Rivista "IBC" XIX, 2011, 2
musei e beni culturali / restauri, pubblicazioni
Il "lungo viaggio per vedere il Colco", la patria di Medea e destinazione degli Argonauti, iniziò per Andrea Emiliani nel 1956, quando si propose di scrivere "un saggio, forse un racconto" con questo titolo. La prima mostra sui Carracci era in corso, e Francesco Arcangeli, al quale questo lungo viaggio sarà dedicato, lo incoraggiò a intraprendere l'impresa, "e nella forma più libera". Arcangeli proprio in quell'anno, su "Paragone", aveva dedicato un importante saggio alla giovinezza dei Carracci: quell'intreccio serrato fra metodo e scrittura, capace di far riaffiorare e anzi amplificare le parole nascoste sotto la pelle dei dipinti, fu la solida base del lavoro di Emiliani. Il progetto si concretizzò nel testo di introduzione al catalogo della mostra del 1984 alla Pinacoteca nazionale di Bologna, in occasione del quarto centenario dell'esecuzione degli affreschi di Palazzo Fava e di un importante e improrogabile restauro. Su quel lavoro lo studioso ritorna oggi, rinnovando quelle pagine così dense di contenuti e di suggestioni, alla luce del nuovo restauro del ciclo di affreschi (a cura del Consorzio del Restauro e di Camillo Tarozzi), portato a compimento nel 2009 per volere del nuovo Genius loci del palazzo, la Fondazione Cassa di risparmio in Bologna.
Il volume, edito da Bononia University Press, è corredato da un album fotografico di Marco Baldassarri che, con le parole di Emiliani, ci accompagna gradualmente nel cuore pittorico degli affreschi. Le inquadrature del critico e quelle del fotografo restringono progressivamente il focus, con metodo deduttivo, fino a mostrarci il gesto e l'idea originaria dell'opera che, nel caso degli affreschi di Palazzo Fava, sono rappresentati dal solco tracciato con il chiodo per disegnare le figure sull'intonaco, evidenziando "una progettazione che non scompare immersa nel colore".
Al tempo degli affreschi di Palazzo Fava, nel 1584, era ormai giunto a compimento il grande restyling urbanistico del centro di Bologna promosso dal cardinal Pier Donato Cesi. Il nuovo assetto cittadino, impostato su principi di funzionalità e razionalità, presupponeva un "recupero della conoscenza rinascimentale" che fu propizio alla liberazione degli artisti dalle vischiosità manieristiche e favorì la riforma naturalistica di cui i Carracci furono i principali artefici. Le Storie di Giasone e di Medea affrescate in Palazzo Fava non appartengono a un classicistico revival rinascimentale, che meglio si addice agli affreschi con le Storie di Romolo e Remo in Palazzo Magnani, ma piuttosto appaiono un sortilegio pittorico antico-moderno di cui è affascinante individuare gli ingredienti.
La storia degli Argonauti, gli eroi dell'Attica guidati da Giasone, si snoda lungo diciotto affreschi simili ad arazzi, animati da figure dalle dimensioni contenute, con un efficace scarto di scala fra il racconto mitologico e gli imponenti atlanti a chiaroscuro che scandiscono gli episodi. In Emilia, nel Cinquecento, come scriveva Giorgio Manganelli, "dovunque traspare una vocazione alla favola". Risale forse al committente, Filippo Fava, l'originale scelta del soggetto, che unisce l'avventura degli Argonauti e la storia dell'eroina noire Medea, intrecciando Apollonio Rodio e le Metamorfosi di Ovidio. La famiglia Fava vantava una tradizione di medici-filosofi. La compresenza di Giasone e Medea fu ispirata a una specifica concezione scientifica pregalileiana, che affiancava l'utilizzo della magia, e di pratiche non ortodosse, alla medicina tradizionale.
Il fascino della vicenda sta anche nel tema della "ricerca", che accomuna sia la storia degli Argonauti che quella dei Carracci. I cugini pittori si concedono qui, nel 1584, un ultimo sperimentalismo prima dell'ingresso nell'età adulta, non più procrastinabile. Mentre nelle successive Storie di Romolo e Remo, in Palazzo Magnani, il comune idioma classico e latino amalgama le tre diverse personalità artistiche e allontana le citazioni dei maestri di gioventù, qui emerge più chiaramente il tributo dei cugini pittori a Bartolomeo Passerotti e a Pellegrino Tibaldi, l'invocazione del fantasma di Correggio, la confidenza con Federico Barocci.
