Rivista "IBC" XIX, 2011, 2
musei e beni culturali, biblioteche e archivi / media, interventi
Che rapporto intercorre tra memoria culturale e nuove tecnologie? Che rapporto abbiamo con il passato quando costruiamo un manufatto digitale che vuole rappresentare, riprodurre, simulare un "testo", un oggetto, un'opera o un insieme di opere che appartengono alla nostra tradizione? Che tipo di rappresentazione o raffigurazione creiamo in un manufatto digitale? Che rapporto c'è tra la morfologia semantica del manufatto e il nostro senso del tempo e della cultura? Nel cercare di rispondere seguirò un taglio teorico, ma tenendo conto di un progetto concreto al quale collaboro, "Hyperpicture".1 Sul piano generale, quindi, la mia riflessione riguarda il rapporto che l'ipermedia intrattiene con la nostra memoria e con la nostra cultura; su un piano locale cercherò di mettere in luce il modo di funzionare dei manufatti digitali, la loro processualità e il rapporto che tale processualità intrattiene con il senso, e con il senso che abbiamo noi del tempo presente.
Credo che per comprendere questi rapporti sia necessario ripensare concetti chiave che sono stati centrali per decenni e poi troppo frettolosamente abbandonati, come quello di "testo". Come ogni società della scrittura, anche il mondo attuale ha un suo modello di testo, ossia l'idea di come un insieme coerente, coeso, riconoscibile di informazioni o di simboli possa essere trasmesso efficacemente, oltre il tempo e il luogo presenti, a nuove generazioni. Tuttavia non è un modello immutabile, può essere messo in dubbio, trasformarsi silenziosamente. È dunque necessario comprendere in che modo la scrittura si stia trasformando e anche, più ampiamente, quale sia il modello di comunicazione che si va profilando.
Innanzitutto, nel momento in cui si compie una codifica (ossia una digitalizzazione di qualsiasi tipo), occorre interrogarsi su quale modello testuale, implicito o esplicito, si stia usando. Si digitalizza in ogni momento della giornata, senza accorgersene, ma a volte, sempre più spesso, si vuole consapevolmente digitalizzare un oggetto culturale (un libro, un dipinto, una musica, un ambiente), e non ci si chiede a sufficienza che cosa si voglia ottenere, che cosa si stia facendo. Questo vale per ogni digitalizzazione, sia che essa implichi una trascrizione e ricodifica vera e propria, sia che comporti una semplice riproduzione "fotografica". L'operazione può avere anche solo un obiettivo mercantile, ma questo non dovrebbe oscurare la necessità di chiedersi che cosa, nel contempo, si stia facendo a ciò che si sta digitalizzando, come si stia trasformando l'oggetto, non sul piano fisico e tecnico, ma sul piano culturale, come se ne stiano mutando il contenuto e le forme d'uso.
Per portare a buon fine questa riflessione si devono però anche esaminare a fondo i caratteri propri della scrittura digitale e il suo funzionamento. In particolare è necessario tener conto di tutti i fenomeni neotestuali del digitale, ossia dei nuovi tipi di testo che il digitale mette in campo, quindi considerare con attenzione tutti i fenomeni di rappresentazione unitaria, coesa e coerente, che il digitale offre: dall'interfaccia ai processi che esso implica. Manca spesso, infatti, sul piano teorico, una visione integrata di questi fenomeni nel loro complesso. L'interfaccia e le sue cornici, ma anche i dispositivi e gli ambienti (dall'i-pad all'installazione museale) che permettono di accedere a contenuti culturali, sono spesso esclusi dalla riflessione sulla rappresentazione del testo, e sono relegati nel territorio del paratesto, del design,2 dell'usabilità o del marketing.
