Rivista "IBC" XVII, 2009, 4
musei e beni culturali / mostre e rassegne
Sono quasi sempre maschi, di età compresa tra i 25 e i 35 anni: gli arti orrendamente mutilati, i crani asportati o trafitti da chiodi, i corpi sepolti faccia a terra, spesso legati, parzialmente cremati o devastati in modo cruento. Le chiamano deviant burials, "sepolture devianti". Sempre più spesso gli scavi archeologici ci consegnano, da un passato nemmeno troppo remoto, queste tombe anomale, in cui sembra sia saltato il nesso di causalità tra morte e pietà. Eppure, in queste pratiche, non c'è livore o sete di vendetta: se qualcosa le ha mosse, è stato il terrore. Si infieriva sul cadavere in modo così brutale per respingere o prevenire i cosiddetti revenants, letteralmente "coloro che ritornano".
La mostra "Sepolture anomale. Indagini archeologiche e antropologiche dall'epoca classica al Medioevo in Emilia Romagna", allestita al Museo civico archeologico di Castelfranco Emilia (Modena) dal 19 dicembre 2009 al 21 febbraio 2010, illustra una decina di sepolture anomale rinvenute durante scavi diretti dalla Soprintendenza per i beni archeologici dell'Emilia-Romagna nel Modenese, a Bologna e a Casalecchio di Reno. I reperti scheletrici sono esposti con il proprio corredo, in modo da ricreare la situazione di rinvenimento delle tombe. Per mettere in luce i riti e le peculiarità di queste sepolture gli archeologi hanno lavorato a stretto contatto con gli antropologi del Laboratorio di bioarcheologia e osteologia forense dell'Università di Bologna.
L'esposizione passa in rassegna una serie di ingegnose soluzioni inventate dai nostri antenati per proteggersi dal ritorno dei defunti. Si va dalla legatura dei cadaveri - riscontrata in una necropoli celtica di IV secolo avanti Cristo, a Casalecchio di Reno - allo strano rapporto tra cremazione e calzature in un sepolcreto romano di II-IV secolo; dalle mutilazioni rituali, dalle sepolture prone e da altre pratiche post mortem incontrate in numerose tombe di età tardo romana scavate sotto la stazione di Bologna, ai crani chiodati del XII secolo recuperati nella Cattedrale di San Pietro.
La nascita di un revenant era propiziata da diversi fattori. Potevano essere stati malfattori, stregoni, persone socialmente indesiderate o di religione diversa da quella più praticata; potevano avere malformazioni congenite o essere nati con la "camicia rossa" (cioè il volto coperto dalla membrana amniotica); potevano essere morti in modo repentino o violento, suicidi, giustiziati; e infine potevano essere stati morsi da un revenant divenendolo essi stessi, tema caro alla fiction più che alla storia, visto che nei racconti folklorici non esiste il vampiro che crea proseliti semplicemente succhiando il loro sangue. Al momento del decesso, queste persone diventavano oggetto delle pratiche già descritte, volte a impedirne il ritorno dall'aldilà.
Ma a volte accadeva che il revenant si manifestasse a scoppio ritardato, rivelato da eventi soprannaturali o inspiegabili che potevano essere attribuiti solo a un'entità malvagia. In questi casi i cadaveri dei sospetti venivano riesumati e poiché, a causa della decomposizione in atto, i corpi presentavano tutti i segni tipici dei non morti (membra flessibili, bocca aperta, denti scoperti, gonfiori al ventre causati dalla putrefazione), si agiva su di essi con una serie di pratiche micidiali della più varia natura. Gran parte di questi riti non lascia tracce a livello archeologico, incluso il rimedio più celebre, trapassare il cuore con un paletto di legno, invisibile se non viene sfondato lo sterno. Altre volte, invece, l'azione letale è evidente. Gli oggetti taglienti o appuntiti erano sempre efficaci per fermare un revenant, così come la disarticolazione o il taglio dei piedi (per impedirgli di camminare) o la sepoltura prona (per evitare che si facesse strada verso la superficie), per non parlare della decapitazione, un sistema così appropriato da funzionare persino con i santi.
La mostra è curata dagli archeologi Luca Cesari, Diana Neri e Jacopo Ortalli e dagli antropologi Maria Giovanna Belcastro, Valentina Mariotti e Marco Milella; hanno collaborato la Soprintendenza per i beni archeologici dell'Emilia-Romagna, il Dipartimento di scienze storiche dell'Università di Ferrara, l'Università Cà Foscari di Venezia e il Dipartimento di chimica dell'Università di Modena.
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