Rivista "IBC" XIX, 2011, 4

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / storie e personaggi

Da Gioachino Rossini a Giuseppe Verdi: a passo di rondò, tra i musicisti che seppero mantenere viva l'idea di patria libera e unita.
Le note che fecero l'Italia

Vittorio Emiliani
[giornalista e scrittore]

Non solo Verdi. È molto stretto il legame fra il melodramma italiano dell'Ottocento e la passione civile per l'Unità d'Italia. E coinvolge tutti i maggiori compositori. Gioachino Rossini, il più anziano, suscitò accesi sentimenti libertari pur non essendo, in senso stretto, un patriota (anche se figlio e amico di patrioti, di carbonari). Giuseppe Verdi fu per anni mazziniano fervente e comunque le sue opere ebbero un fortissimo impatto politico. Vincenzo Bellini compose soprattutto un melodramma di intenso patriottismo, I Puritani, grazie al libretto del conte bolognese Carlo Pepoli, esule a Parigi ("Suoni la tromba e intrepido / Io pugnerò da forte / Bello è affrontar la morte / Gridando libertà!"). Gaetano Donizetti, suscitatore anch'egli di entusiasmi libertari, sembrò in vita il meno impegnato di tutti, ma ricerche storiche recenti hanno svelato che egli prestava a Mazzini il proprio indirizzo per la sua corrispondenza clandestina. Prima di loro, come non segnalare Cimarosa e Paisiello, i quali, per aver collaborato con la Repubblica del 1799 e coi napoleonici, subirono esilio e/o ritorsioni?

Uno dei primi momenti pubblici in cui si registra un forte, esplicito richiamo all'Indipendenza della Patria italiana si ha, se non erro, col drammatico proclama che Gioacchino Murat rivolge da Rimini agli italiani: "La Provvidenza vi chiama a essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo 'L'Indipendenza d'Italia!'". Il tono del proclama - scritto con ogni probabilità da Pellegrino Rossi, allora segretario di Murat e che poi avrà una ben tragica sorte1 - è alto e convincente. Non attrarrà al combattimento molti patrioti, ma ne scalderà a lungo i cuori, soprattutto in Emilia-Romagna, che più soldati ha fornito alle armate napoleoniche.

Curiosamente, una delle prime opere in cui risuona il termine Patria è un'opera buffa, la rossiniana Italiana in Algeri (1813), "une folie organisée", come la definirà Stendhal. Cosa c'entra un'opera così sorridente con la politica? Con la Patria? C'entra, perché il librettista Angelo Anelli è un uomo politico colto e abile (ha avuto un ruolo nella Repubblica Cisalpina) e ha infilato, proprio nel finale, cioè nel "Rondò di Isabella", un tema tutto politico: "Pensa alla patria, e intrepido / Il tuo dover adempi / Vedi per tutta Italia / Rinascere gli esempi / D'ardir e di valor". Il Coro conclude con una frase che allarmerà molto i delegati di polizia fuori del Regno Italico: "Quanto vaglian gl'Italiani / Al cimento si vedrà". Frase sovversiva, perché per secoli gli italiani non potevano combattere per una loro patria, ma soltanto quali mercenari. E, nella partitura, il giovane Gioachino ha fatto balenare un lampo della ormai famosa Marsigliese. Quel rondò subirà ogni sorta di censure, a Roma e a Napoli.2

Nel 1815, a Bologna, i filopatridi, proprio mentre Gioacchino Murat sta cercando di mobilitare gli italiani col proclama di Rimini, chiedono al giovane Rossini un Inno dell'Indipendenza, che lui compone, esegue e, al Contavalli alla presenza di Murat, canta (è nato prima cantante che musicista). "Sorgi, Italia, venuta è già l'ora", recita il primo verso, il solo che conosciamo. Un tripudio. Con la Restaurazione peserà molto sullo spaventato Rossini (schedato a vita dalla polizia asburgica), il quale si terrà lontano dalla politica. Tuttavia il patriottismo in lui non manca. Prendiamo il Mosè in Egitto: col suo splendido coro, Dal tuo stellato soglio, è una invocazione alla libertà delle minoranze oppresse, di quelle ebraiche ancora segregate nei ghetti, ricorrente nel melodramma (vedi il successivo Nabucco di Verdi) e in Rossini. Honoré de Balzac, uno dei più acuti interpreti della complessità rossiniana, farà dire a un personaggio del romanzo Massimilla Doni, ambientato a Venezia per una "prima" del Mosè: "Mi sembra d'aver assistito alla liberazione d'Italia".

