Rivista "IBC" XI, 2003, 1

musei e beni culturali / convegni e seminari, progetti e realizzazioni

Dalla fine del Settecento agli anni Ottanta del Novecento l'Ospedale psichiatrico "San Lazzaro" ha vissuto nel cuore di Reggio Emilia come una città nella città. Oggi il Centro di documentazione di storia della psichiatria che ne ha preso il posto sta per trasformarsi in un vero e proprio museo nazionale.
Nelle stanze della follia

Ezio Raimondi
[italianista, presidente dell'IBC]

Nel 1991 a Reggio Emilia, là dove sorgeva l'Ospedale psichiatrico "San Lazzaro", l'iniziativa congiunta di diversi enti - l'Azienda sanitaria locale, il Comune e la Provincia di Reggio, e l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna - ha fatto nascere il Centro di documentazione di storia della psichiatria. Fondato nei primi anni dell'Ottocento, il "San Lazzaro" è stato uno dei maggiori manicomi italiani: nell'arco di due secoli ha registrato l'evoluzione del pensiero e della prassi nella cura della malattia mentale, dalle pratiche più coercitive alle concezioni più avanzate della scienza psichiatrica. Oggi, nell'ambito di un progetto complessivo di risistemazione della vasta area occupata dagli edifici dell'ex Ospedale, gli enti promotori del Centro di documentazione hanno messo a punto una nuova convenzione e presentano il progetto di un grande Museo nazionale della psichiatria, con l'obiettivo di valorizzare al meglio il patrimonio documentario finora salvaguardato. Se ne è parlato il 12 ottobre 2002 nel corso di un convegno tenutosi presso il Centro: il testo che segue riprende in parte uno degli interventi pronunciati nell'occasione.

 

Per quanto l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna abbia avuto una parte non secondaria nei dieci anni di vita del Centro di documentazione di storia della psichiatria di Reggio Emilia, non toccherebbe forse al suo presidente, che non è uno specialista né un competente, parlare di un argomento così complesso e delicato come il progetto di un nuovo museo psichiatrico nazionale. Prendo dunque la parola come una sorta di visitatore dell'ultima ora che ha cercato di ricuperare i passi perduti e, con uno sguardo non pregiudicato, può vedere alcune linee di tendenza che rischiano di non essere più percepite da chi le vive dall'interno, risultando ovvie.

Sono convinto, per rifarmi subito a quanto ha affermato uno psichiatra come l'Alexander, che la storia della psichiatria costituisca una parte centrale dell'evoluzione dell'umanità, perché rappresenta la conoscenza dell'uomo nella sua forma più diretta. Ed è anche vero che se dobbiamo parlare di un museo o di ricerche come quelle già messe generosamente in cantiere e attuate dal Centro, vale il principio - sostenuto dai grandi storici della scienza - che la prospettiva deve essere esterna ed interna: vi sono ipotesi scientifiche che si sviluppano e vi sono ragioni esterne alla scienza che si introducono poi nell'operazione quotidiana. In modo ancora più specifico in un caso come questo non si tratta di porre un'alternativa: la storia di un insieme di questa natura è intimamente legata alla storia della città e della società.

Di là dalle interpretazioni specifiche che si susseguono nel tempo su ciò che è l'alienazione, la malattia mentale, questa è già una prima risposta e forse delinea un carattere specifico che va attribuito, non in termini celebrativi ma conoscitivi, anche a quella che chiamiamo la dimensione, l'aria, il fatto sociale, soprattutto qui a Reggio Emilia: ne era convinto anche chi, credo per la prima volta nel 1875, cominciò a parlare di museo. Cercherò ora di fare una rapida storia delle ipotesi che procedono in una certa direzione per sostenere la tesi che in pochi casi, come in questo presente del "San Lazzaro", più di cento anni di vita rappresentano altrettanti momenti di una ricerca dapprima indiretta e poi diretta, sempre più precisa. A completare quella storia, di là dalle gravi difficoltà che si devono affrontare (ma è un compito che resta in mani capaci e piene di ardimento), dobbiamo attendere oggi nel momento stesso in cui interpretiamo la memoria del passato.

