Rivista "IBC" XIX, 2011, 1
musei e beni culturali, biblioteche e archivi / immagini, mostre e rassegne, pubblicazioni
Dedicando l'edizione del 2010 al tema della Fortuna, il Festival della Filosofia di Modena non poteva fare a meno di ricordare Aby Warburg. Al centro della mostra "Dea Fortuna. Iconografia di un mito", allestita nell'appartamento nobile del Palazzo del Principe umanista Alberto Pio, figurava infatti la riproduzione della tavola dedicata al tema della Fortuna nell'Atlante della Memoria dello storico dell'arte tedesco. È appunto partendo dalle sue ricerche che la mostra, allestita tra settembre 2010 e gennaio 2011, ha riproposto la filiera figurativa di questa volubile padrona del nostro destino, dall'antichità fino al XVII secolo.1
La Fortuna e i banchieri fiorentini
Come notò Gertrude Bing, le affinità fra la Firenze medicea, dove il potere era esercitato da un patriziato borghese e mercantile, con la nativa Amburgo e la sua famiglia di banchieri, concorsero a motivare la particolare predilezione di Warburg per la città-stato toscana. Applicando il metodo positivista alla storia dell'arte, lo studioso coinvolse nella sua ricerca gli oggetti di uso quotidiano, oltre all'arte monumentale, e i documenti privati, oltre alle grandi testimonianze letterarie. Dallo studio delle lettere e dei testamenti dei banchieri fiorentini emersero appassionanti romanzi di vite vissute nel tentativo di gestire il conflitto fra la forza della personalità individuale e la potenza della sorte, enigmaticamente casuale.
Nel 1600 Francesco Sassetti, uomo poco pratico che viveva di sogni e di ricordi, iniziò a scrivere la storia della sua illustre famiglia fiorentina. "La 'antichità e nobiltà' dei suoi facoltosi antenati" - osservò Warburg - "doveva destare nel discendente impoverito e privo di ogni influenza un'impressione di duplice natura: deprimente a causa del contrasto fra passato e presente, eppure al contempo incoraggiante in virtù della grande vitalità dimostrata nel corso di dieci generazioni dalla sua stirpe patrizia abituata ad affidarsi impavida alla fortuna capricciosa del mercante di ventura". E tra le righe dello storico, immaginiamo l'ingrigito signore fin de race, con la mente confusa da questi pensieri, esplorare con lo sguardo, per l'ennesima volta, gli affreschi dipinti dal Ghirlandaio nella cappella di famiglia in Santa Trinita.
Su quelle pareti, un altro Francesco Sassetti, quello che per tre generazioni era stato amico e uomo d'affari di casa Medici, partecipa, in compagnia della moglie e di Lorenzo il Magnifico, alla celebrazione di natività mistiche e di miracoli francescani. Poco dopo la conclusione di questa imponente commissione artistica, testimonianza del felice equilibrio fra la virtù e la buona sorte di Francesco, il vento aveva smesso di soffiare a suo favore. Nel 1488, alla soglia dei settant'anni, Sassetti partì per Lione, dove una filiale della banca navigava in pessime acque. Era dunque necessario redigere un testamento per istruire i figli sulla gestione dei beni di famiglia, prevenendo i capricci del destino. Studiando questo affascinante documento, Warburg, abilissimo nell'individuare i diversi fili che costituiscono la trama di una storia, personale o figurativa che sia, intuisce la natura ambivalente, medievale e umanistica, del banchiere: "Al cavaliere che schiera il suo clan intorno alla bandiera familiare per l'estrema difesa, il mercante del Rinascimento fiorentino conferisce quasi come stendardo appunto quella dea del vento, Fortuna, che egli ha dinanzi agli occhi in forma così corporea come potenza che decide della sorte".
A Firenze l'immagine della Fortuna, una donna con una vela gonfia di vento, era ormai diventata una figura totemica delle imprese mercantili. Un altro celebre uomo d'affari contemporaneo di Sassetti, Giovanni Rucellai, l'aveva voluta come cimiero dello stemma di famiglia. La vela, simbolo della dea pagana, ornò la facciata di Santa Maria Novella e quella di palazzo Rucellai, che Giovanni aveva commissionato a Leon Battista Alberti. Quest'ultimo, un giorno, non avendo trovato risposta soddisfacente nelle fonti antiche, che abitualmente frequentava, domandò a Marsilio Ficino "che cosa è fortuna e se l'uomo può riparare a essa". Il filosofo, alla fine di una bella lettera, gli spiega "che buono è combattere colla fortuna coll'armi della prudenzia, pazienza et magnanimità. Meglio è ritirarsi et fugire tal guerra, della quale pochissimi hanno vittoria, et quelli pochi con intollerabile fatica et extremo sudore. Optimo è fare collei o pace o triega, conformando la voluntà nostra colla sua, et andare volentieri dov'ella accenna, acciocché ella per forza non tiri. Tutto questo faremo, se s'accorda in noi potenzia, sapienzia et voluntà".