Di Rossini sono almeno altre due composizioni per la libertà (del popolo greco, in questo caso). La prima è Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron morto a Missolungi, composta su di un'ode oraziana ed eseguita all'Almack's Assembly Room di Londra a metà del giugno 1824. Rossini aveva conosciuto Byron a Venezia, e a Corfù era morto anche il suo amico carbonaro Agostino Triossi di Ravenna. L'altra opera dedicata alla causa ellenica è, nel 1826, Le siège de Corinthe. Il vibrante coro Répondons à ce cri de victoire!, cantato dai Greci contro i Turchi assalitori, accese di entusiasmo il pubblico della Salle Le Peletier, che per mezz'ora reclamò l'autore alla ribalta.

Ma l'opera certamente più "risorgimentale" di Gioachino è quella che conclude nel 1829 la sua ormai lunga carriera teatrale (anche se il compositore conta soltanto 37 anni): il Guillaume Tell. Il grido che risuona più alto fra le montagne svizzere e il lago è inequivocabile: "Liberté! Indépendance!", ed è l'indipendenza dagli Asburgo, come quella che si predica in Italia, nel Lombardo-Veneto ma pure nello Stato Pontificio, dove è la polizia austriaca a fare il lavoro "sporco". Sette anni dopo, alla Scala, l'opera viene stravolta dalla censura austriaca. La vicenda viene trasferita in Scozia, dove William Wallace, anzi Vallace, lotta contro la tirannide inglese. Analogamente, a Bologna, nell'ottobre 1840, la censura papalina pretende un libretto completamente nuovo, ambientato in Scozia, col protagonista, Rodolfo di Sterlinga, che lotta in kilt contro il giogo inglese. Rossini, che risiede a Bologna, riduce il lavoro in tre atti e vi aggiunge un nuovo coro finale. Si impegna inoltre a reclutare per il Teatro Comunale una compagnia di canto all'altezza, col prediletto Nicola Ivanoff quale tenore. Successo strepitoso, ben 35 repliche. Durante le prime recite, le incessanti richieste di bis sono accompagnate da un concerto di bastoni picchiati sulle panche di legno della platea. A un certo punto si temono i soliti tumulti patriottici (è pur sempre un'opera contro la tirannide), allora la polizia scheda i più scalmanati vietando loro di tornare di nuovo in teatro.

Nel 1835, Vincenzo Bellini e il suo belcantismo sono all'apice. Egli non è direttamente impegnato, come lo è all'inizio Verdi, e però, a Parigi, per l'ultima opera, I Puritani, subisce l'influsso di un librettista bolognese, il conte Carlo Pepoli, che appartiene a una nota famiglia di patrioti ed è in esilio perché implicato nei moti del 1831. È un'altra opera di ambiente scozzese, come s'usa in pieno romanticismo, ma attraversata da lampi guerreschi in nome, sempre, della libertà, specie nel celebre, trascinante duetto, citato all'inizio, fra Giorgio e Riccardo (interpretati da due grandi cantanti: rispettivamente, Louis Lablache e il romagnolo Antonio Tamburini). Boati di consenso, frenetici battimani, veri e propri scoppi di passione patriottica nella Parigi del 1835.

Lo stesso accade a Palermo per la donizettiana Gemma di Vergy. Siamo nel fatidico 1848. Il tenore canta la romanza di Tamas: "Mi togliesti e core e mente / Patria, numi e libertà", e il pubblico erompe in un applauso fragoroso e in grida di ardente patriottismo. Il soprano Teresa Parodi riuscirà a sedarli soltanto presentandosi alla ribalta avvolta nel tricolore. Certo, l'esplosione di patriottismo più accesa la si ha a Roma il 27 gennaio del 1849, quando all'Argentina debutta La battaglia di Legnano di Verdi, nel clima della sorgente Repubblica Romana, con scene incredibili di entusiasmo popolare, bandiere e coccarde tricolori ovunque. Bis di atti interi. Molti altri episodi sottolineano come, nell'Ottocento, musica e politica siano strettamente intrecciate. Al centro di numerose opere c'è il tiranno e ciò basta a sollevare il pubblico contro di esso. Bocciato a Napoli dalla censura borbonica, il verdiano Un ballo in maschera andrà in scena a Roma mutando il cattolico re di Svezia assassinato in un meno impegnativo governatore di Boston. Siamo alla vigilia dell'Unità, al 1859.