Torniamo dunque indietro a uno dei medici del "San Lazzaro", Carlo Livi, che nella "Gazzetta del Frenocomio di Reggio Emilia", dedica un saggio - che è anche una sorta di visita, di ispezione - a "biblioteca", "laboratorio patologico" e "museo di anticaglie". È una pagina abbastanza singolare, nella quale razionalità e umanità sono intimamente congiunte. Provo a citarne alcuni passi: Livi comincia parlando dei nemici giurati del presente, di coloro che credono solo nel passato, sostenendo che dovrebbero specchiarsi in queste cose (e intende appunto il "museo di anticaglie") per stabilire il rapporto e la differenza fra il passato e il presente; e il luogo che ci viene illustrato è poi una semplice stanza ma in quel momento rappresenta un capitolo nel grande libro della storia dei patimenti e dei martirii della povera umanità. Livi aggiunge subito dopo che attraverso questo confronto forse si potrà capire come i tempi presenti siano più savi di quelli passati e anche più umani, più giusti e più caritatevoli. Siamo nel clima del positivismo risorgimentale, ma è un clima alto, nel quale si sostiene che a un tempo in cui valeva la forza si sostituisce un tempo in cui vale invece la ragione, una ragione a modo suo misericordiosa.

Ciò che conta è poi che prima di descrivere questa sorta di stanzone-museo Livi deve ricordare che la realtà di cui sta parlando era merito di un fondatore, Antonio Galloni, che nel 1821 - in anni cupi per la storia risorgimentale, interpretando in qualche modo l'umanità e la civiltà dell'amministrazione reggiana che aveva voluto compensare in questo modo tempi di miseria e di cattività - promosse il proposito di elevare "i poveri pazzi alla condizione di malati". Era forte, in questa generosa volontà, il senso dell'eguaglianza, la fedeltà agli ideali delle grandi generazioni scientifiche della Rivoluzione francese: e voglio citare qui il nome di uno dei benemeriti di quegli anni tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, Cabanis, amico anche del Manzoni, il quale scriveva pagine straordinarie sopra l'ospedale dei folli, convinto che servire un malato rappresenti uno "spettacolo utile", una "lezione vivente di umanità". Il razionalismo moderno poteva dunque unirsi anche con una vecchia tradizione cristiana che non poteva essere ignorata, quella delle opere pie avviata sin dalla Controriforma.

Livi poi passava alla descrizione di questa stanza dalle pareti brune con un soffitto a noce d'aspetto severo, come si conviene a un luogo di questo genere, dove si vedevano fibbie, lucchetti giganteschi, grandi festoni alle pareti, soggoli di cuoio, pesanti sedie di forza, modelli di tinozze in cui tuffare i malati: e tutto questo però non rappresentava più un insieme di curiosità da guardare con orrore, ma un mondo di cose, di fatti accaduti che si ripercuotevano ancora sul presente. Livi non era in grado di dirci ciò che ci avrebbero poi insegnato i moderni storici della scienza, ma ognuno di quegli oggetti andava visto come segno di un modo di essere, di pensare gli uomini e di provvedere al loro benessere e anche alla loro giustizia, una parola così cara a Cabanis: ogni strumento - oggi lo sappiamo - è un teorema reificato, una teoria materializzata.

In ogni caso Livi spiegava che quelle "anticaglie", quei vecchi arnesi che Galloni aveva buttato in una soffitta erano stati riproposti dal medico venuto dopo di lui, uno dei benemeriti di questa storia, Ignazio Zani, che aveva istituito per l'appunto un primo abbozzo di museo come parte dell'operazione medica: un'integrazione storica che ricuperava il passato per mostrare il percorso compiuto, e insieme però invitava a considerare anche il presente. È difficile, in una storia dell'anima umana e del corpo turbati, non pensare che immediatamente anche l'osservatore è messo in gioco: ecco lo spettacolo utile di cui parlava Cabanis. E la scienza moderna irrompeva così in una realtà specifica di terapia, portandovi logiche e orizzonti di tipo europeo.