Viceversa, da una ventina d'anni, l'unico processo che nella maggior parte degli studi sul digitale e sugli ipertesti è stato preso in considerazione sul piano della sua incidenza sul testo è il link nel suo significato tradizionale: il collegamento di un elemento testuale a un documento o a una porzione di documento. Per la riflessione teorica sul digitale è stato come chiudersi in un vicolo cieco. Ora io credo che i collegamenti più importanti, in qualsiasi oggetto digitale, non siano quelli tra documenti o porzioni di documenti, bensì quelli che connettono un elemento testuale a possibili processi (ossia tutto ciò che il lettore può fare con il testo, a partire dalle operazioni più elementari di fruizione e manipolazione: dall'avvio al copia e incolla, dalla scelta di opzioni all'interrogazione di un database, eccetera). Il link tradizionale rappresenta solo uno di tali processi, e non il più innovativo e caratterizzante.
Quando un ambiente digitale assume i caratteri di un "testo"? I processi che si svolgono in un qualsiasi ambiente digitale assumono un rilievo testuale non appena sia previsto un lettore-fruitore che scelga di attivarli. Un testo, in ambiente digitale, è in realtà una matrice che dà luogo a innumerevoli sessioni testuali. È una catena di eventi testuali che comporta una componente temporale. È una forma di scrittura che per la prima volta prevede effettivamente, nella sua costituzione materiale, e non solo teoricamente, il lettore, il quale attiva i processi per lui predisposti e li volge ai propri fini.
Inoltre non bisogna dimenticare che ogni manufatto digitale, secondo la definizione di Giovanni Anceschi, è una "costruzione epistemica". Ciò comporta la non trasparenza del mezzo, anche al di là del noto aforisma di McLuhan ("il medium è il messaggio"), ossia il suo costituirsi in forma simbolica. Infatti il digitale, come ogni grande tecnologia cognitiva (e più di ogni altra), non si limita a "rappresentare" qualcosa, ma fornisce soprattutto strumenti interpretativi; non comunica solo significati, ma contesti e strutture; non offre modelli meramente iconici, ma "diagrammatici" (ossia in grado di mediare tra raffigurazione, interazione, configurazione ed esperienza), modelli resi possibili dall'introduzione nelle interfacce di dispositivi al tempo stesso strumentali e cognitivi.
Memoria e patrimonio culturale
Va fatta tuttavia anche una considerazione di carattere più generale, storico-culturale. Se dobbiamo interrogarci su quale modello testuale stiamo impiegando, dobbiamo ancor più interrogarci sul nostro modo di concepire l'intero patrimonio culturale in rapporto agli strumenti che usiamo. Possiamo pensare che l'ipermedia sia solo un mezzo per rappresentare, più o meno fedelmente, quel patrimonio? Questa impostazione rappresentazionale, che postula semplicemente una resa nei dati "artificiali" (il digitale) dei presunti dati "reali" (il patrimonio), rinuncia in effetti a quel profondo rinnovamento metodologico che dovrebbe invece consapevolmente introdurre. O, per lo meno, procede per vie nuove con vecchi strumenti teorici. Bisognerebbe forse chiedersi, invece, se non possiamo o se non dobbiamo sforzarci di pensare le stesse dinamiche culturali in modo differente per comprendere appieno anche le nuove potenzialità degli strumenti di cui disponiamo, e, viceversa, recepire con attenzione l'intera gamma dei fenomeni elettronici, ossia l'intera fenomenologia delle risorse digitali, per rielaborare la nostra concezione della cultura e della memoria.
L'ipotesi da cui vorrei prendere le mosse è che si possa pensare al patrimonio culturale e alla memoria come a un insieme di sistemi di navigazione che si susseguono, si combinano, si alternano. Con "sistemi di navigazione" intendo sostanzialmente complessi ideologici e materiali che orientano e organizzano i dati culturali in un determinato luogo e in un determinato tempo. La memoria così concepita si mostra come un intreccio, una rete di possibili ordini del discorso, che non sono semplici depositi (di miti, di tòpoi, di oggetti, di tecniche, di pratiche sociali), ma sono chiaramente sistemi assiologici, che stabiliscono rapporti gerarchici e connessioni tra cose, parole, persone, azioni, e, a livelli più complessi, tra discipline, saperi, generi, e anche tra diversi ordini del discorso, ossia tra diverse memorie.
