Rivista "IBC" XIX, 2011, 3

biblioteche e archivi / leggi e politiche

L'investimento regionale rivolto ai servizi e ai patrimoni culturali degli enti privati convenzionati riveste un ruolo chiave, soprattutto in tempo di crisi.
Capitali pazienti

Siriana Suprani
[direttrice della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, membro del consiglio direttivo dell'IBC]

A metà degli anni Ottanta la Regione Emilia-Romagna istituisce la normativa regionale in campo bibliotecario con la legge n. 42 del 1983, "Norme in materia di biblioteche e archivi storici di enti locali e di interesse locale", e avvia contemporaneamente un sistema di collaborazione tra l'amministrazione pubblica regionale e un significativo numero di istituti privati di conservazione intenzionati a mettere a disposizione della pubblica consultazione i propri patrimoni librari e documentari, spesso a carattere specialistico, e a svolgere un servizio di biblioteca aperto a tutti.

In particolare l'articolo 10 della legge recitava che "la Regione e gli enti locali territoriali, singoli o associati, possono, per i rispettivi ambiti di competenza, stipulare convenzioni con altri enti, pubblici o privati, al fine di favorire la valorizzazione e l'integrazione delle risorse bibliotecarie e storico-archivistiche sul territorio in funzione del coordinamento e dell'ampliamento delle strutture, dei servizi e attività e della loro più ampia utilizzazione pubblica". L'articolo prosegue in maniera altrettanto chiara e dettagliata istruendo tipologie e metodo delle convenzioni. Le ragioni di tale atto legislativo, che facilmente si deducono dal testo di legge, sono quelle di salvaguardare e valorizzare il patrimonio documentario non tutelato dalla legislazione e dagli istituti statali, compiendo un intervento di salvaguardia di documenti a rischio di dispersione, riconoscendo il pluralismo culturale che ha dato vita alla storia locale e predisponendo per il racconto storiografico un bagaglio di fonti documentarie non reperibili negli istituti pubblici.

Fino al 2000 la Regione Emilia-Romagna, grazie anche all'impegno di Nazzareno Pisauri, già soprintendente ai beni librari e documentari e allora direttore dell'Istituto per i beni culturali della Regione, ha operato secondo questi canoni. Nel 2000 la legge regionale n. 18 supera, abrogandola, la legge 42, contempla oltre al sistema bibliotecario-archivistico quello museale e riassume il lungo articolo 10 sulle convenzioni della legge precedente nel comma 2 dell'articolo 3. La nuova legge conferma il sistema delle convenzioni, la partecipazione all'organizzazione bibliotecaria regionale e alla programmazione culturale degli istituti privati convenzionati, promuove e valorizza la cooperazione tra istituti e richiede il rispetto degli standard di qualità definiti dall'amministrazione regionale (nella legge precedente si chiamano requisiti minimi e impongono minori vincoli).

Con la nuova legge, nulla di rilevante sembra cambiare nel rapporto tra l'amministrazione regionale e le biblioteche private, forse aumenta solo di qualche unità il numero delle convenzioni.1 I tagli alle risorse per le politiche culturali pubbliche che da quegli anni cominciano a essere di un certo rilievo, le tensioni conseguenti, il difficile dibattito istituzionale relativo alla struttura stessa dell'assessorato alla cultura della Regione e ai suoi strumenti determinano, senza esserne forse le sole cause, uno stallo nelle relazioni culturali, un indebolimento della collaborazione e un abbandono della riflessione su un sistema di relazioni pubblico-privato che potrebbe essere ancora oggi, invece, di notevole interesse.

Mi auguro che le brevi riflessioni che sto cercando di fare siano solo l'inizio di un percorso di valutazione dell'esperienza fino a oggi compiuta, da fare insieme, amministrazione pubblica e istituti privati, non solo per i tanti anni che sono passati dalla prima convenzione e per le risorse che la Regione ha investito in questo tempo. Per quanto la definizione di "capitali pazienti" si addica particolarmente agli investimenti in cultura, credo sia giusto avviare oggi una valutazione dell'esperienza che potrebbe sollecitare utili considerazioni in merito al rapporto pubblico-privato nel campo dei servizi culturali, e non solo in quelli, e che potrebbe anche migliorare o cambiare le forme della collaborazione.

