Rivista "IBC" XVIII, 2010, 1

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L'uomo che verrà, il film che racconta la strage nazista di Monte Sole, nasce da un accurato lavoro di documentazione e di ricostruzione storica. Per restituire alle vittime le loro parole.
La lingua del dolore

Rebecca Rossi
[giornalista]

L'uomo che verrà, di Giorgio Diritti, è il primo esempio di film concepito, realizzato e postprodotto quasi interamente nel territorio dell'Emilia-Romagna e grazie al coinvolgimento attivo delle istituzioni regionali (www.uomocheverra.com). Coprodotto da Aranciafilm con RAI Cinema e distribuito da Mikado, è stato riconosciuto di interesse culturale nazionale e ha ricevuto il finanziamento del Ministero per i beni e le attività culturali, oltre che il supporto del Programma "MEDIA" dell'Unione europea. Ma è stato fondamentale il sostegno della Regione Emilia-Romagna, della Cineteca comunale di Bologna, della Regione Toscana e della Toscana Film Commission (le scene dell'asilo sono girate in una zona del Senese vicino a Radincoli), e la partecipazione della Fondazione Cassa di risparmio in Bologna.

Un piccolo passo per una regione, insomma, ma un grande balzo per la collettività; tanto da meritare, all'ultimo Festival internazionale del film di Roma, sia il "Gran premio" della giuria, sia il "Marc'Aurelio d'oro" del pubblico. Il film, recitato in dialetto bolognese con sottotitoli in italiano, ricostruisce l'eccidio di Monte Sole, compiuto dalle truppe naziste fra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944, passato alla storia come "strage di Marzabotto" dal nome del maggiore dei comuni colpiti. Motivato come azione di rastrellamento contro la formazione partigiana "Stella Rossa", l'episodio degenerò in uno dei più gravi crimini di guerra contro la popolazione civile perpetrato dalle SS durante la Seconda guerra mondiale: 770 vittime, tra le quali oltre 200 erano bambini.

La memoria collettiva e la sua forma scientifica, la storia, si basano su due tipi di materiali: i documenti e i monumenti. Ciò che sopravvive non è tutto ciò che è effettivamente accaduto, ma una selezione operata sia dalle forze che influiscono sull'evoluzione temporale del mondo, sia da coloro che sono delegati allo studio del passato, gli storici, sia dai testimoni diretti. Prima d'ora non era mai stato realizzato un film su questo eccidio. È rimasto un argomento imbarazzante fino all'apertura del cosiddetto "armadio della vergogna" nel 1994: un archivio occultato in uno sgabuzzino della Procura militare di Roma, dove sono stati tenuti nascosti 695 fascicoli sulle stragi nazifasciste in Italia, fascicoli che avrebbero messo in imbarazzo la Germania occidentale del dopoguerra e rischiato di sollevare altre verità scomode, per esempio sulle azioni degli stessi soldati italiani in Grecia e Albania. Oggi, finalmente, la memoria di Monte Sole è registrata anche in un archivio multimediale che raccoglie gli episodi, le cronache, le biografie e le testimonianze (www.montesoleonline.it).

L'uomo che verrà, quindi, non è solo un'opera narrativa, è anche il frutto di un'esigenza morale e di un deliberato lavoro sulla memoria, tributo all'allotropia e al legame fra documento (dal latino documentum, che deriva da docere: insegnare, dimostrare) e monumento (monumentum, dalla radice indoeuropea men, che esprime una delle funzioni principali della mente: la memoria).1 Una lunga fase di documentazione, preliminare alla sceneggiatura, è stata dunque fondamentale per questo film, opera seconda di Diritti dopo Il vento fa il suo giro. Dopo la lettura del libro di Luciano Gherardi, Le querce di Monte Sole,2 sulla resistenza "atipica" delle comunità montane, il regista ha avvertito la necessità di capire e sentire le persone, al di là dei meri dati di un libro di storia.

Nel 2003, in collaborazione con l'Istituto storico "Parri" di Bologna, sono cominciate le interviste a partigiani e sopravvissuti, accompagnate dalla consultazione del materiale autobiografico già esistente: Le scarpe dipinte di Alma Gamberini,3 i diari di Margherita Iannelli conservati presso l'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo), e altre memorie che già avevano ispirato alcuni Diari della Sacher, prodotti da Angelo Barbagallo e Nanni Moretti. Un riferimento importante è stata la bibliografia di Luigi Arbizzani, studioso di antifascismo, resistenza e movimento operaio emiliano-romagnolo, tra gli ideatori del Parco storico regionale di Monte Sole, istituito nel 1989, e tra i primi sostenitori della Scuola di pace inaugurata nel 1999 per favorire ricerche e attività sulla cultura della convivenza e dei diritti umani (www.montesole.org).