Se si assume questa prospettiva, ci si accorge che nei secoli le tecnologie assumono un peso variabile e forme diverse nella costituzione di questi sistemi di navigazione, e che oggi hanno assunto un ruolo fondamentale, essendo esse non più strumenti, ma l'ambiente stesso in cui la cultura e la vita umana si collocano e si sviluppano. Se si tiene presente questo rivolgimento, risulta anche più chiara la nostra posizione storica, di interpreti, di trascrittori e di manipolatori, a nostra volta in qualche modo interpretati, trascritti e manipolati: condizione di cui dobbiamo essere ben coscienti. Non si può pensare che il patrimonio culturale sia un deposito oggettivo separato dagli strumenti che ci permettono di attingervi, che la cultura stia da una parte e le nuove tecnologie dall'altra; questa concezione schizofrenica qualche volta sembra prevalere in una visione meramente conservativa del patrimonio culturale e meramente strumentale delle nuove tecnologie. Tuttavia le nuove tecnologie sono il nostro attuale patrimonio culturale, o in ogni caso ne fanno parte in modo organico. Sono il nostro filtro ma ne dobbiamo essere consapevoli, e investirci, per così dire, della loro culturalità.
Pensare alla memoria come a una pluralità di sistemi di navigazione risulta meno difficile se ci si pensa in termini retorici e ci si rifà all'antica tradizione delle mnemotecniche e dell'ars combinatoria, più che all'idea di una memoria narrativa o consequenziale tipica dell'età della stampa. Un recupero della dimensione retorica, dopo il suo declino moderno, una retorica intesa in senso interpretativo ed euristico più che persuasivo e normativo (come suggerito da Ezio Raimondi), è importantissimo per comprendere la dimensione culturale delle neotecnologie, e, in definitiva, proprio il rapporto di cui stiamo parlando, tra nuovi media e patrimoni culturali. Bisogna tuttavia sottolineare che va preservato il plurale, "patrimoni culturali", mentre la retorica classica, dall'antichità fino a Gadamer, tende a considerare la cultura come un'unica, grande tradizione.
Anche su un piano antropologico-letterario, la memoria collettiva è stata spesso pensata come una rete. I neostoricisti, per esempio, l'hanno pensata come un archivio di frammenti testuali attraverso i quali lo storico - un po' foucaultianamente archeologo delle discontinuità e un po' nietzscheianamente ricostruttore di genealogie - letteralmente naviga, cercando di svincolarsi dalla master fiction che riconduce tutto a un ordine del discorso prestabilito.
Se questa impostazione neostorica ha un difetto, per tornare al nostro punto, è proprio quello di legare troppo saldamente il concetto di testo a quello di rappresentazione. Ma oggi l'idea del testo come rappresentazione è largamente insufficiente, e proprio le nuove tecnologie ce lo mostrano in modo chiaro. Quel che ci serve è un nuovo modo di concepire la testualità: il testo non è solo una tessitura di segni grafici e di significati, ma un insieme di processi, materialmente inscritti nel suo corpo stratificato, e regolati da nuovi dispositivi testuali, attivabili dal fruitore, che determinano il suo funzionamento.
Un nuovo modello testuale e comunicativo
Ogni testo è almeno due testi. Ogni testo ha vita nella sua trasformazione. Tanti teorici hanno intuito in passato questa natura dinamica del testo. Ma la comprensione di ciò che sta succedendo oggi con il digitale (una trasformazione antropologica che riguarda direttamente e inequivocabilmente la scrittura) e l'analisi dei modi di funzionamento dei testi digitali possono non solo mostrarci l'insufficienza della nostra vecchia idea del testo, ma anche darci un'idea complessiva di come ogni testo sia compartecipe di un campo di forze che non mette in dubbio, barbarie permettendo, la sua consistenza originaria, bensì produce altri testi che sono, per così dire, la sua esecuzione, la sua interpretazione crossmediale e crosstemporale. Un testo è un processo complesso: è una matrice testuale (testo generativo) che genera altri testi (testi emergenti) nel contatto con i fruitori e con il medium. Filologia e comprensione della contemporaneità possono andare d'accordo se guardano criticamente il presente, se re-istituiscono, di comune accordo, la distinzione, la sospensione, il doppio sguardo, il doppio testo.