Si deve rilevare che la storia di un insieme di ospedali come quelli del "San Lazzaro" è parte della storia non solo della scienza e della medicina, ma della società moderna. È stato detto giustamente che la psicologia, con i suoi aspetti anche patologici, è una delle discipline principali dell'Ottocento e non è un caso: ai processi di modernizzazione, ai fenomeni di urbanizzazione, alle nuove costruzioni sociali, corrispondono anche nuove forme d'inquietudine, nuove ragioni di squilibrio. Anche questa storia e questo ospedale vanno collocati in in un'esperienza di lungo periodo per cui, come appariva già nel 1875, ciò che si collocava in un luogo specifico, apparteneva poi a un tempo più ampio. Era uno dei tanti modi con cui si sperimentavano i nuovi squilibri fra l'urbanizzazione, i primi processi di industrializzazione e il vecchio mondo rurale con i suoi caratteri e i suoi arcaismi.

Se partiamo da questa identificazione, da questo accertamento che è prima di tutto un dato di fatto che assume poi valore simbolico, si potrebbe dire dunque che in modi più o meno confusi, non ancora definiti, la storia della scienza, documentata attraverso una serie di oggetti e di procedure presenti nell'ospedale, veniva sentita come parte integrante dell'operazione diretta e quotidiana dell'ospedale. Anche la relazione del Fornaciari nel 1881 confermava questa impressione; e con l'arrivo di un altro medico, che si aggiunge a questa grande serie ottocentesca, il Tamburini, si amplia la serie dei nuovi laboratori, a metà fra l'operazione diretta di accertamento scientifico e la possibilità anche dimostrativa e quasi espositiva: pensiamo al museo craniologico con l'esposizione di oltre mille crani di vario genere, oramai in pieno clima lombrosiano. Non va dimenticato che tra il 1880 e il 1900 si determina in Europa il trionfo della "nuova psicologia", da Charcot fino a Freud, e proprio questi anni vedono il "San Lazzaro" in prima linea per iniziative, ragioni e risposte originali, in un dialogo alla pari con la scienza internazionale, i cui problemi e temi specifici si riversano anche in quella che è la storia più direttamente locale.

Dopo i momenti difficili della prima metà del secolo scorso, proprio nel dopoguerra si riaccende un nuovo interesse che va ancora più risolutamente verso la ragione storica: non è un caso che nel 1956 si svolga a Reggio Emilia il I Congresso italiano di storia ospitaliera, che si conclude con l'auspicio di costituire un Centro italiano di storia ospitaliera. Tra gli altri spicca il contributo di Piero Benassi, un medico che poi sarà di queste parti, dedicato alla prima assistenza ospedaliera in Europa. Nel 1960, di nuovo a Reggio Emilia, si tiene il I Congresso europeo di storia ospedaliera e di nuovo Piero Benassi prende la parola per parlare della storia della psichiatria in Europa, e insieme interviene Pia Bertolani del Rio, che parla degli ospedali di San Lazzaro lungo la via Emilia, riservando una parte cospicua al "San Lazzaro" reggiano.

Bisogna però attendere gli anni Settanta, quando comincia il nuovo processo dell'amministrazione regionale così carico di entusiasmi e di attese, perché maturi e giunga a un effetto preciso il problema storico e conservativo, ossia il problema di un'interpretazione necessaria nel momento stesso in cui si gestisce questa complessa realtà istituzionale. Sta di fatto che tra il 1978 e il 1979 il consiglio di amministrazione del "San Lazzaro" indice un concorso di idee per l'attivazione di un museo storico della psichiatria e i tre vincitori vengono poi presentati nella "Rivista Sperimentale di Freniatria", la gloriosa creatura che sta alla pari con le grandi riviste europee di quegli anni. Nel primo dei due volumi il dottor Umberto Nizzoli spiega a che fine si era fatto quel concorso, alludendo anche, in modo molto franco e coraggioso, al fatto che da cinque anni si era cominciato a parlare di un museo, ma una serie di difficoltà, di scontri e di contrapposizioni avevano rallentato la creazione di una istituzione dinamica, che nel fervore di quegli anni avrebbe dovuto anche riprodurre la battaglia per l'uomo contemporaneo condotta da Basaglia, in un clima scientifico che varcava i confini italiani.

