Rivista "IBC" XIX, 2011, 4
biblioteche e archivi / pubblicazioni, storie e personaggi
Per avere un ritratto più fedele di Renato Serra è necessario affondare la sonda filologica nei materiali ancora magmatici e incandescenti degli scartafacci, visto che le sue opere a stampa, oltre a essere il più delle volte postume, sono anche minoritarie rispetto all'erario dei manoscritti. Il poco da lui pubblicato, quasi sempre legato alla "Voce" o alle committenze di Croce, ha indotto molta critica a farne quasi un epigono appartato della cultura fiorentina e derobertisiana, quasi che a mettere Serra sulla giusta strada fossero stati il tempo trascorso nella città toscana nel 1907 e l'incontro di quello stesso periodo con Croce. Per siffatti presunti condizionamenti, è riuscito fin troppo agevole a qualcuno privilegiarne la componente impressionistica, derivata da un intuito acuto ma senza metodo, geniale ma senza rigore, come se il "saper leggere" di Serra appartenesse allo stesso tipo di virtuosismo individuale di uno Spitzer.
L'odierna edizione critica degli Scritti filosofici serriani, curata da Jonathan Sisco e pubblicata dal Mulino, sposta il quadro dei referenti intellettuali fino a farne l'espressione di una cultura senz'altro contraddittoria ma piena di risoluto vigore speculativo, con un costante amore per la filosofia tutt'altro che "saltuario e stravagante", come erroneamente pretendeva Armando Carlini, con un giudizio forse derivato dall'essere stato abbandonato dall'amico nella progettata stesura a due mani di un libro scolastico su Kant. Il primo scritto, appartenente a un Serra sedicenne che ha appena sostenuto l'esame di maturità, pur essendo ancora inevitabilmente acerbo, non si affida alla struttura "debole" del frammento, che di lì a qualche anno sarà poi la forma privilegiata dei vociani, ma alla dimensione salda e sistematica del "trattato". A comporlo è una mente mossa, per dirla con il suo stesso autore, da "energie giovanilmente esuberanti" che, lungi dall'essere assecondate nelle loro pulsioni anarchiche, necessitano "di un freno, di una guida, di un programma prestabilito". Il primo Serra, il Serra teenager, rivela una decisa vocazione filosofica che si affida allo scientismo positivista per interrogarsi Intorno alla libertà del volere da un punto di vista fisiologico, naturalistico e materialistico, affatto alieno da una soggettiva osservazione introspettiva, ripetutamente giudicata insufficiente, per dimostrare che il fenomeno volitivo, estraneo al libero arbitrio, è solo un caso, per quanto "speciale e complessissimo, di associazione, meccanica, fatale, naturale" che sorge e opera secondo le leggi deterministiche della psiche.
Come ha mostrato Eugenio Garin nelle capillari Cronache di filosofia italiana, il positivismo, prima di essere demonizzato e rimosso dal neoidealismo, interessò e coinvolse tutti gli intellettuali di primo Novecento. Serra però declina la sua ricezione entro gli àmbiti culturali della realtà cesenate, che ne fornisce le premesse e le coordinate. A dotare Serra delle conoscenze indispensabili è stata in primo luogo la biblioteca del padre, un medico positivista che fu assistente di Charcot a Parigi, con la conseguente acquisizione di molti di quei libri di psicologia, di psichiatria, di fisiologia, di sociologia letti con avidità adolescenziale dal figlio, che li poté anche integrare con quelli posseduti dalla biblioteca Malatestiana, come si può vedere dalle sue schede di prestito degli anni 1899-1900, durante i quali Serra prese in lettura opere di Darwin, Spencer, Herzen, Comte. A introdurlo a questi testi fu, secondo la sua stessa testimonianza, Emilio Lovarini, suo professore di italiano e filosofia al liceo Monti di Cesena, al quale il giovane scrisse nei giorni seguenti agli esami di maturità per ringraziarlo di avergli "inspirato, colla parola e coll'esempio, l'amore della scienza positiva", salvandolo tanto "dalle pastoie di un materialismo volgare", quanto da "uno sterile spiritualismo".