Se concepiamo la memoria come un sistema di navigazione e (con i neostoricisti) pensiamo al discorso culturale come mitologia, master fiction, grand récit del patrimonio culturale disponibile in cui si aprono delle brecce interpretative, risulta chiaro come un sistema ipermediale abbia la forza di inserirsi in questo gioco degli ordini di discorso in modo non settoriale. L'ipermedia è di per sé anche un modello discorsivo, oltre che un modello testuale. Riorganizza i rapporti tra visivo, verbale, cinematico, propriocettivo, tattile, eccetera, per citare solo uno degli ambiti più banali ma più rivoluzionari al tempo stesso. Se però riorganizza i rapporti tra regimi percettivi, ciò non significa affatto che spinga nella direzione di un dominio del visivo o dell'audiovisivo, come sostengono alcuni filosofi o sociologi, da Jean Baudrillard a Paul Virilio. Credo che a questo riguardo fossero alla fine più acute le intuizioni di McLuhan, o che abbia maggior penetrazione, con le dovute cautele, l'idea di Michel Maffesoli, secondo cui il digitale sarebbe una proliferazione di contenitori e di cornici. In questo senso il digitale ha piuttosto la potenzialità di far riemergere e di stratificare l'aspetto linguistico-verbale, e di salvare proprio le immagini da una dimensione puramente autofagocitatoria o spettacolare.
Le nuove tecnologie hanno, tra le proprie risorse, due modalità di discorso che, in aggiunta a una terza modalità che si può onnicomprensivamente definire enciclopedica, permettono, anche se non garantiscono, un recupero della memoria culturale che ne rispetti la consistenza e la storicità: sono due strategie di discorso "incornicianti" che, trasformando due categorie di Genette, potremmo chiamare metadiscorsiva e iperdiscorsiva. Sono in realtà anche due modalità di rapporto con l'alterità, due modalità dialogiche: la prima si pone nei confronti dell'alterità sotto l'aspetto del commento, ed è propria del discorso critico. La seconda si pone invece in forma di riscrittura, in senso lato, cioè adotta una modalità di discorso di tipo simulatorio, trasformativo o creativo. Sono due strategie che, se impiegate con equilibrio, possono giovare tanto a preservare i contesti originari, quanto a produrre una reinterpretazione globale.
Come è inevitabile in un processo di trasformazione così profondo, ci si dirige verso una ristrutturazione dell'idea stessa di memoria. Come ha mostrato Aleida Assmann, ci troviamo in un momento storico in cui la "memoria vivente", corporea, concreta, inerente a un gruppo, può trasformarsi in "memoria culturale", ossia in "memoria-archivio", accessibile allo studio scientifico. Ricordo e storia possono coesistere in un rapporto complesso e inedito, dove permanenza e innovazione possono generare non solo nuove forme di archiviazione, ma anche modelli epistemologici e semiotici. Se rischi non mancano, non sono collocabili nella paventata perdita di memoria (l'oblio è inerente a ogni società e a ogni trasformazione), bensì nel rapporto tra architettura dell'informazione e discorso. Ossia nella capacità del sistema di garantire un equilibrio tra la "legge" di cui parlava Foucault, che è implicita in ogni "archivio" e detta le regole di ogni enunciabilità, e la possibilità di creare e costruire il nuovo, di partecipare alle scelte, di accedere a e di ricombinare i dati, di comprendere la loro strutturazione e la loro disposizione.
