Rivista "IBC" XV, 2007, 2
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / convegni e seminari, interventi, leggi e politiche
Il 18 gennaio 2007, presso l'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, si è tenuto il terzo incontro pubblico di riflessione sulla proposta di legge "Governo e riqualificazione solidale del territorio", presentata dall'assessore regionale alla programmazione e allo sviluppo territoriale, Luigi Gilli. La proposta punta a raccordare norme realizzate in periodi diversi e propone un governo del territorio sostenibile, in grado di armonizzare le esigenze di sviluppo con quelle della solidarietà e del rispetto dell'ambiente naturale. Tra gli interventi pronunciati nel corso del confronto tra amministratori ed esperti presentiamo quello del professore Ezio Raimondi, presidente dell'Istituto regionale per i beni culturali (IBC).
Conviene cominciare indicando il punto di vista del parlante. Io non sono un uomo di legge, non sono un amministratore, non sono neppure uno studioso di architettura. La mia competenza originaria è una competenza che riguarda le parole del passato, e quindi sembra lontana di qui, anche se è vero che poi le parole fanno parte dei beni culturali più di quanto solitamente non si creda. Posso però presentare la logica con la quale l'Istituto per i beni culturali - che è un occhio multiplo della Regione - è venuto in questi anni amministrando certi problemi che erano suoi propri, e posso, attraverso quell'esperienza, fare qualche considerazione in rapporto alla proposta di legge di cui stiamo discutendo.
L'Istituto per i beni culturali nacque in un momento di fervore e si affermò come un progetto d'avanguardia per una Regione che aveva fatto dell'indagine sulla propria realtà e sulla propria cultura una parte della propria scoperta della modernità. Nell'ipotesi iniziale il termine territoriale era minore: era un'ipotesi di sistema, di insieme, dove le singole realtà - che in quel caso erano soprattutto il mondo dei musei e dell'arte, il mondo naturale e il mondo dei libri e delle biblioteche - non venissero più considerate come parti di un insieme irrelato ma diventassero un discorso comune, con una varietà che nello stesso tempo non negasse la presenza di uno stile comune, di una logica, di un orizzonte in cui, di là dalle differenze, ci si riconduceva anche a un'unità e a un'ispirazione profonde. Che all'origine dell'Istituto ci fossero geografi come Gambi è significativo, poiché in questo modo ciò che chiamiamo il paesaggio diventava il punto di riferimento necessario per intendere le singole operazioni culturali.
Il principio era che non si può parlare di beni culturali se non si rapportano a un insieme, e il primo grande insieme lo chiamiamo "Regione". In questo modo c'era già qualche cosa che riguardava il piano, anche se i progetti "Galasso" nascevano da altre ragioni; questo nasceva quasi dal basso, perché erano le realtà museali, le realtà delle biblioteche, e tutte le altre cose che vi si aggiungevano, a chiedere di essere interpretate e di giungere finalmente a una considerazione comune che diventava tutt'uno con quello che sembrava essere uno sviluppo senza ostacoli. Anche se poi le cose cambiarono radicalmente, fin dall'origine l'Istituto anticipava che ciò che chiamiamo il mondo dei beni culturali va legato a un'entità più ampia che può benissimo chiamarsi paesaggio, se al termine paesaggio diamo delle ragioni nuove rispetto a una vecchia interpretazione che non vedeva la storia legata allo spazio, ma la separava in una sorta di dimensione ideale. Il paesaggio di cui si parlava nasceva dalle idee della nuova geografia di cui Gambi era un interprete di livello internazionale; e paesaggio - questo è importante - voleva dire un'entità storica, in primo luogo. Quando un grande storico dell'arte come Henri Focillon in tempi lontani parlava di nazione, diceva che la nazione è una lunga esperienza. La stessa cosa possiamo dirla per una regione: è una lunga esperienza, ed è una lunga esperienza il paesaggio in cui si realizza un'immagine visibile, insieme con altre immagini invisibili della regione.