Quelle pagine, come ho già detto, segnalavano con molta franchezza anche i limiti della amministrazione politica, nella mancanza di una concettualizzazione adeguata del problema, affrontato con criteri che non tenevano ancora conto di questi nuovi aspetti. Ma alle parole seguiva subito un'operazione dimostrativa: se non si poteva fare subito il museo, si potevano allestire mostre che in qualche modo anticipavano il museo. Così nel 1980 si procedeva a una mostra storiografica della psichiatria intitolata "Il Cerchio del Contagio" con una nuova presentazione del dottor Nizzoli, dove si parlava di un legame diretto, anche se per armonia prestabilita, tra la legge "Basaglia" e quel famoso concorso: e d'altro canto gli allestitori della mostra, che portava dentro già una sorta di storia del "San Lazzaro", erano gli stessi risultati poi vincitori del concorso per un museo storiografico della psichiatria. Come si vede si determinavano in questo modo una serie di ragioni che portavano a una progressiva definizione di quello che poteva essere un museo. I tre progetti facevano riferimento al padiglione "Lombroso" e proponevano una serie di distinzioni, di ripartizioni, di distribuzioni, avendo ben presenti tutte le ragioni storiche, con una scansione scrupolosa ed esatta. Ma più importante era il fatto che si ragionava sull'insieme del patrimonio, non più soltanto su qualche sua parte. Vale forse la pena di ricordare che in quello stesso anno 1980 a Bologna, soprattutto per iniziativa di Andrea Emiliani, si costruiva una mostra parallela e concomitante su "Arte e Pietà", il patrimonio delle opere pie, e non a caso all'interno di quella mostra figuravano anche alcuni esemplari del "San Lazzaro". Era dunque un clima, una specie di fervore comune: il problema cominciava a definirsi meglio e l'idea di museo a prendere corpo all'interno di una realtà che cessava di essere un'ospedale per divenire un'entità più complessa, richiamando l'attenzione su quello che con un lessico successivo si potrebbe chiamare il problema del riuso e insieme della conservazione.

Quanti si occupano di musei della scienza hanno affermato anche di recente che l'arte di esporre in pubblico la scienza è appena ai primi passi, il che implica una serie di difficoltà che nel caso di Reggio Emilia venivano dagli oggetti ma anche dalla necessità di collegare le ragioni della scienza e la sua storia e di trasformare tutto questo in un linguaggio diretto e capace di incidere su un visitatore-spettatore. Non si trattava più di avere da una parte gli storici della scienza e dall'altra i teorici della comunicazione architettonica, ma di operare insieme in modo corale. E a questo punto ecco che interveniva il Centro di documentazione di storia della psichiatria costituito negli anni Novanta, cominciando a sua volta a organizzare mostre, e insieme proponendo riflessioni e discussioni tanto sul passato e i suoi protagonisti quanto sul presente, sul patrimonio sociale specifico di Reggio. E si dovrebbe dire fin d'ora che nel caso che finalmente si arrivi a un museo - oramai è il tempo, anche se i costi sono alti - è questa doppia ottica che bisogna conservare: l'esattezza intransigente nel ricostruire il passato con i suoi drammi, e insieme l'attenzione al presente, con un'interrogazione finale che mai deve valere come in questo caso: "Che cos'è l'uomo?". In un museo della fisica la domanda sull'uomo è indiretta, ma qui non vi sono dubbi, tanto più se pensiamo che la storia della psichiatria è la storia della riduzione di modelli meccanici di tipo fisico e della ricostituzione di una dinamica della psiche o dell'anima con ragioni proprie e con strumenti interpretativi del tutto indipendenti rispetto alla logica dei metodi della scienza contemporanea.