È un punto critico della testualità digitale, a proposito del quale l'informatica umanistica può giocare un ruolo culturale e di chiarificazione teorica molto importante. Vi si coglie una contraddizione, o meglio una coesistenza, tra spinte centrifughe e spinte centripete, che può essere descritta a vari livelli della fenomenologia interna del digitale e della sua costituzione stratificata; ma su un piano più generale, socioculturale, può essere colta nei dislivelli di sapere e di conoscenza che la rete istituisce nel momento stesso in cui crea un grande "ceto medio" dell'informazione. Come diceva Umberto Eco, la rete può far bene ai ricchi e male ai poveri.
Sul piano dell'immaginario, il problema del rapporto tra ipermedia e memoria può essere ricondotto anche alla contrapposizione tra le due metafore che secondo Harald Weinrich contraddistinguono la memoria: il magazzino e la lavagna. Il testo digitale può essere considerato la sintesi di entrambi i modelli, poiché recupera la profondità oscura del magazzino e la visibile, effimera superficialità della lavagna. Ma è evidente innanzitutto che, in generale, la rivoluzione informatica accentua decisamente il passaggio da una concezione della memoria come deposito a una concezione della memoria come processo o (lo si è già suggerito) come sistema di navigazione.
Se è vero, come sostiene Aleida Assmann, che "riemerge nella concezione della memoria il concetto di sovrascrivibilità permanente e di ricostruibilità", e che "nelle tecniche di archiviazione e negli studi sulla struttura del cervello umano viviamo in questo momento una fase di trasformazione paradigmatica nella quale all'idea di ritenzione permanente si sostituisce il principio di una continua sovrapposizione di dati mnestici",3 è anche vero che mai come oggi (per esempio nell'ambito delle neuroscienze) c'è consapevolezza del ruolo delle architetture, corporee e flessibili, che cooperano come strutture dinamiche formali nella costruzione di memoria. In altre parole, alcune strutture fisiche (ma modificabili) creano, nella loro connessione, le coordinate formali per l'emersione di dati e di rappresentazioni.
Ciò è doppiamente rilevante: nella memoria elettronica l'architettura si trasforma in "codice incarnato" (e questo la distingue profondamente dalla "struttura" dello strutturalismo), e diviene, come in biologia, garante di una certa soglia di coerenza e durata; nello stesso tempo essa permette un certa flessibilità e ristrutturabilità, e dunque dovrebbe comportare un grado maggiore di innovazione. Insomma l'archivio, e per estensione il testo, "non sono solo il posto in cui vengono conservati i documenti del passato ma anche il luogo dove il passato viene costruito e creato".4
Una navigazione consapevole
Tornando dunque alla nostra situazione di partenza, non è necessario, ogni volta che si progetta un ipermedia, formulare una teoria del testo e della comunicazione, ma bisogna almeno non trascurare le questioni affrontate qui nell'interrogarsi sugli obiettivi che si vogliono perseguire. Sono indubbiamente problemi che si possono affrontare proficuamente solo facendo i conti con progetti concreti, ma non si può compiere quel salto culturale di cui abbiamo bisogno se non si riflette radicalmente sui cambiamenti dei nostri modelli conoscitivi. Chi si occupa di digitalizzazione e patrimonio culturale dovrebbe quindi mostrarsi sensibile alla natura culturale e tecnologica, e non solo tecnica e strumentale, del digitale. Un atto di digitalizzazione dovrebbe contemperare ars e vis, sedimentazione e innovazione, interpretazione e verifica sociale, continuo e discreto. Dovrebbe cioè divenire, al tempo stesso, arte della memoria ed etica della ricerca.
Una visione "retorica" della nostra cultura, nel senso gnoseologico che qui si propugna, contempla dimensioni che erano vive nella retorica classica e sono rimaste inaridite per molti secoli: se, dopo quanto si è detto, si dà per scontato un legame dell'ipermedia con la memoria (poiché la memoria digitale tende a recuperare un rapporto essenziale con l'esperienza vivente, e a non rimanere puramente estroflessa), la costruzione di un manufatto digitale dovrebbe avere un rapporto diretto anche con altre branche tradizionali della retorica, come l'actio (del resto un modello processuale di testualità, come quello che qui si è presentato, avvalora questa dimensione). Ed è indubbio che un progetto digitale richieda anche una Topica (inventio), una Tropica (elocutio), e una Topologia (dispositio) potenziata in senso architettonico.