L'Istituto quindi si portava dietro questa sorta di dialettica, questo bisogno di interpretare le singolarità dentro un insieme, cui dava quel nome non avendone un altro, ma con una logica che non era quella della cultura tradizionale italiana, poco attenta alla dimensione materiale della cultura. Qui invece c'era qualche cosa che veniva dagli anni successivi al 1945: era una cultura internazionale che trovava posto anche nell'orgoglio di un gruppo che tentava di portare avanti convinzioni nuove nel salto delle generazioni e nello scontro che sempre si dà nelle idee. E all'Istituto lentamente venne dato un compito, quello di amministrare in questa logica, per conto della Regione insieme con le Province, quella che oggi è divenuta la legge 18, relativa alle biblioteche da una parte e ai musei dall'altra.1
Da quasi dieci anni questa logica si è venuta realizzando di anno in anno in quella che è stata di fatto una concertazione o una negoziazione, dove il punto di vista delle province veniva ripreso da un punto più ampio, che per intenderci chiamiamo "Regione". Si verificavano le differenze e le incongruenze, si discuteva insieme e si arrivava alla fine all'approvazione di una logica comune, che regolava anche quella che diventava poi la distribuzione del budget assegnato dalla Regione; era un'idea di sistema, si diceva così ancora, ma sotto sotto ciò che contava era l'idea del paesaggio, e questo significa che nel momento in cui ci si riduceva a parlare soprattutto di libri, biblioteche, opere d'arte o magari musei scientifici, si trovava di continuo il bisogno di entrare in uno spazio più ampio: erano siti che andavano collocati in un insieme.
E paesaggio a questo punto diventa qualche cosa di molto preciso, di molto definito: non riuscivamo, nel fondo, ad amministrare il "bene culturale - libro" o il "bene culturale - immagine" senza ricondurli a una realtà di cui facevano parte. Ci sembrava di poter affermare che quando parliamo di paesaggio di una regione, in quel paesaggio ci sono sempre anche i libri e le immagini codificate da una tradizione che chiamiamo quella pittorica; e quindi nel momento in cui l'Istituto divideva le sue parti in un momento di ricerca e in un momento di applicazione e realizzazione, si trovava che insieme alle analisi da fare su quello che riguardava il mondo dei libri e il mondo delle immagini bisognava per forza parlare anche di edifici. Non erano grandi edifici, grandi monumenti le biblioteche? Potevamo ignorarle a questo punto e fermarci soltanto ai libri?
Cominciarono le prime operazioni di catalogazione del territorio, i primi atti di conoscenza della ricchezza che avevamo intorno, che diventava parte essenziale di una nuova logica, per un futuro e per uno sviluppo possibili. In anni recenti - ma qui occorrerebbe fare un'analisi anche d'ordine storico - quello che era stato in parte dimenticato ha ripreso di nuovo forza, e probabilmente si ripresenta con nuovi significati: non è semplicemente la ricostituzione di un vecchio capitolo, ma è una ripresa in parte trasformata secondo nuove logiche, nuovi bisogni, nuove prospettive, essendo finite certe ragioni, scomparse le sovrapposizioni ideologiche, diventato più chiaro il riconoscimento diretto, finito il sospetto intorno alle categorie interpretative che possono venire dalla grande sociologia internazionale. Strumenti che servono anche a noi, se poi abbiamo anche un programma con cui renderli più vivi e per così dire più nostri.
La legge regionale 20 del 2000 indica chiaramente questo,2 e io mi vorrei fermare proprio su quella parte della riforma della legge 20 che riguarda i problemi del paesaggio: l'assunzione del paesaggio non come un capitolo in più dei beni culturali, ma come il contesto necessario per intendere davvero i beni culturali nella loro concretezza e nella loro varietà. E a questo punto diventa indispensabile un confronto tra gli articoli 40 bis e successivi della proposta di modifica della legge 20 e gli articoli 132 e successivi del Codice "Urbani" dei beni culturali e del paesaggio; perché ho la sensazione che nel momento in cui vengono riprese certe formule vi sia anche una differenza che viene dalla storia pregressa della Regione, che si riproduce e probabilmente si riversa in modo nuovo anche in questo nuovo enunciato.
La legge "Urbani" fa coesistere insieme concetti che qualche volta possono essere fra di loro in contrasto; in ogni caso sappiamo bene che la definizione di paesaggio che viene data dal Codice - una parte omogenea del territorio la cui caratteristica deriva dalla natura, dalla storia e dalle loro interrelazioni - deriva dalla formula, assunta e sottoscritta anche da noi, della Convenzione europea per il paesaggio: una determinata parte di un territorio, così come percepita dalle popolazioni, le cui caratteristiche derivano dall'azione di fattori naturali, storici e dalle loro interrelazioni. Si parla di valori del paesaggio che vanno salvaguardati come manifestazioni identitarie e percepibili - questo ancora nel codice Urbani; questa formula è probabilmente debitrice, mi pare, di quello che aveva enunciato un grande storico, uno dei maestri delle Annales, Marc Bloch: l'unità di un paesaggio esiste solo nella mia coscienza.