In questo momento il dibattito sul rapporto tra servizi pubblici e servizi privati, sul concetto e sul metodo della sussidiarietà è, più che in passato, al centro dell'attenzione, ma per comprensibili ragioni questa attenzione è quasi totalmente assorbita dal welfare sociale. È mia opinione, invece, che nel campo dei servizi alla cultura, a partire dal sistema di convenzioni regionali di cui qui si tratta, si siano condotte da tempo esperienze virtuose e originali e si siano praticate innovazioni nel rapporto pubblico-privato che andrebbero indagate per prendere coscienza del valore che hanno, ma soprattutto per trarre un contributo nella ricerca di idee e di azioni adatte a far fronte ai nuovi bisogni culturali e a garantire il diritto di accesso alla cultura per tutti.

Soprattutto, però, ritengo pericolosamente inadeguato alle esigenze dei tempi il fatto che chi opera in ambito culturale, sia a statuto pubblico che privato, sia sempre costretto alla difesa rivendicativa, messo all'angolo dall'apparente semplice risposta alla domanda se sia più necessario un servizio agli anziani o una biblioteca, un nido o un museo, e che debba assistere quasi impotente all'impoverimento dei servizi e dell'offerta culturali, alla inevitabile privatizzazione dei servizi stessi e della produzione culturale, con il rischio per la pubblica amministrazione di restringere pericolosamente la possibilità per tutti i cittadini di fruire liberamente dei beni culturali.

Per riprendere il filo della riflessione sull'esperienza regionale del rapporto pubblico-privato in ambito bibliotecario e archivistico vorrei citare un passaggio della riflessione di Isabella Zanni Rosiello:


La stragrande maggioranza della documentazione appartenente a enti locali, enti pubblici, banche, partiti, sindacati, imprese, cooperative, associazioni di vario genere, eccetera, o a persone che hanno ricoperto determinati ruoli in ambito politico, economico, culturale non è negli istituti conservativi statali [...]. Una vastissima massa documentaria è pertanto fuori di essi. Per lungo tempo è stata, salvo eccezioni, abbandonata al suo destino in luoghi di fortuna, vittima delle insidie del tempo e dell'incuria degli uomini. Solo da qualche decennio si è andata verificando una netta inversione di tendenza. Ciò è dovuto a una serie di circostanze, tra le quali ricordiamo: l'entrata in vigore dell'ente regione, con il conseguente potenziamento delle diverse autonomie locali e l'emanazione da parte delle diverse regioni di una serie di provvedimenti legislativi riguardo alla tutela e alla valorizzazione di beni culturali in generale, tra cui quelli archivistici; un'insistente domanda da parte della cultura storica di utilizzare fonti prima trascurate o addirittura neglette; una sempre più diffusa, anche se talvolta confusa, consapevolezza del significato che la memoria documentaria del passato può avere nel rivendicare determinate tradizioni, specifiche identità, lontane radici culturali.2


Nel brano citato, di ammirevole chiarezza e di autorevole riferimento per le riflessioni in corso, si tratta di documentazione d'archivio, ma analogo ragionamento può valere per le biblioteche specialistiche, tenendo anche conto che spesso la peculiarità di questi patrimoni, soprattutto quelli del Novecento, si caratterizza per la stretta continuità relazionale e per le analogie tra le due diverse tipologie di raccolte documentarie: i fondi archivistici e le raccolte librarie.

L'attività e l'esistenza stessa degli istituti culturali privati stanno dunque a pieno titolo dentro la politica di conservazione di quella parte di fonti documentarie che lo Stato e le amministrazioni locali non hanno potuto e voluto tutelare e che, ancora una volta soprattutto in relazione alla storia del Novecento, risultano essere oggi indispensabili agli studi storici. La storia stessa di questa documentazione rende impossibile concepirne e prevederne la conservazione all'interno di strutture pubbliche, ma per il valore che riveste rende altrettanto necessario prevederne la tutela e la valorizzazione, dal momento che testimonia la storia di una nazione o di parte di essa, e che da questo punto di vista è un patrimonio di "notevole interesse storico" e deve esserne garantita la consultazione a tutti i cittadini.