Alla luce del nuovo restauro, appare evidente il ruolo di protagonista rivestito da Annibale. Egli è l'unico, dei tre artisti, "capace di offrire al critico una induttiva sequenza cronologica scandita e accertata sul pedale dello stile". La traversata del deserto, sia per la struttura compositiva costruita intorno a un deflagrante nucleo centrale, che per il compiacimento nell'esibire un serraglio di creature mostruose e feroci, mostra infatti "riconoscibili stigmate manieristiche". L'incontro cortese fra Giasone e Medea è un tributo, a (breve) distanza, alle storie ariostesche di Nicolò dell'Abate che decoravano Palazzo Torfanini nella vicina via Galleria (ora nella Pinacoteca nazionale). Gli ultimi riquadri a cui Annibale si dedicò furono quelli dai quali inizia la storia, I finti funerali di Giasone e La giovinezza di Giasone e l'incontro coi parenti: lo si deduce confrontandoli con una pietra di paragone della sua carriera, Il Battesimo di Cristo della chiesa dei Santi Gregorio e Siro, del 1585. Arcangeli riteneva che l'autore della Giovinezza di Giasone fosse Ludovico. Ora Emiliani può meglio vedere che solo Annibale avrebbe potuto concertare nella stessa scena, con tali "ritmo, falcatura, eleganza", un banchetto, un centauro educatore, un incontro di affetti.
Il ruolo di Agostino fu fondamentale negli affreschi del Camerino d'Europa (che affiancano fisicamente quelli degli Argonauti e forse di poco li precedono nell'esecuzione), e, stando a Malvasia, tanto nell'organizzazione generale dell'impianto compositivo del ciclo di Giasone e Medea, che nell'esecuzione dei termini laterali a chiaroscuro. In realtà ora sappiamo molto di più riguardo alla genesi di questi giganti animati. Il contributo di Agostino nei riquadri affrescati è comunque evidente in alcune scene. Per lo scomparto con Pelia si avvia al sacrificio rimane uno dei rari disegni preparatori al ciclo di affreschi, conservato al Louvre: l'autore del disegno è Annibale ma sarà Agostino a tradurlo in affresco. La quindicesima scena, con La consegna del Vello d'oro a Pelia, tradisce la predilezione per gli artisti veneziani di Agostino, che non manca di rendere omaggio a Passerotti dipingendo i sacerdoti assiri.
La quota di affreschi in carico a Ludovico sembra invece "al di fuori da una corrente norma stilistica", per cui è "difficile comprendere il metodo che regola la successione" delle scene che gli appartengono. In un gruppo piuttosto omogeneo (VI, VIII, XI, XII, XIV) Ludovico esprime la sua vocazione scenografica, allestendo piccoli palcoscenici, secondo le regole della nuova verosimiglianza prospettica raccomandata dagli architetti: il Vignola in primis. La narrazione interna è scandita da una cadenza didascalica, sul modello delle illustrazioni presenti in un libro che suggestionò i Carracci e il conte Fava, ideatori dell'intero ciclo. Il volume in questione, individuato da Steven Ostrow, è l'Historia Iasonis Thessaliae Principis de Colchica di Jacques Gohory, e fu pubblicato a Parigi nel 1563 da Jean Mauregard.
A un diverso segmento della complessa personalità di Ludovico appartengono gli affreschi che chiudono magnificamente questa sperimentale avventura pittorica: gli Incanti di Medea, il Ringiovanimento di Esone e l'Inganno di Medea davanti alle figlie di Pelia. Nella stanza dipinta degli Incanti di Medea, la maga è sorpresa in un momento intimo. Rinfranca il corpo provato da nove giorni di viaggio celeste su un carro trainato da serpi. Se in questa scena, che è un po' l'antenata mitologica di famose toelette pittoriche bolognesi del Settecento, Ludovico riesce nell'impresa di rappresentare la quotidianità del fantastico, nel Ringiovanimento di Esone trasforma Medea, da maga, in assorta anatomista intenta a una dissezione.
Rimarrebbe molto da raccontare di questo incontro ravvicinato fra divino e umano, di questa giovane accademia, della coralità e dell'individualità del lavoro. Il pensiero critico e la qualità della scrittura di Andrea Emiliani accompagneranno in modo esemplare i lettori del libro nel molto che non ho scritto.
A. Emiliani, Le storie di Giasone in Palazzo Fava a Bologna di Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, Bologna, Bononia University Press, 2010, 204 pagine, 50,00 euro.
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