Prima di terminare la rassegna dei musicisti italiani coinvolti, direttamente o indirettamente, nel Risorgimento, non si può non ricordare la figura di musicista politicamente in esso più implicata, e in modo drammatico: quella del forlivese Pietro Maroncelli (1795-1846), buon compositore e violoncellista. Studente al Conservatorio di Napoli, nel 1813 viene espulso quale componente di una società segreta. A Roma sarà poi rinchiuso a Castel Sant'Angelo come "eretico", quindi a Forlì come carbonaro, infine a Milano, con imputazioni gravissime, insieme a Silvio Pellico, da lui compromesso per aver lasciato in giro prove e documenti. Condannato a morte, col patibolo già alzato in piazza San Marco a Venezia, la pena capitale gli viene commutata nel carcere duro allo Spielberg. Esule prima a Parigi, dove diventa seguace dell'utopia di Fourier, e poi a New York, vi morirà a 51 anni soltanto, in povertà, e con lui andrà dispersa la più importante biblioteca musicale della città. Col vecchio Lorenzo Da Ponte e altri, ha contribuito a fondare la New York Philarmonic.

Fra i protagonisti politici del Risorgimento, passione e competenza musicale risultano diffuse. Un buon chitarrista classico è Giuseppe Mazzini, autore di un impegnativo saggio sulla Filosofia della Musica in cui, partendo dal valore educativo attribuito alla musica dai filosofi greci, giunge all'analisi del melodramma. Giuseppe Garibaldi è meno competente, ma non meno appassionato: canta con bella voce, da baritono "chiaro", arie da opere di Rossini (soprattutto), accompagnato al fortepiano dalla figlia Teresita nelle serate di Caprera.

Alla cultura del melodramma sono strettamente legati pure i compositori di inni patriottici e/o sociali. Lo è il genovese Michele Novaro (1822-1885), compositore nel 1847, su parole del giovanissimo Goffredo Mameli (1827-1849), egli pure genovese, della musica del "Canto degli Italiani", cioè del nostro inno nazionale repubblicano Fratelli d'Italia. Novaro è stato un discreto tenore in forza al Regio di Torino e poi compositore di opere dimenticate. Spesso si parla (a vanvera) di sostituire il suo inno col verdiano Va' pensiero, senza tener conto di un fatto fondamentale: gli inni nazionali devono essere marce ritmate e orgogliose, e non tristi melopee. Bellissime e però inadatte a quella funzione. L'inno di Mameli e Novaro (che ormai sentiamo come nostro, pienamente) è il più "antico" fra quelli risorgimentali, risalendo al 1847. Allo stesso filone culturale si ricollega, una decina di anni dopo, il cosiddetto "inno di Garibaldi". In questo caso è più noto il poeta - Luigi Mercantini, quello della Spigolatrice di Sapri - del musicista, Alessio Olivieri, maestro di banda cremonese. Ci raccontava nostro padre che, in Romagna, terra di ardenti passioni risorgimentali (la terra di Aurelio Saffi, di Felice Orsini, di Epaminonda e di Luigi Carlo Farini, di don Giovanni Verità), alla fine delle manifestazioni di piazza, la folla gridava "Ino! Ino!": ed era, inequivocabilmente, quello di Garibaldi.

C'è di più: poiché anche le masse analfabete conoscevano a memoria i cori del melodramma, a quello del Nabucco (assurdamente fatto proprio, oggi, dalla Lega Nord) l'anarchico Pietro Gori darà versi di lotta per il Primo Maggio, e lo stesso farà il socialista Ernesto Majocchi con l'incalzante Si ridesti il leon di Castiglia dell'Ernani. Mentre, nei "teatri di stalla" emiliani, compagnie di girovaghi rappresentavano una sintesi delle opere più popolari. Come una Aida, nel Reggiano, in versione anticolonialista. E l'idea, con la musica, viveva.


Note

(1) Accettò di presiedere alla fine del 1848 il nuovo governo pontificio dopo il disastroso dietrofront di Pio IX nel processo di Unità e venne ucciso di pugnale all'ingresso della Cancelleria il giorno dell'insediamento.

(2) A Pesaro mi capitò di assistere, invece, a una regia dell'amico Dario Fo che trattava come ciarpame retorico-patriottardo il "Rondò di Isabella". Un po' più di senso storico non avrebbe guastato.

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