L'Atlante della Memoria
Le riproduzioni fotografiche del palazzo e dello stemma Rucellai sono presenti anche nella tavola 48 dell'Atlante della Memoria, esposta in copia nella mostra di Carpi. Sono circondate da altre 28 immagini che rappresentano, secondo Warburg, la storia figurativa del tema della Fortuna dall'antichità al XVII secolo.2
L'Atlante della Memoria (Mnemosyne. Bilderatlas) è l'ultimo progetto di Aby Warburg. Egli intese costruire un repertorio visivo dei suoi studi, corredato da testi esplicativi: una sorta di testamento, come quello del banchiere fiorentino, ma dedicato al suo metodo di ricerca. Secondo lo storico tedesco, per comprendere un'opera è necessario metterla in relazione con ciò che la precede e con ciò che la segue, con ciò che la contraddice e con ciò che la ricorda, con le sue radici e con il suo contesto, in un insieme di relazioni a mosaico per le quali, più che un discorso lineare, risulta funzionale una mappatura figurativa.
Al momento della morte del suo autore, nell'ottobre 1929, l'Atlante contava 63 pannelli corredati da centinaia di fotografie, un abbozzo dell'Introduzione e molti appunti. Questi preziosi materiali sono conservati al Warburg Institute a Londra. La particolarità del tema conduttore del progetto (la migrazione delle forme espressive attraverso la storia delle rappresentazioni) e la sua incompiutezza hanno alimentato la percezione che l'Atlante fosse una specie di misterioso congegno magico. In realtà la ricerca di Warburg - che tentava di comprendere l'origine, la storia e il manifestarsi dell'elemento irrazionale nella storia dell'umanità - si servì degli strumenti e degli studi razionali della scienza positivista. Nel suo proposito l'Atlante della Memoria doveva rientrare in un vero e proprio progetto editoriale: sarebbe stato pubblicato dall'editore tedesco Teubner in una collana che ospitava altri atlanti figurati, archeologici e naturalistici. Probabilmente sarebbe stato simile all'Atlante illustrativo della storia della religione pubblicato dal 1924 da Hans Haas.
All'inizio del XX secolo, riducendo il mondo in forma di libro, gli atlanti fotografici ebbero grande diffusione nell'editoria scientifica e nelle discipline per le quali era utile un approccio comparativo. Già dalla fine dell'Ottocento la fotografia aveva modificato la didattica scientifica e, nel nostro specifico, quella storico-artistica. L'utilizzo di album fotografici comparativi, simili all'Atlante della Memoria, era diffuso soprattutto in medicina e geografia. Charles Darwin, del quale Warburg aveva particolarmente apprezzato The Expression of the Emotions in Man and Animals, li includeva nelle sue pubblicazioni. Nel 1927 Roberto Longhi pubblicò la monografia su Piero della Francesca corredata da 184 fotografie Alinari, Brogi e Anderson. Contemporaneamente, Aby Warburg concepiva e montava le tavole dell'Atlante della Memoria. Insieme a quelli di Venturi e Berenson, si tratta degli esempi fondanti dell'impiego critico dell'immagine fotografica applicata alla storia dell'arte, nelle sue due accezioni fondamentali, attribuzionistica e iconografica.
Warburg era stato un grande appassionato di fotografia. A ventinove anni, durante il viaggio nel deserto dell'Arizona fra gli indiani Pueblo e Hopi alla ricerca di tradizioni non contaminate dalla civiltà occidentale e dal cattolicesimo, eseguì un reportage di grande suggestione con una delle prime Kodak portatili. E che fotografia e libro, uniti, costituiscano il congegno per far funzionare la macchina della ricerca lo dimostra ancora oggi, e speriamo per sempre, il Warburg Institute a Londra, con il suo patrimonio inscindibile e imprescindibile.
Il percorso iconografico
Intrecciando le immagini scelte da Warburg per la tavola 48 dell'Atlante con le opere esposte in mostra (in molti casi corrispondenti) si può ricostruire la storia della rappresentazione di Fortuna. In principio fu Platone (Leggi, 709b): gli affari umani sono determinati da Dio, dalla sorte (tyche) e dall'occasione propizia (kairòs).3 L'immagine di tyche si costruì su quella egiziana di Iside, dotata di vela e nave, e su quella greco-romana di dea protettrice della città, con timone, cornucopia e copricapo turrito o corona. Il prototipo iconografico di kairòs deriva invece da un'invenzione dello scultore Lisippo. Si trattava di una statua in bronzo eseguita in onore di Alessandro Magno e replicata in molte copie: raffigurava un giovane efebo con una lunga chioma sulla fronte e la nuca completamente calva, appoggiato instabilmente sulla punta dei piedi o su una sfera.
