimandano al primitivismo insito nelle opere dell'artista scenografo "neogoyesco" Cesare Inzerillo e dell'irregolare Joaquim Vicens Gironella (ma anche, a mio parere, al pensiero di Clifford Geerz, per il quale "l'arte tribale riesce a essere sensibile ai concetti semiotici senza svanire in una nebbia di formule").6


Altre due nodali e indispensabili sezioni tematiche si articolavano in chiusura dell'esposizione: "I ritratti dell'anima" e "Il sogno rivela la natura delle cose".

Nel 1913, iniziando la sua dissertazione sul ritratto nel Mosè di Michelangelo, Freud poneva la questione: "Michelangelo ha voluto creare con questo Mosè una 'immagine atemporale di un carattere e di uno stato d'animo', oppure ha rappresentato l'eroe di un momento preciso, ma altamente significativo, della sua vita?".7 Si apriva così il Novecento, il secolo dell'introspezione della psiche, posta al centro di ogni ricerca scientifica e culturale, dove la ritrattistica diventa il mezzo privilegiato per scandagliare e dare materia visiva alle pulsioni e le ombre dell'Es. In mostra la materia veniva sviluppata a partire dai ritratti dell'anima disegnati con estrema raffinatezza e indicibile malinconia da Gino Sandri, internato per lunghi periodi in diversi manicomi, o graffiati con ferocia nella pittura di Mattia Moreni, Jean-Michel Basquiat e Antonio Ligabue, o ri/velatori del proprio tormento esistenziale sublimato nei dipinti di Francis Bacon.

La realtà e la surrealtà delle immagini del Surrealismo, il senso e il nonsenso in cui si dibattono i suoi rappresentati - che attraversano con desiderio di obliterazione quel confine tra razionale e irrazionale che nasce all'interno della struttura stessa della visione e danno corpo visivo alle scoperte della psicanalisi freudiana negandola al contempo - sottendevano la sezione sul sogno. Dalle angolazioni oniriche di Salvator Dalì e Max Ernst agli automatismi pittorici di Andrè Masson, dallo spazio mentale denso di simbologie primordiali dell'asilare Adolf Wölfli alle affinità sintattiche dell'arte oceanica, la sezione offriva l'ultimo ampio spettro d'indagine sulla poesia del primitivismo che ha permeato l'arte.


Infine, in una formula ormai collaudata che caratterizza felicemente gli allestimenti delle ultime esposizioni inscenate da Claudio Spadoni al MAR, due coup de théâtre affiancavano l'ultima sezione tematica.

Il primo: una piccola monografica, dedicata all'immaginario erotico e a suo modo vitalistico dell'umanamente incompresa Aloïse Corbaz, che nella pittura ("L'art est la clef perdue de l'amour")8 sublimava la reiterata perdita d'amore che sfociò in isolata schizofrenia e che divenne, anche se internata, una delle artiste più apprezzate da Jean Dubuffet e pilastro dell'Art Brut, progenitrice dell'arte di Carol Rama.

Il secondo: la crème de la crème degli artisti in mostra veniva riproposta nell'esedra che chiosava l'esposizione, restituendo al pubblico quella "multiforme vicenda tra esotismo e primitivismo che ha interessato una larga parte delle vicende artistiche fra Otto e Novecento, prolungandosi attraverso le avanguardie almeno fino ad alcuni protagonisti del surrealismo".9


Il tema affrontato è veramente complesso, incentrato sugli interrogativi che pone il reiterato rapporto tra l'arte infantile e l'arte primitiva, così vicine, così lontane a seconda del grado di acculturazione dell'autore. Questa complessità ha indotto Spadoni a porre sul tappeto diverse questioni, per cercare di appurare "quali condizioni, quali processi abbiano portato certe manifestazioni dell'arte contemporanea ad avvicinarsi a quella sempre sfuggente area di confine dove alligna la necessità creativa di emarginati per buona parte estranei alla cultura, non solo artistica, del loro tempo".10

L'interpolazione interdisciplinare tra storia e critica d'arte con lo "sguardo sottile" della psichiatria di Giorgio Bedoni e quello obliquo dell'antropologia culturale di Francesco Paolo Campione, che ci porta nel mondo del Sepik e nell'arte rituale, scevra di mito e collegata direttamente alla cultura di queste popolazioni, offrono geniali spunti di illuminazione sui meccanismi che governano le immagini della mente. Anche Geerz nei suoi studi rivela quanto l'essere umano sia essenzialmente fatto di simboli e significati di cui l'arte è espressione emotiva, poetica e semiotica, contestualizzata alla realtà locale che ne rivela il potere, più o meno costruttivo.

Nel caso dei popoli del Sepik l'arte avrebbe una funzione di "omeostasi", di requilibrio, in quanto assumerebbe, in ambito rituale, "valore di oggetto di scambio e di compensazione",11 un processo in qualche modo vicino, nell'arte degli artisti asilari, a quello catartico e compensativo della vita negata dai traumi, o dalla follia. Ma l'arte è sempre catartica e compensativa per ogni essere umano, per cui "è dalla partecipazione al sistema generale di forme simboliche, da ciò che chiamiamo cultura, che diviene possibile la partecipazione al sistema particolare da noi chiamato arte, che in effetti ne è solo una parte".12 Il riferimento all'inconscio collettivo teorizzato da Jung è immediato e doveroso, ma anche il disegnatore emarginato Gaston Teuscher, la cui vita artistica inizia a settantun anni, percepisce che le forme da lui rappresentate preesistono rispetto alle sue opere e che si rivelano attraverso di esse.

Un'operazione complessa e straordinaria, quella realizzata da Spadoni: "non solo o non tanto per recuperare figure di artisti semisconosciuti o del tutto ignoti da un'emarginazione senza appello, quanto piuttosto per sollevare almeno qualche cortina sospesa su quell'oscura linea di confine che si è voluto chiamare, appunto, borderline".


Note

(1) Tratto da A. Ronnberg, Il libro dei simboli. Riflessioni sulle immagini archetipiche, Köln, Taschen, 2011, p. 6.

(2) C. Bedoni, Borderland, in Bordeline. Artisti tra normalità e follia, Milano, Mazzotta, 2013, p. 21.

(3) E. R. Kandel, L'età dell'inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012, p. 236.

(4) E. R. Kandel, L'età dell'inconscio, cit., p. 461.

(5) S. Freud, Il poeta e la fantasia, in Saggi sull'arte la letteratura e il linguaggio, Torino, Boringhieri, 1986, p. 57.

(6) C. Geerz, Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 126.

(7) S. Freud, Il Mosè di Michelangelo (1913), in Saggi sull'arte, cit., p. 190.

(8) É. Sechaud, Perdre, sublimer..., "Revue française de Psychanalyse", 2005, 5, p. 1309.

(9) C. Spadoni, Borderline, in Borderline, cit., p. 15.

(10Ibidem, p. 19.

(11) F. P. Campione, Schismogenesi e arte nelle culture del Sepik, in Ibidem, p. 38.

(12) C. Geerz, Antropologia interpretativa, cit., p. 138.

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