La gestazione del film, per tutte le maestranze coinvolte, si è trasformata in una sorta di viaggio nel tempo. Di qui, la necessità di realismo che caratterizza la rappresentazione anche materica della civiltà contadina dell'epoca, ma che nulla ha a che vedere con la maniacalità del dettaglio "alla James Ivory", in cui l'arredamento diventa fine estetico, perdendo efficacia come mezzo espressivo. Per lo scenografo (Giancarlo Basili), la costumista (Lia Francesca Morandini) e il direttore della fotografia dell'Uomo che verrà (Roberto Cimatti) è stata essenziale la ricerca iconografica nell'archivio fotografico della Cineteca di Bologna: ritratti di famiglie contadine, sedie e utensili rotti eppure ancora in uso, le cucine annerite e la dimensione dei brandelli nei vestiti, i paesaggi collinari sopra Imola e le foto amatoriali a colori dei militari americani che combatterono sulla Linea Gotica.4 Un contributo inatteso e prezioso è stato fornito anche dagli abitanti di Monte San Pietro, dove è stata girata la maggior parte delle riprese. Incuriositi dal set e desiderosi di sentirsi partecipi, sono intervenuti con suggerimenti, elementi utili, talvolta mostrando cimeli. Anche gran parte del cast è stato composto ingaggiando attori non professionisti, scelti fra la gente del luogo. La balia del film, per esempio, è interpretata dalla figlia di una delle ultime balie del paese, e ha prestato una consulenza preziosa su gesti, oggetti e dettagli vari legati al mestiere.

L'espediente narrativo che segna lo stile del racconto è lo sguardo di Martina, bambina di otto anni resa muta dal trauma della morte di un fratellino e figlia unica di una famiglia contadina che, come tante, fatica a sopravvivere. È un punto di vista che osserva il mondo con affetto e purezza, senza paura di guardare, né ipocrisia nel riferire, uno sguardo che inevitabilmente è condannato a rimanere relegato a una coscienza individuale, perché il personaggio non parla, ma soprattutto perché, se tentasse di farlo (come avviene con il tema in classe), subirebbe censure o rischierebbe castighi.

Il film comincia proprio con una carrellata in soggettiva della bambina che ritorna nella sua casa vuota subito dopo la strage e passa in rassegna, con cautela, l'orrore silenzioso dei letti sfatti e delle stanze non più abitate dai personaggi protagonisti del successivo flashback. Martina è interpretata dall'esordiente Greta Zuccheri Montanari e, attraverso i suoi occhi, lo spettatore riscopre il senso della festa e del ballo come evasione dalle fatiche della giornata, il sapore dolce del sangue caldo del maiale, i rimedi antichi per la tosse, il vestito buono che si indossa solo la domenica per andare a messa e la stanchezza di una contadina che non smette di lavorare neanche all'ottavo mese di gravidanza. Martina si prende cura anche del nonno infermo a letto, che sa riconoscere l'odore della neve e ha come unico svago i movimenti ripetitivi degli uccelli dal tetto ai rami dell'albero, fuori della finestra.

Grazie a questa bimba in fuga nei boschi si salverà anche "l'uomo che verrà", ovvero il nuovo fratellino, che la mamma (interpretata da Maya Sansa) riesce a dare alla luce appena poche ore prima dell'inizio del rastrellamento e che Martina difenderà sopra ogni cosa, anche a costo dello sforzo più grande: guarire dal mutismo, per cantargli una ninnananna e placare il suo pianto. Del resto, il recupero della memoria non poteva trascurare un riferimento al repertorio musicale popolare. E il tema portante della colonna sonora firmata da Marco Biscarini e Daniele Furlati è proprio una ninnananna tradizionale: la bellissima e amara Fa la nana la mi cucheta, nell'armonizzazione dell'etnomusicologo bolognese Giorgio Vacchi, fondatore e direttore del Coro Stelutis.

