Rivista "IBC" XIX, 2011, 3

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / immagini, interventi, restauri

Nelle immagini del reportage di Pierluigi Caputo all'Aquila, la città dopo il terremoto appare come un palcoscenico a recita conclusa, dove la scenografia muta rimane a ricordare che non è più tempo di finzioni.
Ultimo spettacolo

Piero Dall'Occa
[architetto]

Un terremoto, come del resto ogni catastrofe naturale, lascia dietro di sé un'impressione di grande vuoto, di vuoto quasi incolmabile, ed è attorno a questo vuoto che si aggirano i pensieri, le persone, il fotografo con la sua macchina fotografica, e quindi anche Pierluigi Caputo, autore delle fotografie raccolte in questo numero della rivista "IBC".

Nelle fotografie la città, L'Aquila dopo il terremoto, appare come un immenso palcoscenico dopo che si sono concluse le ultime recite e le impolverate scenografie stanno lì senza più un senso, tranne quello di ricordare che lo spettacolo è finito. Allo stesso modo, così netto e improvviso, anche la città si è svuotata e le sue rovine incorniciano solamente ciò che non può più essere presente, tranne il presente stesso, un lunghissimo presente. Perché il terremoto ha rubato il futuro, perché è impossibile immaginare cosa potrà avvenire dopo, perché non esiste più un dopo. Il tempo del terremoto, quei lunghi secondi in cui la terra ha tremato, è un attimo che dura all'infinito.


Un primo grande assente dalla scena di un terremoto è il tempo, perché il tempo è movimento, e lì il tempo è rimasto sospeso e non si può prevedere quando inizierà nuovamente a scorrere. In una fotografia c'è una borsetta, sembra di raso nero, probabilmente una pochette da sera, che è rimasta sospesa a un chiodo per l'estremità strappata del suo manico. Basterebbe una folata di vento per farla cadere giù, viene da pensare, eppure ha resistito a tutte le scosse. Forse il tempo ricomincerà a scorrere quando quella borsetta, diventata per incanto clessidra, cadrà finalmente a terra.

Ma c'è un altro tempo che il terremoto ha cancellato. Quello delle singole persone, quella temporalità personale con cui ciascuno scandisce la propria vita: il prima o il dopo la nascita del figlio, il prima o il dopo il matrimonio, oppure la laurea, o la morte del padre o della madre. Dopo un terremoto, tutte queste scansioni svaniscono, impallidiscono, e il tempo di chi è sopravvissuto avrà da lì in avanti una sola marcatura: prima o dopo il terremoto. Un episodio così traumatico quasi proibisce ai sopravvissuti di continuare a narrare la propria storia dando rilievo a sentimenti ed emozioni legati a singoli episodi personali, li strappa crudelmente e inesorabilmente via dal proprio racconto personale e li trascina invece dentro una storia più grande di loro e per loro incommensurabile. E gli oggetti della vita di tutti i giorni, che qua e là affiorano tra gli ammassi di pietre, sabbia e ferri nelle fotografie di Pierluigi Caputo, da lui volutamente cercati, testimoniano proprio, perché in sé oramai insignificanti, quanto profondo e tragico sia stato questo strappo.

Lo scatto del fotografo ferma il tempo; ma se è il tempo a essersi fermato, allora l'oggetto della fotografia diventa il silenzio, il silenzio che ha riempito tutti i vuoti lasciati dal tempo che si è fermato, il grande silenzio concentrato nella telefonata sussurrata al cellulare dal pompiere, o nel rumore della gru al lavoro attorno alla cupola di una chiesa, o nel fruscio del vento che solleva un poco di polvere. Passando da una fotografia all'altra, questo silenzio prende sempre più corpo e diventa l'altra faccia del grande vuoto iniziale.


Un'altra grande assente nella città del dopo terremoto è la vita. Il sisma distrugge parti di territorio, paesi interi, interi quartieri, e li priva della vita. In una fotografia ci sono tre quadri, tre immagini fotografiche incorniciate, rimaste appese alla parete ancora perfettamente allineate, nonostante la parete sia come esplosa intorno a esse. Si sono salvate ma solo per rappresentare, insieme, tutta la vita vissuta in una stanza che invece non si è salvata, che è sparita nel nulla per sempre. In un'altra fotografia, rovistando in un cassetto che gli porge un soccorritore, un uomo cerca qualcosa, non sa nemmeno lui che cosa, o meglio non sa, o non osa, dargli un nome: la vita andata distrutta. I cumuli di macerie trattengono solo memorie della vita che è stata: la vita è altrove, è nella natura che sembra guardare indifferente dalle colline lontane.

È curioso, forse ovvio, constatare che un terremoto è un fenomeno della natura estremamente selettivo, perché distrugge solo ciò che l'uomo ha costruito, null'altro. La natura non distrugge sé stessa, ma fa anche di più. Nella quiete irreale del dopo, sembra quasi volersi sottrarre a ogni responsabilità e osservare impassibile l'accaduto, senza provare alcuna empatia, totalmente indifferente alla tragedia che si è consumata nel suo grembo. Sta a guardare come il bosco di faggi - Buchenwald in tedesco - è rimasto a guardare per lunghi anni ciò che avveniva nella radura al suo interno. La vita nella natura, fatta di verde e fiori, non si è interrotta nemmeno per un momento, come a Treblinka, dove le fosse comuni erano nascoste sotto un bellissimo campo di lupini.

