Rivista "IBC" XVIII, 2010, 1
musei e beni culturali / didattica, mostre e rassegne
"Love me Fender" è una mostra esemplare sotto molti punti di vista. Trasversale e interdisciplinare, sa fondere vecchio e nuovo, stanziale e nomade, arte e musica. Allestita dal 12 dicembre 2009 al 31 gennaio 2010 all'interno del Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna (e dove se no?), è una mostra d'arte ma la protagonista, come suggeriva alla perfezione l'azzeccatissimo titolo, è una chitarra. Non una, ma "la" chitarra, quella mitica creata nel 1946 da Leo Fender e divenuta negli anni una vera incarnazione dello spirito del rock. Una chitarra per ventisei giovani artisti, chiamati da Luca Beatrice, già responsabile con Beatrice Buscaroli del Padiglione Italia all'ultima Biennale di Venezia, a darne una loro personale interpretazione.
Nutrito il manipolo giunto direttamente da Venezia: Nicola Verlato, Daniele Galliano, Nicola Bolla, Marco Lodola e Matteo Basilè. Ci sono poi alcuni cantanti che si dedicano all'arte come Andy, ex sodale di Morgan nei Bluvertigo, Bugo e il nostro Luca Carboni con una delicata scultura lignea. Alessandro Bazan, Gabriele Arruzzo, Laurina Paperina, Marcello Jori e tanti altri. Come già per la mostra di Sol LeWitt, in concomitanza con "Artelibro", le opere sono state disseminate lungo il percorso espositivo del Museo accanto alle opere in permanenza, mentre in ogni sala piccoli amplificatori diffondevano una selezione di alcuni tra i più celebri e trascinanti brani pop-rock degli ultimi tempi: New Radicals, Editors, U2, Queen, Depeche Mode, Skunk Anansie... trasmessi in rotazione in collaborazione con Virgin Radio.
Insieme alle opere pittoriche realizzate appositamente per l'occasione, c'era una sezione di memorabilia, tra cui alcuni autentici modelli Fender, edizioni limitate che sono veri e propri pezzi da museo, da far girare la testa agli appassionati. Tra quella dedicata a Jimi Hendrix, copia facsimile dell'originale suonata al festival di Monterey, e quella in onore di Playboy serigrafata con la nota immagine di Marylin nuda su sfondo rosso, c'era anche l'esemplare prodotto in occasione dell'inaugurazione del Museo della musica, nel 2004, con duplicato in rilievo lo skyline di Bologna tratto dalla Pala dei Mendicanti di Guido Reni.
Arte e musica, arte antica e arte contemporanea, clavicembali e sintetizzatori digitali, spinette e iPod, museografia e radiofonia, allestimento permanente e mostra temporanea. Magari non tutte le opere in mostra sono di qualità eccelsa (eccezion fatta per le sculture luminose di Lodola, per Hellraiser di Verlato e il panda gigante che omaggia i Kiss di De Molfetta), tuttavia ci piace l'idea che ne sta alla base e non di meno la sua effettiva realizzazione. Ci piace per come questa idea sa calarsi coerentemente in un contesto già dato come quello di un museo, fondendosi e arricchendosi con esso. Ci piace il discorso che ne scaturisce, le interrelazioni che si creano, il gioco di contrasti e affinità. Perché visitare la mostra "Love me Fender" è anche visitare un museo che è già un piccolo gioiello di per sé, è confrontarsi con manufatti certamente distanti temporalmente e stilisticamente ma uniti dallo stesso principio di fondo (www.museomusicabologna.it). Si parla sempre di musica, del resto.
Lo stesso Museo della musica nasce con un'esplicita vocazione multidisciplinare, in quanto indaga la storia della musica attraverso le connessioni che questa ha instaurato lungo i secoli con altre discipline: dipinti, mezzi busti, testi manoscritti o a stampa, quindi pittura e scultura, ma anche editoria e beni archivistici, senza dimenticare l'artigianato artistico che costruiva materialmente e talvolta inventava di sana pianta lo strumento musicale. Dal liuto alla chitarra elettrica, da Antonio Stradivari a Leo Fender. Né più, né meno. Sagomati, intagliati, decorati, strumenti che sono opere d'arte al pari dei ritratti appesi alle pareti firmati da artisti di fama internazionale. Il dialogo che si instaura tra le parti è continuo e nessuna risulta fuori luogo. In questo senso un plauso deve andare proprio al Museo, che all'immobilità perenne che contraddistingue spesso le realtà museali, sostituisce un modello attivo e vivace, mutevole e attento (senza troppa puzza sotto al naso) all'attualità e a quei fenomeni culturali considerati a torto più popolari, come appunto il rock o il pop.
Per chi discute del museo del futuro, del museo interattivo, del museo allettante, capace di attrarre il pubblico con proposte anche divertenti e spettacolari, e non solo di ammorbarlo con serie infinite di oggetti sotto vetro accompagnati da sfiancanti didascalie con cui erudirsi, ebbene: questa potrebbe essere una strada buona da percorrere. Piuttosto che quella dei finti musei virtuali, fatti di niente, simili a luna park, tutti luci e schermi touch screen, dove la meraviglia della scoperta non dura un click del mouse, in attesa del successivo, pirotecnico, vuoto cambio di scena. Anche il cartellone di eventi collaterali e il programma della sezione didattica, pensati per integrare la mostra, merita una segnalazione: concerti, performance e videoinstallazioni, visite guidate, laboratori, incontri e spettacoli indirizzati ai più piccoli e alle scuole, sempre con l'intento di vivere e far vivere il museo.
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