Ma ciò che completa e valorizza il viaggio nel tempo guidato da Giorgio Diritti è certamente il ricorso al dialetto. Una recitazione in italiano con accento bolognese avrebbe rischiato il ridicolo involontario. All'epoca, d'altronde, l'italiano era ancora una scelta "artificiale" e una lingua d'élite.5 Alla fine, ciò che poteva apparire un azzardo per la produzione e il successo del film, si è rivelato un efficace strumento di autenticità e omogeneità. Tutti gli attori, professionisti e non, hanno dovuto studiare con l'aiuto di Giorgio Monetti. Claudio Casadio, romagnolo di formazione teatrale, ha dovuto imparare l'inflessione giusta, al pari della romana Maya Sansa e della toscana Alba Rohrwacher. Ed è curioso che proprio Stefano Bicocchi, in arte Vito, attore comico bolognese, qui in un insolito ruolo drammatico, abbia avuto in sorte l'unico personaggio che parla in italiano: un cittadino ricco, sfollato in campagna dal capoluogo.

I personaggi del film sono quasi tutti inventati. La vera protagonista è la coralità. Ma nella descrizione dei partigiani qualche riferimento storico c'è. Il giovane che vuole aderire alla lotta partigiana, ma insiste per non fare il caposquadra perché non se la sente, prende spunto da una delle testimonianze raccolte nel corso del progetto condotto con l'Istituto "Parri". A questo proposito, c'è chi (ingiustamente) ha accusato il film di revisionismo, perché i partigiani sarebbero descritti perlopiù come individui rozzi, brutali e ignoranti. Il regista, in realtà, è il primo a considerare la resistenza un valore assoluto, un'esperienza politica e spirituale fondamentale per l'elaborazione dei valori individuali e nazionali del nostro Paese, per la nascita della nostra democrazia. Tuttavia, in nome di un'onestà intellettuale senza enfasi, senza negare un dato storico acquisito (durante la guerra di liberazione si sono avvicendati diversi comportamenti politici e varie categorie di partigiani) ci racconta che non erano tutti eroi, ma nella maggior parte uomini affamati e disperati che volevano cacciare degli invasori violenti dalla loro terra.6

C'è stata anche la resistenza non armata di certi preti che avrebbero potuto trasferirsi in luoghi più sicuri con il consenso del vescovo, ma che scelsero di rimanere, magari difendendo le donne nei festini orgiastici dei nazisti e finendo ammazzati (come don Giovanni Fornasini). Fra le aberrazioni di questo eccidio, ci fu anche lo sprezzo per il giudizio divino. Fino ad allora, rifugiarsi in chiesa era valsa come garanzia di incolumità, ma in questo caso i militari tedeschi non ebbero pietà neanche sotto l'altare. Fu distrutta anche la chiesa di Casaglia e per girare le scene del film sono stati necessari circa novanta sopralluoghi per trovarne una non troppo ristrutturata in occasione del Giubileo. La scelta è caduta su una piccola chiesa sconsacrata nel comune di Varignana, che ha anche un cimitero vicino.

Il ruolo di don Ubaldo Marchioni è stato interpretato dal regista Germano Maccioni, già autore del documentario Lo Stato di eccezione sui processi tardivi ai responsabili dell'eccidio.7 È lui che rincorre e cerca di rassicurare il bambino durante la sequenza della deportazione. Il processo di rappresentazione della verità è stato tale che il piccolo interprete in lacrime si è davvero spaventato durante le riprese, convinto che potesse capitargli qualcosa di terribile. Gli episodi di immedesimazione sul set sono stati molti e altrettante le coincidenze, racconta il regista. È lo stesso Diritti a confessare di aver più volte avvertito la sensazione dell'aiuto e della condivisione da parte degli "angioletti di Monte Sole": uno specchio del suo impegno morale, un aiuto a capire cosa avvenne, per non ripeterlo più.


Note

(1) M. Foucault, L'archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971.

(2) L. Gherardi, Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno (1898-1944), Bologna, il Mulino, 1986. Si veda anche la ricerca storica più recente e completa: Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, a cura di L. Baldissara e P. Pezzino, Bologna, il Mulino, 2009.

(3) A. Gamberini, Le scarpe dipinte, Bologna, Giraldi, 2008.

(4) Su quest'ultimo punto si vedano i repertori fotografici pubblicati nel n. 2-2007 di "IBC": V. Ferorelli, Impressioni dal fronte, "IBC", XV, 2007, 2, p. 4.

(5) F. Coco, Introduzione allo studio della dialettologia italiana, Bologna, Pàtron Editore, 1982.

(6) In proposito si vedano, per esempio: E. Rossi Ròiss, Partigiani in azione, Bologna, Fotografis, 1983, pp. 9-13; C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

(7) Il DVD del documentario, prodotto dalla Cineteca comunale di Bologna, è acquistabile sul sito www.lostatodieccezione.com.

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