Alcune fotografie marcano proprio il contrasto tra il paesaggio naturale intatto e le rovine, persino il cielo pare troppo sereno. Sembra quasi che il fotografo muova un rimprovero alla natura per la sua freddezza.


Un terzo assente sono le persone. Per contrasto vengono in mente le riprese dei cinegiornali della Seconda guerra mondiale, quando dopo i bombardamenti la gente si precipitava sulle macerie ancora fumanti a fare qualche cosa, qualsiasi cosa, persino la cosa più inutile. Louis-Ferdinand Céline, che era a Berlino durante i bombardamenti degli alleati, in Nord racconta come i berlinesi si precipitavano a raccogliere in mucchi di pietre la propria casa distrutta, e sopra ogni mucchio mettevano un palo con il numero civico. Di molte strade non era rimasto più nulla, solo mucchi di macerie, ma quei numeri civici indicavano già la voglia di ricostruire, di ripartire da qualche cosa, fosse anche solo un numero.

In queste fotografie, invece, non c'è nessuno che vaga sperduto e che compie gesti inutili ma utili per dialogare con il proprio dolore. Nemmeno un cane si aggira, annusando odori impolverati. Si avverte qualcosa di innaturale, di forzato, di violento. Una violenza diversa da quella del terremoto, quasi più disumana, perché quella è pur sempre legata alla natura, mentre l'assenza forzata è figlia della politica e della burocrazia.


Sospinti dalla domanda "che fare?", le fotografie ci introducono anche a un secondo momento, o a un secondo tempo se le immagini fossero in movimento. Pierluigi Caputo ha cercato ciò che è sparito - il tempo quotidiano, la vita, la gente, il rumore - e lo trova in radure piene di tende blu, dove le scene ritratte sono dei brevi racconti di vita. Le immagini sembrano un film in una immagine sola, un po' come i racconti in tre righe di Félix Fénéon, perché è facile immaginare ciò che precede lo scatto e ciò che lo seguirà. C'è gente, ci sono i ritmi quotidiani, sembra quasi di sentire le voci dei bimbi che giocano e le rinate chiacchiere di vicinato. Le giornate riprendono un loro ritmo, si lava la biancheria, si ritorna dalla spesa, si guardano i bambini giocare.

La gente, la vita, il chiasso quotidiano: tutto si ritrova, come travasato, in questo villaggio improvvisato. Anche il tempo, ma non tutto il tempo. Quello che scandisce il ritmo delle giornate e delle settimane sì, ma il tempo della propria vita, il tempo dei ricordi, il tempo del futuro sognato, quello è rimasto nella città distrutta. Il tempo "prima del terremoto" è ancora là, sospeso come sospesa è quella pochette, e aspetta ancora di ripartire, perché può e deve ripartire solo all'Aquila. Nei villaggi improvvisati nelle radure, fatti di tende o case in legno, questo tempo è bandito. C'è solo il tempo "dopo il terremoto" che è un fluire uniforme e continuo, privo di passato, senza ostacoli o agganci per trattenersi. È un tempo tutto loro, che appartiene solo a loro. I villaggi improvvisati del dopo terremoto hanno creato nel tempo una radura analoga a quella che per costruirli è stata fatta nel paesaggio. È questo il motivo per cui si prova disagio a osservarli, perché ricordano, in questo loro essere isolati nel tempo e nello spazio, le baracche in mezzo a un bosco di faggi già sopra ricordate. Un tale isolamento non deve durare a lungo, i villaggi improvvisati devono davvero essere provvisori.

Le due temporalità così nettamente separate, così fisicamente separate, devono al più presto potersi riunire nel solo luogo dove ciò è possibile, a L'Aquila. La risposta al "che fare?" è molto semplice e banale: ricostruire al più presto la città distrutta dal terremoto.


Invece sono passati più di due anni dal 6 aprile 2009 e la ricostruzione della città storica è ancora lontana da iniziare. Questo fatto introduce un altro aspetto del tempo da prendere in considerazione, il tempo perso dalla politica nel prendere le decisioni necessarie all'avvio del processo di ricostruzione. La città è un bene pubblico, un bene di tutti, ma primariamente è un bene di chi la abita. Anzi, chi la abita è parte integrante del bene pubblico, perché ne salvaguarda la funzione, l'uso e quindi la sua vitalità. Se si perde ancora dell'altro tempo, se quindi si dilata ancora il divario tra il tempo "prima del terremoto" e il tempo "dopo il terremoto", si può arrivare a un punto di non ritorno, letteralmente, di non ritorno dei suoi abitanti. La città storica verrebbe lo stesso ricostruita ma privata della vitalità che la caratterizzava e delle funzioni che ospitava. Si trasformerebbe in un museo, piacevole forse per i turisti, ma un poco falso.

Diventerebbe un bene conservato, ricostruito, ma non più culturale, perché la storia non è riuscita a tornare ad abitarla.

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