Rivista "IBC" XVII, 2009, 4
musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni
La figura di Giovanni Boldini è da sempre accostata al cosiddetto bel mondo parigino, di cui il pittore ha colto l'esteriorità con brillante acquiescenza. Non che questa fama venga ora messa in dubbio o che le nuove conclusioni su Boldini siano di portata rivoluzionaria. Quella nomea e la natura stessa dei dipinti del nostro artista possono, però, aver portato talora a giudizi prevedibili, basati più sul puro fascino dei quadri che non su un'indagine comparativa critico-storica. Seguendo quest'ultimo criterio, con un lavoro di circa cinque anni, Ferrara Arte e lo Sterling and Francine Clark Art Institute di Williamstown (Massachusetts) hanno riesaminato l'opera del pittore ferrarese. Il risultato è "Boldini nella Parigi degli Impressionisti" (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 20 settembre 2009 - 10 gennaio 2010), un'esposizione non dedicata a un'antologia del ritrattista (che avrebbe corso il rischio di dare un'immagine monolitica) ma concentrata su un numero di anni relativamente ristretto, dal 1871 al 1886: i presupposti necessari a un'indagine storico-scientifica attendibile.
I curatori - Sarah Lees, Richard Kendall e Barbara Guidi, autori dei testi del catalogo - si trovano sostanzialmente d'accordo nel presentare una figura sfaccettata, ricchissima di contraddizioni per lungo tempo non risolte e destinate a essere ricomposte solo nel periodo della maturità. Colpisce in particolare la descrizione dell'uomo fatta da Kendall: ne esce l'immagine di una persona frenetica, portata a fare continuamente schizzi e disegni (ne sono rimasti circa duemila), in gran parte mai sfociati in opere pittoriche. Kendall formula l'ipotesi che Boldini cercasse una sfida con sé stesso, mettendo continuamente alla prova le sue notevoli capacità tecniche e cimentandosi di preferenza su soggetti di difficile esecuzione anche se incongrui con la natura generale del disegno, forse desiderando più sbalordire che non perseguire una coerenza espressiva.
Se, come tutti i pittori, Boldini aveva l'esigenza di collocare anche fisicamente i suoi quadri, a volte dava l'impressione di far prevalere l'aspetto mercantile su quello artistico. Vagò a lungo indeciso fra l'accademia e l'avanguardia, e se non espose mai ai Salons ufficiali non aderì nemmeno alla fronda impressionista, preferendo affidarsi all'appoggio dei galleristi privati per piazzare i suoi quadri e farsi conoscere. Date queste premesse, si può forse interpretare l'ascesa sociale che lo avrebbe portato a essere uno dei pittori più ricercati dalla noblesse parigina come il risultato dell'incontro di due esigenze complementari, entrambe tese narcisisticamente a uno scopo. Per Boldini era il desiderio di "mostrare", per i rappresentanti dell'alta società quello di "essere mostrati".
Un esempio su tutti è il celebre ritratto del conte Robert de Montesquiou (non presente in mostra), che pare essere stato il modello principale di una delle grandi figure proustiane, il barone Charlus. Accanto a queste manifestazioni edonistiche, convivono però in Boldini aspetti introspettivi che si materializzano in alcune opere, come il pastello in cui il pittore seppe cogliere con grande intensità la luce di Giuseppe Verdi, l'olio su tela in cui ritrasse la mobile vivacità dello sguardo di Henry Rochefort, o il carboncino su tela che coglie Edgar Degas dall'alto in atteggiamento pensoso. Il saggio di Sarah Lees che dà il nome alla mostra è specificamente incentrato sui rapporti fra Boldini e il nascente movimento impressionista. L'analisi si sofferma su di un mondo variegato e in continuo fermento, quello della Parigi artistica di quegli anni, che noi posteri tendiamo a ridurre un po' superficialmente al conflitto fra il mondo accademico e il "nuovo che avanza". Lees osserva il disagio di Boldini in quel mondo così diverso dalla Firenze macchiaiola che aveva lasciato. I legami più stretti li tenne con Degas, anche se non mancano testimonianze che documentano rivalità, invidia e timori reciproci.
Le perplessità su Boldini, da parte sia degli accademici che degli impressionisti, derivavano da incongruenze che sembrerebbero attestare la sua incapacità di decidere a quale poetica aderire. La non finitezza, soprattutto nei quadri di grandi dimensioni, in cui all'impressionante ricchezza di particolari di alcuni soggetti corrisponde a volte un'inspiegabile povertà di altri, poté a ragione determinare lo scontento, se pur per ragioni opposte, di entrambe le fazioni pittoriche. Le opere che in quegli anni documentano meglio il tentato approccio del ferrarese alle idee impressioniste sono vivaci scorci urbani: Attraversando la strada, Place Clichy, Omnibus a Place Pigalle; oppure paesaggi come Le lavandaie, o La grande strada a Combes-la-Ville, o La passeggiata mattutina, che però lo vedono più vicino alla poetica di Corot.
Giovanni Boldini nella Parigi degli Impressionisti, a cura di S. Lees, Ferrara, Ferrara Arte, 2009, 232 pagine, 47,00 euro.
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