La formula che viene dal Codice "Urbani" e che in parte, ma solo in parte, si trasferisce nelle norme 40 bis e successive della modifica della legge 20, comporta un'idea che è da discutere: cosa vuol dire "percepire" paesaggi, e chi è che li percepisce, e come si misura questo tipo di percezione? Il testo della nuova legge 20 si apre proprio parlando del paesaggio come riferimento per le politiche che abbiano un'incidenza territoriale: esso viene posto quindi come una categoria molto più ampia, in una logica in cui si situano anche quelli che chiamiamo normalmente i beni culturali. È un'idea di cultura che viene in questo modo discussa ed è un'idea di cultura che dovrebbe risultare partecipata; in ogni caso è una nozione nuova, che viene proposta ma a cui bisogna dare dei precisi contenuti: che cosa vuol dire esattamente "valore di paesaggio", e "paesaggistico", come aggettivo, che cosa significa?
Probabilmente - e provo a ragionare un poco per qualche congettura di lettore - probabilmente la nozione di paesaggio non è una nozione iniziale, è una nozione finale, che poi usiamo per interpretare. Ma è un insieme: se non abbiamo un sistema di relazioni che mettono insieme elementi diversi, naturali e culturali, come facciamo a parlare di paesaggio? Non possiamo parlare di paesaggio se non introduciamo un'idea non di percezione, ma di interpretazione: che cosa interpretiamo come significante di una certa realtà, e perché ci interessa per discorrere del nostro presente? Occorre misurarsi in qualche modo con essa.
Ma mi fermo semplicemente a questo punto. Nel dispositivo della nuova legge 20 è probabile che debba diventare ancora più nitida quest'idea di complessità e di composizione del paesaggio che è l'entità necessaria, l'insieme senza di cui non interpreto ciò che chiamo beni culturali. E per beni culturali non parlo qui di edifici, soltanto di monumenti; dico anche tutti gli altri. D'altro canto come si fa a dire che una grande biblioteca non fa parte di un paesaggio mentale? È un problema che va tenuto presente nel riscrivere la legge, con il criterio che non occorre soltanto avere delle regole chiare ma anche dei concetti chiari, sapere dove ci portano, sapere come governano la nostra intenzione, per diventare uno strumento vero.
A questo punto nasce un problema veramente grave, che si riflette subito in ciò che nella legge viene proposto, secondo il dispositivo "Urbani": l'Osservatorio regionale paesaggistico. Come si crea una cultura del paesaggio nell'uomo comune? Come facciamo a supporre che sia data, se in realtà è una formazione essa stessa culturale? Occorre un lavoro di formazione straordinario: tutte le negoziazioni previste, quanto più si va a incidere in certi interessi, diventeranno difficili, e tanto più se non avremo delle idee precise a cui riferirci. È un problema di indagine, è un problema di ricerca, di comunicazione, di diffusione; non basterà soltanto la scuola, ma senza questa formazione tutto il progetto rischia di essere trasferito e portato su una strada obliqua. Ma non basta parlare di identità culturale poiché l'identità non è necessariamente richiesta da qualcuno. Come la si fa passare, come la si fa diventare principio condiviso in nome del quale si possono creare certi effetti e prendere certe decisioni?
Per tornare un momento al punto di vista dell'IBC, si parla della possibilità che i membri dell'Osservatorio regionale paesaggistico - che dovranno indire ricerche, aprire studi, dibattiti, conferenze, incontri - possano fondarsi anche sulla collaborazione dell'Istituto. Ma, a proposito di costi, non si può non osservare che l'IBC ha il costo soltanto della propria esistenza, e poi è pronto a fare ricerche, le ha fatte, le ha anche in deposito: sarebbe bene, a questo punto, usare anche le realtà che sono vicine a noi, in modo che quel progetto possa trovare anche quella che in questo caso è una piccola convenienza economica. È una cosa possibile: è accaduto già anche per una vecchia legge sulla flora diventata di recente una legge sugli alberi monumentali, che prevede che sia l'Istituto a condurre l'istruttoria sul riconoscimento di queste entità singolari; e poi la Regione provvederà ad assegnare all'Istituto la somma corrispondente di finanziamento da trattare con le singole realtà interessate.
Ma ho già detto troppo, e chiedo scusa. Mi premeva però dirlo e dirlo ancora una volta: il paesaggio non è una aggiunta, è un elemento che reinterpreta l'intero mondo dei beni culturali come parte organica di uno sviluppo, come parte necessaria di un fervore che deve pure riprendere.
Note
(1) Legge regionale 24 marzo 2000, n. 18: "Norme in materia di biblioteche, archivi storici, musei e beni culturali".
(2) Legge regionale 24 marzo 2000, n. 20: "Disciplina generale sulla tutela e l'uso del territorio".
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