Leggendo il volume dal significativo titolo Impegno civile e passione critica, pubblicato di recente dalla casa editrice Viella per la cura di Mariuccia Salvati e dedicato alla biografia intellettuale di Enzo Collotti, una delle tante riflessioni che quelle pagine hanno provocato in me riguarda proprio il ruolo esercitato da alcuni istituti culturali, milanesi in particolare, nel percorso formativo e culturale dello storico prima, ma anche nel corso, dell'esperienza universitaria. Ci sono luci e ombre, ma appare senza dubbio una realtà di luoghi ricchi di relazioni e di scambi culturali, di opportunità di ricerca, con una importante funzione di influenza nel clima culturale italiano.

I tempi sono diversi, i protagonisti sociali e politici sono mutati, ma oggi, di fronte alla crisi evidente della ricerca, alla difficoltà delle politiche culturali nel dare valore all'innovazione e alle nuove energie, al pericolo che le porte di accesso alla formazione e alla conoscenza per tutti siano più strette, penso che l'investimento in servizi e beni culturali di enti privati che accettano dall'amministrazione pubblica regole democratiche e di rispetto del pluralismo culturale vada tenuto in seria considerazione da parte degli enti pubblici. È un caso praticato di sussidiarietà orizzontale, così come la definisce Marco Cammelli nel volume La pubblica amministrazione: nel contesto degli istituti privati di conservazione, infatti, "sono presenti soggetti economici o sociali (imprese, associazioni, eccetera) in grado di garantire nel proprio autonomo operare un risultato analogo" alla pubblica amministrazione.

In sintesi, che funzione hanno avuto e potranno avere gli istituti culturali privati che la Regione Emilia-Romagna, riconoscendoli attraverso il proprio corpo di leggi, ha voluto rendere protagonisti del sistema culturale regionale? Sono strumenti di conservazione della memoria di una parte della storia nazionale, a fianco e in vece della pubblica amministrazione; sono luoghi di e per la ricerca scientifica; sono "piazze del sapere", come Antonella Agnoli definisce quei luoghi fisici che concorrono a creare spazi pubblici di incontro e di confronto per tutti i cittadini, più interessanti del proprio televisore o del proprio salotto di casa; sono luoghi che cercano di rispondere a quel bisogno di identità culturale non esclusiva dell'altro, in risposta allo spaesamento che sempre più di frequente le nostre città determinano (mi riferisco in questo caso alle parole di Matilde Callari Galli in un recente intervento su "IBC"). Sono luoghi nei quali la consapevolezza del valore del bene culturale e della sua conoscenza può essere un valido sostegno alle istituzioni culturali pubbliche nella battaglia che oggi le vede protagoniste per fermare l'impoverimento crescente degli investimenti pubblici per la cultura.


Note

(1) Oggi le convenzioni sono 16: Associazione archivi storici CGIL Emilia-Romagna; Fondazione Istituto scienze religiose "Giovanni XXIII"; UISP - Unione italiana sport per tutti; Provincia di Bologna dei Frati minori cappuccini; Associazione CDH - Centro documentazione handicap; Fondazione Biblioteca del Mulino; Ente regionale degli archivi UDI - Unione donne in Italia - Emilia-Romagna; Casa Lyda Borelli; Fondazione Casa Oriani; Fondazione Gramsci Emilia-Romagna; Fondazione Collegio San Carlo; Provincia minoritica di Cristo Re dei Frati minori dell'Emilia-Romagna; Centro italiano di documentazione sulla cooperazione e l'economia sociale; ARCI Gay il Cassero; Istituto "Francesco Cavazza"; Associazione Orlando Centro di documentazione delle donne.

(2) I. Zanni Rosiello, Andare in archivio, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 61-62.

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