Sin dall'antichità, il concetto di Fortuna si sviluppò con varianti iconografiche che ritorneranno, ulteriormente contaminandosi, nel Medioevo e nel Rinascimento. Una delle metafore iconografiche più frequenti della Fortuna, in relazione a Tyche, sarà la navigazione, che fu questione fondamentale nel destino individuale e collettivo della polis greca, della repubblica marinara medievale, della borghesia mercantile rinascimentale. Gli attributi di kairòs legano invece l'occasio-fortuna ai temi del tempo, della ciclicità, dell'instabilità.
Durante il Medioevo, nelle miniature che aprono il De consolazione Philosophiae di Severino Boezio compare il simbolo della ruota (il contributo dei secoli di mezzo all'iconografia in questione), simbolo accompagnato dall'ammonizione "sali se ti è gradito, ma a questo patto, che tu non stimi offensivo discenderne quando la regola del mio gioco lo chiede". E anzi dobbiamo imparare ad apprezzare la cattiva Fortuna: essa non dissimula la propria natura e ci istruisce, mentre la buona Fortuna ci inganna con le sue promesse illusorie.4
Nel Rinascimento, Fortuna prende le sembianze di una fanciulla simile a Venere, che, a seconda dei contesti artistici, sceglie quale attributo indossare, attingendo al vasto corredo di oggetti iconografici che le appartengono dall'antichità. Spesso recupera i simboli marini - la vela, il timone, la nave - e si acconcia come Kairòs-Occasio, con la nuca rasata e una lunga ciocca pronta per essere afferrata: in questo modo, come spiega Elena Rossoni, "viene valorizzato l'aspetto positivo legato all'avventura, alla buona opportunità e dunque alla felicità". Machiavelli, nel Principe, incoraggia anzi l'uomo ad assumere un ruolo attivo nei confronti della Fortuna: "Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi che da quegli che freddamente procedono; e però sempre, come donna, amica de' giovani perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano".
Fortuna, divinazione e libri di sorte
La filosofia non basta però a rassicurare gli uomini sui capricci di Fortuna. Ecco allora entrare in scena la divinazione, alla quale Warburg dedica due immagini nella tavola 48 dell'Atlante e anche un'intera tavola, la 23a, consacrata alle tecniche di predizione del futuro tramite i dadi, la geomanzia e i libri di sorte.5
Nei "libri di sorte", ai quali è stata dedicata una sezione della mostra, vengono formulate domande e ricevuti responsi sul proprio destino. Dal quesito iniziale alla profezia finale, si segue un percorso in varie tappe, per il quale ci si può servire di vari strumenti: carte, monete, dadi, bastoncini, ruote allegate ai libri. Si avanza in un labirinto di figure che rappresentano un'escalation profetica, dall'umano al divino. Questi testi furono scritti in versi e arricchiti da figure disegnate, miniate o incise su legno: appartengono cioè alla categoria dei "libri che non si leggono", dove prevale la narrazione visiva su quella verbale. Uno fra i più antichi e famosi libri di sorte proviene dall'Oriente. È il Libro dei Mutamenti, l'I-Ching, che si iniziò a conoscere in Occidente grazie alla traduzione in tedesco di Richard Wilhelm, nel 1911, e alla prefazione all'edizione del 1949, scritta da Carl Gustav Jung.
I più bei libri di sorte furono scritti in Italia, durante il Rinascimento, quando, come ora, la situazione politica era grave ma non seria (per citare Ennio Flaiano) e nelle corti travagliate si aspettava la fine giocando con i "demoni nell'ampolla". Questi oracoli portatili sono oggetti letterari e figurativi ora divenuti rarissimi, perché inseriti nell'Indice dei libri proibiti, e perché gravitanti in un genere letterario popolare, refrattario alla tesaurizzazione nelle biblioteche. Fortunatamente sono custoditi nelle biblioteche private. È grazie alla generosità di un bibliofilo che è stato possibile esporre in questa occasione le edizioni fondamentali della storia dei libri di sorte. Con una novità bolognese: un manoscritto disegnato da Giuseppe Maria Mitelli, che accresce il già ricco archivio di pubblicazioni cittadine sul tema del gioco e del pronostico.
Note
(1) La mostra, curata da Manuela Rossi, Elena Rossoni e Silvia Urbini, ha un catalogo: Dea Fortuna. Iconografia di un mito, a cura di M. Rossi, Carpi, Edizioni del Comune di Carpi, 2010.
(2) C. Dieghi, Mnemosyne: la parola all'immagine. La tavola della Fortuna nell'Atlante di Aby Warburg, in Dea Fortuna, cit., pp. 23-27.
(3) N. Arletti, T. Previdi, M. Rossi, Tyche e Kairòs. Alle origini della concezione e dell'iconografia di Fortuna, in Dea Fortuna, cit., pp. 8-11.
(4) E. Rossoni, Le metamorfosi della Fortuna. Un percorso iconografico tra Medioevo ed Età Moderna, in Dea Fortuna, cit., pp. 12-22.
(5) P. Procaccioli, S. Urbini, Libri di sorte da Lorenzo Spirito a Giuseppe Maria Mitelli, in Dea Fortuna, cit., pp. 28-37.
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