Rivista "IBC" XVII, 2009, 4

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / pubblicazioni, storie e personaggi

C. Poni, La seta in Italia. Una grande industria prima della rivoluzione industriale, a cura di V. R. Gruder, E. Leites e R. Scazzieri, Bologna, il Mulino, 2009.
Exactly alla bolognese

Massimo Tozzi Fontana
[IBC]

La casa editrice il Mulino ha raccolto in un volume gli scritti che Carlo Poni ha dedicato a un prodotto assai importante nella storia della protoindustria italiana, frutto di oltre trent'anni di studi nelle biblioteche e negli archivi europei. Si tratta di quattordici corposi saggi dedicati alla tecnologia, all'organizzazione del lavoro e al modo di produzione della seta, pubblicati tra il 1972 e il 2001, tappe di un percorso che lo stesso autore delinea nella premessa del volume.

Ciò che salta immediatamente agli occhi da questa lettura è lo "stupore intellettuale", la totale assenza di pregiudizio che caratterizza l'approccio di Poni alla materia, come del resto, più in generale, alla storia economica; la sua capacità di mettersi in gioco e il suo costante, socratico, ammettere senza esitazione di non sapere o di essersi sbagliato: un tratto della sua personalità altamente pedagogico che ha sicuramente influenzato positivamente diverse generazioni dei suoi allievi.

L'autore, tra il 1950 e il 1960, immerso negli studi di storia dell'agricoltura, lesse nella Révolution industrielle au XVIIIè siècle di Paul Mantoux la vicenda di John Lombe, che nel 1717 impiantò in Inghilterra una redditizia fabbrica di seta fondata su un sistema tecnico carpito in Italia mediante un viaggio di spionaggio industriale. La scoperta di questo nesso tra la vicenda italiana e quella inglese, che nessuno storico fino ad allora aveva colto, costituisce il primo contributo importante di Poni alla storiografia dei mulini da seta.

Scrive il nostro: "Prima di cominciare le mie ricerche pensavo al filatoio come a una peculiarità lucchese-bolognese. Non credevo che questa macchina fosse esistita anche in Veneto, in Lombardia...". Allargare il terreno di indagine gli permise di capire in che misura il filatoio si fosse diffuso in tutta l'area settentrionale, fino al Piemonte e al Friuli. Iniziò così una lunga avventura esplorativa negli archivi, nel corso della quale Poni si imbatté ben presto nell'ostacolo rappresentato dall'inesistenza di un linguaggio tecnico codificato. Il Novo teatro di Machine et Edificii di Vittorio Zonca, del 1607, descrive con disegni il mulino da seta in modo assai efficace, ma nel testo utilizza un oscuro glossario: "La vite si chiama verme oppure coclea, l'asse della ruota peritrochio". Solo nel corso del Seicento, grazie a Galileo e alla sua scuola, il linguaggio tecnico cominciò a definirsi.

Una tappa decisiva della ricerca fu la scoperta, in un manoscritto della Bodleian Library di Oxford, di una descrizione della produzione serica in Italia nel 1676, con la rappresentazione dei diversi tipi di mulini da seta, e la conclusione che il livello tecnico più alto si identificava nella macchina "exactly alla bolognese". Così le indagini di Poni si concentrarono su Bologna.

Grazie allo studio comparato negli archivi, egli trovò notizie fondamentali sull'organizzazione del lavoro nei filatoi, che variava a seconda delle dimensioni delle aziende: nelle più grandi erano impiegate centinaia di lavoratori, divisi in mansioni differenti e sottoposti al controllo di numerosi sorveglianti. Fu così in grado di affermare che il sistema di fabbrica era nato nel nostro Paese almeno cento anni prima che in Inghilterra. Una constatazione che poteva indurre a confondere questo primato italiano con la rivoluzione industriale. "Non sono caduto in questa trappola", afferma Poni: non basta l'introduzione di questa o quella innovazione tecnica per mettere in moto un processo di quelle proporzioni che, in Italia, a differenza di molti paesi europei, non ebbe mai luogo, o meglio, solo molto più tardi e con modalità completamente differenti.

La grande diffusione del mulino da seta coincise, paradossalmente, con il declino della produzione del prodotto finito in Italia, e con il parallelo successo della seta lionese. Iniziò così nel nostro Paese un processo di deindustrializzazione tanto lungo e profondo da cancellare perfino la memoria del passato industriale a favore del più recente passato agricolo.

Questo il percorso della ricerca, ma forse il punto che più interessa noi dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, al di là dell'ammirazione per un "viaggio" storiografico di eccezionale vigore e rigore, è il suo inedito esito museale. È grazie agli studi di Poni che oggi abbiamo il Museo del patrimonio industriale di Bologna, dopo il Museo della civiltà contadina di San Marino di Bentivoglio, al quale il nostro aveva in precedenza impresso il suo segno. Nel Museo del patrimonio industriale, primo in Italia in questo campo, è possibile ammirare il modello in scala 1:2 del mulino da seta "exactly alla bolognese", ricostruito nei dettagli così com'era alla fine del XVII secolo. Non dimentichiamo che questa macchina dispiegava la sua attività in verticale, all'interno di un edificio a più piani che lo conteneva interamente. Nulla si poteva vedere all'esterno: solo il rumore intenso e continuo del macchinismo usciva dai muri. Quale espediente più efficace di un modello tridimensionale in scala per raffigurare una tecnica sconosciuta non solo oggi, ma certamente anche quando era in uso?


C. Poni, La seta in Italia. Una grande industria prima della rivoluzione industriale, a cura di V. R. Gruder, E. Leites e R. Scazzieri, Bologna, il Mulino, 2009, 652 pagine, 43,00 euro.

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