I continui riferimenti polemici alla "spiritualità dell'anima" e al "sentimento religioso" contenuti nella dissertazione serriana sul libero arbitrio mettono sull'avviso che altrettanto determinante, sia pure come pars destruens, fu un'altra figura di intellettuale cesenate, don Giovanni Ravaglia, parroco della cattedrale e fondatore di un circolo culturale frequentato da Serra. Figura rilevante del modernismo cattolico locale, è il dedicatario del lavoro serriano, scritto in forma di lettera a lui indirizzata. Negando il libero arbitrio e quindi la libertà dell'agire umano, evidentemente fondamentale nella visione religiosa di Ravaglia, emerge un altro tratto diffuso nell'habitat cesenate, ossia l'endemico anticlericalismo, che con l'oltranza della sua giovinezza faceva sostenere a Serra, suggestionato dalle filippiche del socialismo, "figlio del pensiero positivista moderno", la "necessità della lotta in Romagna contro questo oppio avvelenato che cerca di addormentare la coscienza fervidamente ribollente delle classi proletarie". D'altro canto, non era stato Giovanni Pascoli, un altro romagnolo mai del tutto dimentico dei suoi trascorsi anarchici, a paventare "il pericolo immanente da secoli del dominio dei chierici"?
In Serra però l'asseverativa intemperanza radicale, l'alterigia e la supponenza con cui presume di giungere a "qualche conclusione definitiva" circa "la libertà del volere" appartengono ai tratti solo transitorî. Intorno alla libertà del volere, scritto nei giorni in cui conseguiva la licenza liceale, si può considerare un altro rito di passaggio con cui, all'atto di iscriversi all'Università di Bologna, tracciava un bilancio dei suoi Lehrjahre all'insegna del positivismo. Nuove esperienze e nuove aperture non avrebbero oscurato quella formazione, ma l'avrebbero resa meno perentoria, meno determinata. Difficilmente si può trovare nel Serra più maturo il lessico altezzoso contro "ogni ubbia metafisica su lo spirito e sul libero arbitrio", o le metafore barocche che notificano "all'illusoria entità del libero arbitrio, triste e fossilizzato retaggio di un passato coperto dalla polvere dell'oblio", la reclusione "per sempre nelle nebbie agghiacciate delle fantasticherie metafisiche". Insieme con l'affievolirsi della sicurezza, la rigida e ferrea programmazione del suo lavoro, che prevedeva perfino i minuti per le "distrazioni e interruzioni", diventa con l'età insofferente di ogni scadenza, disattesa insieme con l'antico proposito di instradare la mente "vigorosamente per vie nette aperte precise" in ottemperanza a "un programma prestabilito che sistematizzi lo spazio del volere e le attività cogitative". Ormai, alla tassonomia coerente e senza smagliature, subentrano la sedimentazione provvisoria, i lacerti del pensiero, la propensione all'incompiutezza.
Esemplare di questa seconda stagione sub specie philosophica è il progettato volume su Kant, interrottosi dopo una lunga e tormentosa gestazione. Se pure vengono meno le velleità ambiziose della prima giovinezza, sarebbe però miope chi non vedesse un'intima relazione tra gli studi positivisti e quelli su Kant, perché se anche, a fronte della sicumera con cui si era affrontato il tema della libertà del volere, questa volta si impone l'irresolutezza a concludere il progetto, sul piano filosofico i due temi si saldano in nome di un interesse etico che mantengono Serra a molta distanza dallo hegelismo di Croce, al quale pure si deve, tra il 1907 e il '10, un'estesa azione a favore del pensiero kantiano, di cui in quel ristretto periodo Laterza pubblica le tre Critiche. In fondo, l'intento che da angolatura positivista induceva ad analizzare il volere e la libertà individuale non è diverso da quello che conduce alla Critica della ragion pratica, dal momento che tutte e due le prospettive vengono a saldare il fatto culturale con il fatto esistenziale. Per un Serra insolitamente apodittico, "il problema dell'etica [...] non appartiene ai filosofi soltanto, ma a tutti gli uomini".
Di là dalla maturazione intervenuta dal 1900 in poi, dietro ogni atto intellettuale il Serra "filosofo", come pure il Serra "critico letterario", ha sempre ricercato, prima e dopo, la vita. "L'uomo mi attira più che la pagina", ebbe una volta a confessare. Neppure l'algido scientismo dei positivisti ha potuto ottundere le sue "energie giovanilmente esuberanti", attratte nella loro quête irrequieta "dall'immensa effusione delle forze naturali". Anche Kant, di là dall'immagine convenzionale di "corretto e compito, meticoloso indagatore e inquisitore disperatamente laborioso" che ha contribuito a farne lo stereotipo di filosofo "quasi fuor del mondo nella freddezza del suo pensiero", è in realtà dotato di "una umanità viva e ardente". In altri termini, "il pensiero non gli fa dimenticare la vita, in quel che ha di meno aristocratico, comune".