Nel 1993 usciva un altro testo e si svolgeva un'altra mostra interessante, "Le immagini della follia", realizzata con le fotografie storiche provenienti dal patrimonio straordinario del "San Lazzaro". E non è un caso che ad aprire quelle pagine fosse proprio Sergio Masini, il presidente del comitato scientifico che dirige il Centro di documentazione, a indicare che negli anni Novanta è stata questa istituzione a tenere vivo, alimentandolo con mostre, ricerche, catalogazioni e inventari, il problema del museo, connaturato fin dalle prime origini al "San Lazzaro" moderno, postottocentesco: si sono esaminate una serie di difficoltà, si è catalogato e inventariato il patrimonio e si è visto come tutto questo debba essere intimamente correlato a una dimensione sociale necessaria, senza la quale la stessa storia della scienza rischia di sembrare parziale.

È un problema analogo a quello della città storica italiana, quella che stava tanto a cuore al grande Cattaneo, e che, come ha detto Emiliani, rappresenta il monumento di noi stessi, un ecosistema che conferisce senso a tutto ciò che in essa esiste e vive. Anche il "San Lazzaro" è alla lettera il monumento di sé stesso: solitamente si dice infatti che gli oggetti di un museo vengono decontestualizzati, sciolti dal luogo a cui appartenevano, in cui avevano un significato. Qui invece gli oggetti sono a casa loro, si tratta solo di spostarli da un punto all'altro, ma resta comune l'atmosfera generale di una Arcadia ambigua, che da una parte ci trasmette l'idea della pace e dall'altra invece quella del groviglio, della differenza, del contrasto. Come osservava il Minkowski, il tempo dell'alienato è un tempo fermo e vuoto che si contrappone al tempo dinamico della città: questa contrapposizione è come un passaggio non soltanto di atmosfera ma di universo. Qui tutto è stato conservato: si può pensare Reggio Emilia e la sua storia senza il "San Lazzaro"?

Ma chi entra in un museo come questo che testimonia sé stesso (Livi aveva detto che non si mostravano queste cose per martoriare, ma per dare testimonianza) per poter capire deve anche immaginare, ricostituire un significato, essere uno spettatore e un visitatore attivo, capace di interrogare. Occorre dunque fornirgli gli strumenti necessari: da una parte deve essere raccontata la storia dell'ospedale, che è anche la storia della psichiatria in un contesto internazionale con scambi frequenti e intensi; dall'altra vi sono le testimonianze, le fotografie e i prodotti artistici realizzati qui, il linguaggio diretto delle singole individualità che si libera rendendo possibile una storia della scienza dove il malato è un protagonista. Non è più un mondo anonimo, è un mondo che diventa umano e sta a noi di restituire una qualche umanità a quella sofferenza. Occorre essere addestrati a un museo come questo: accanto alla curiosità, emergono problemi e temi che vanno di là dagli oggetti e dalle figure, testimoniando il modo con cui una società ha visto i suoi personaggi abnormi e ha preso in esame ciò che metteva in discussione il criterio di normalità psichica.

È necessario procedere in modi misurati, corretti, precisi, e quanto più saremo esatti nel ricostruire quella storia, tanto più ci ritroveremo alla fine a confrontarci con il nostro presente. Un museo come questo non è un ritorno all'indietro, non è l'inseguimento nostalgico del passato che può dare insieme sgomento e stupore; è invece un invito a meditare anche su di noi, a interrogarci sulle nostre categorie. Le odierne analisi sociologiche parlano di nuove forme d'inquietudine, di minacce di scomposizione della personalità, di perdita del senso del futuro, o di una speranza che si lega solo all'istante: attraverso il passato, possiamo imparare a diventare più umani, a capire di più l'altro e forse anche noi stessi.

 

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