Ecco allora che la "navigazione" potrebbe essere simile alla navigazione consapevole di cui parlano i neostoricisti. La conservazione non può essere disgiunta dalla ricerca. E la ricerca culturale, se è consapevole del valore culturale dei mezzi, anzi, se sa donare a essi il giusto valore, può trovare nel digitale un ambiente di studio molto promettente. Un'impresa di digitalizzazione consapevole assomiglia molto al lavoro di un retore, inteso non come la figura degradata a cui ci ha abituati la modernità, ma come l'attore che studia, sceglie e presenta: si tratta di cercare di ricreare un repertorio del memorabile, individuando i criteri, i contenuti, i loci e le imagines rilevanti. Si devono creare i codici per la rappresentazione di tali dati e le regole della loro strutturazione ed elaborazione, e renderli condivisi. Si devono leggere i testi della precedente tradizione scoprendo e ordinando gli elementi interessanti, magari oscurati da tradizioni testuali precedenti.
Si deve insomma compiere un lavoro di astrazione (di riscrittura) che mantiene tuttavia un legame costitutivo con i realia. Si tratta di una Topica al tempo stesso materiale e concettuale, una continua "soggettazione" critica della cultura, che passa per la descrizione dei suoi testi. Inoltre, l'ambiente digitale impone uno studio delle "figure" che fanno funzionare la testualità corrispondente, ossia i dispositivi di collegamento nel loro rapporto con il pensiero, le nuove forme di legame/significazione, lo snodarsi del discorso attraverso i processi che il testo contiene.
Infine, lo studioso deve progettare le architetture, ossia di nuovo lo spazio mentale in cui gli oggetti sono connessi tra loro e funzionano come elementi straniati, rescissi due volte dal loro contesto, come in un metamuseo vivente. Ma proprio perché strappati alla loro sussistenza naturale, simulati, messi a contatto con la propria scomposizione digitale, essi, come pensava Goethe a proposito dei reperti greci riordinati ed esposti nel museo Maffei di Verona, sono pronti a una ricomposizione e a una ricomprensione.
È dunque inevitabile un'interrogazione seria sulla nostra concezione della memoria e sul nostro rapporto con la memoria. Se possa essere una memoria che riesce a tener conto e a configurare, attraverso uno strumentario architettonico e perfino pittorico, diverse storicità, e divenire davvero, come diceva Aspen Aarseth, un punto di vista su tutti i tipi di testo. O se sia destinata a diventare uno strumento attualizzante e omologante, che riconduce tutto nell'alveo di quella master fiction di cui parlano i neostoricisti. La risposta dipende anche dalle brecce che il pensiero critico può tenere aperte in ogni singola impresa di digitalizzazione e in ogni impresa culturale in genere.
Note
(1) Al progetto, che coinvolge ora l'Accademia di belle arti di Sassari, collaborano, oltre allo scrivente, Marcello Pecchioli (Dipartimento di scienze dello spettacolo, Università di Padova), Marcello Balzani e Roberto Meschini (DIAPReM, Dipartimento di architettura dell'Università di Ferrara). Il testo qui presentato riproduce in parte la relazione tenuta al convegno "Computers, Literature, and Philology" (Londra, 29 giugno - 1 luglio 2006, Centre for Computing in the Humanities, King's College).
(2) Anche se i contributi del design teoretico, come quello di Giovanni Anceschi, sono ricchi di prospettive per chi si ponga il problema di ciò che si rappresenta e si raffigura (si veda in proposito: G. Anceschi, L'oggetto della raffigurazione, Milano, ETAS, 1992).
(3) A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, traduzione italiana di S. Paparelli, Bologna, il Mulino, 2002, p. 21.
(4) Ibidem, p. 23.
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