Ancora più del problema della moralità, ciò che appassiona Serra è il motivo che ha spinto il filosofo ad affrontare il problema, tanto che la sua morale, come si legge nella prefazione a Kant, va considerata sia "come un momento della storia della filosofia in universale" sia "come un episodio, per dir così, personale del pensiero di lui". Per questo interiore coinvolgimento dell'individuo Kant, la Critica della ragion pratica è "frutto intimo e laborioso" non solo del suo "pensiero" ma anche "della sua anima e del suo carattere". D'altro canto nei volumetti della progettata collana di "testi filosofici per i licei" entro cui sarebbe dovuto apparire anche il suo Kant sarebbe occorso, nelle intenzioni di Serra, che "la passione della ricerca serbasse schietto il suo accento".
Se Kant ha applicato alla morale un metodo già predisposto, non lo ha certo fatto "per un semplice bisogno di estensione e di compiutezza, ideale o bibliografica". Il problema morale, soggiunge Serra, se anche pare affrontato con una "pedanteria meticolosa", non ubbidisce a un "freddo dovere", ma deriva da un'esigenza vitale della "sua anima, che vi si applicava con trepidazione e con serietà appassionata". Non è un caso che l'atteggiamento attribuito a Kant Serra lo riferisca negli stessi termini a sé stesso in una lettera a Croce, nel momento doloroso in cui sente con vivo rammarico di dovere rinunciare al volume su Kant, ancorché meditato a lungo "con un interesse non soltanto scolastico e bibliografico". Evidentemente, in lui, il lavoro esegetico affidatogli dall'editore non era disgiunto da una partecipazione personale e da un'esigenza interiore, le stesse che aveva attribuito all'urgenza kantiana di meditare le sue Critiche.
Questo modo di proiettare la propria autobiografia intellettuale sugli autori studiati è abituale in Serra. Nei suoi appunti si legge: "Ma non ci son cose. Ci sono io", un io che negli altri privilegia sempre qualcosa di sé, come dimostrano gli Scritti filosofici. Nel recensire la biografia di Herbert Spencer scritta da Aurelio Stoppoloni si elogia del filosofo positivista non già la metafisica, ma "lo scrittore", il "fervore" e la "calorosa simpatia di certe pagine", ovvero, in definitiva, la misura umana e individuale del pensatore. E nell'intervenire sul ritratto che Prezzolini fece di Croce si fa risaltare la personalità "vibrante di ardore contenuto", la "forza viva" di un pensiero paragonabile per i suoi interessi molteplici "al vento" che, "scendendo dagli alti monti, investe tutti i problemi del vero e del vivere", una volta di più apprezzato per coniugare la filosofia con il ritmo della vita. Quanto poi al profilo di Francesco Acri, non manca l'apprezzamento della "moralità", riscontrabile pure nella sua filosofia del leggere, nel suo ricercare anche "l'effetto squisito", la "completezza estetica profonda e la soavità letteraria" che dà il meglio di sé in uno "spunto" o in un "principio" più che in una disamina di un "testo" compiuto.
Da questi esempi si ricava la preferenza di Serra per le biografie, non però quelle dal taglio erudito, ma quelle che una volta di più rilevino il carattere di un uomo. Sull'abbrivo del nuovo genere dell'intervista, praticato in Francia da Jules Huret e in Italia da Ugo Ojetti, anche Serra collaborò con Luigi Ambrosini per trascrivere una conversazione con Croce una volta che questi si era trovato a Cesena. Si distanziava però da quegli antecedenti, perché, per parafrasare una lode serriana indirizzata a Prezzolini, non volle "frugare" il personaggio famoso "per curiosità giornalistica o psicologica", ma per approfondire la conoscenza dell'uomo. "Sono appunto venuto per potervi conoscere più da vicino, non attraverso le opere, ma col tramite della vostra parola": ecco le prime parole con cui comincia il colloquio con Croce. Lo stesso, in fondo, si può dire delle parole dei suoi appunti di filosofia, nei quali, come aveva affermato di Kant, non c'è "solo il pensiero, ma l'uomo".
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