Rivista "IBC" XVIII, 2010, 4
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / restauri, pubblicazioni
"Urbicidio" è il termine drammaticamente efficace che coniò un gruppo di architetti jugoslavi all'inizio degli anni Novanta per indicare quello che stava accadendo nel loro paese. Uccidere la città sembra essere lo scopo principale della guerra contemporanea, perché significa non solo eliminare obiettivi militarmente strategici, ma anche e soprattutto colpire irrimediabilmente i valori identitari, sociali, culturali del nemico. Francesco Mazzucchelli, ricercatore presso il Dipartimento di discipline della comunicazione dell'Università di Bologna, intitola così il suo recente libro, che raccoglie un'approfondita indagine, condotta con gli strumenti della propria disciplina, la semiotica, sul senso dei luoghi nell'ex Jugoslavia a seguito delle distruzioni belliche e delle ricostruzioni successive.
Nella prima parte del volume vengono affrontati in linea teorica i rapporti tra memoria e spazio, restauro e memoria, memoria e città. La guerra e altre azioni di distruzione violenta possono cancellare la memoria, ma una delle tesi principali del libro è che la memoria si può cancellare anche attraverso la ricostruzione di ciò che è andato perso o distrutto. Infatti nella città si esercitano con maggior veemenza i tentativi di manipolazione della memoria collettiva: anche la ricostruzione può agire sulla memoria collettiva, e più in profondità della distruzione.
Il restauro non è mai una pratica innocente di conservazione neutra o ripristino di uno stato originario, ma è sempre scrittura e costruzione della memoria. L'autore propone una tipologia delle grammatiche del restauro, analizzando la ricostruzione "com'era e dov'era", la demolizione, la conservazione e monumentalizzazione della rovina, la nuova costruzione, la conservazione della rovina entro una nuova costruzione, la conservazione dello spazio vuoto come segno dell'assenza, la nuova costruzione che tematizza la distruzione. A ognuno di questi tipi corrispondono diversi modi di ricordare/dimenticare. Nella seconda parte del libro, anche avvalendosi di indagini sul campo e di interviste ai cittadini, vengono trattate le trasformazioni urbane intervenute, a seguito della conclusione delle guerre e dei mutamenti politici, in tre città dell'ex Jugoslavia: Belgrado, Sarajevo e Mostar.
Secondo la leggenda, Belgrado, capitale della Serbia, nei suoi 2400 anni di storia è stata rasa al suolo quaranta volte e altrettante ricostruita. L'ultimo bombardamento subìto è stato a opera della NATO nel 1999. Le riscritture della città sono molteplici: da romana a ottomana, poi austriaca, serba, socialista (con Tito), nazionalista (con Milošević), capitalista. Dopo la guerra, alcuni significativi palazzi pubblici conservano lo stato di rovina (come monumento al ricordo dell'"aggressione esterna"), altri sono stati invece completamente ristrutturati e modernizzati, in altri una parte di rovina è stata conservata e per il resto sono stati recuperati. Vi è, a Belgrado, un eccesso di memoria: le rovine, con la loro ambiguità semantica, fanno sì che gli eventi passati "continuino ad accadere", in una temporalità al di fuori della storia.
Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, è stata luogo d'incontro multiculturale: al centro commerciale erano connessi a raggiera i quartieri musulmano, cattolico, ortodosso, ebraico; la cinta delle montagne intorno separava la città dalla campagna. L'assedio da parte dei serbi durò quattro anni. La ricostruzione ha riproposto gli edifici nella loro forma, magari aggiornandone i materiali e le finiture, e tendendo a islamizzare la città, con la rimozione della parte identitaria serba. Molti luoghi hanno mutato ruolo, a causa della divisione della città; un grande viale periferico, prima poco frequentato, è diventato il centro della parte serba; sul monte Trebević (Olimpiadi invernali del 1984) non sale più nessuno. Ma le politiche di trasformazione e ricostruzione sono radicali: Sarajevo tende a voler dimenticare il tempo dell'assedio.
Per Mostar, capoluogo dell'Erzegovina Narenta, l'urbicidio culminò nella distruzione del celebre ponte (il "Vecchio", risalente al 1556). Attraverso quel ponte, Oriente e Occidente "si davano la mano"; era il simbolo della città multietnica. Dopo molto dibattito, venne deciso di ricostruire il ponte "com'era e dov'era". Ma la città resta divisa, e il nuovo vecchio ponte rappresenta qualcosa solo per i turisti (che peraltro vengono ammoniti da una scritta, su di una pietra ben visibile in prossimità del ponte: "Don't forget").
L'urbicidio, in conclusione, sembra avere ucciso davvero qualcosa in queste città: ancora traumatizzate, non sono più spazi della convivenza fra diversità. Se possono ancora riconquistare i valori urbani di multiculturalismo e cosmopolitismo che le hanno sempre caratterizzate, possono farlo soprattutto attraverso l'azione dei nuovi cittadini, delle generazioni più giovani.
F. Mazzucchelli, Urbicidio. Il senso dei luoghi tra distruzioni e ricostruzioni nella ex Jugoslavia, Bologna, Bononia University Press, 2010, 343 pagine, 23,00 euro.
Azioni sul documento