Rivista "IBC" XIII, 2005, 2
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / progetti e realizzazioni
Quella di archeologia industriale è una nozione alla quale si ricorre ormai da circa quaranta anni. Coniata in Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale già a metà del XVIII secolo, questa locuzione definisce un vasto movimento di studi e interventi che vede coinvolti storici e tecnologi, ma soprattutto architetti e urbanisti, per repertoriare e prevedere un futuro per i siti e i manufatti resi obsoleti dai ritmi dell'industrializzazione. In Italia, dove un sommovimento tecnologico e sociale simile nei tempi e nelle forme a quello britannico non ha avuto luogo, l'industrializzazione recente ha lasciato tracce importanti, talora estremamente visibili e a tutti note per il riuso prestigioso che ne è stato operato (due soli esempi: lo stabilimento Fiat Lingotto di Torino e la Centrale elettrica Montemartini di Roma), siti e edifici ai quali è ormai universalmente concessa la patente di "bene culturale" e a cui l'attenzione e il rispetto sono dovuti. Non è così per i manufatti meno celebri, per i luoghi che sono stati teatro di industrializzazione precoce, le cui vestigia, nel corso del tempo, sono andate quasi interamente perdute.
È proprio a questi luoghi e a queste tracce che l'Istituto per i beni culturali (IBC), nella sua azione ormai quasi trentennale, ha dedicato un'attenzione particolare: dai mulini ad acqua, a cui fu dedicata un'approfondita indagine concentrata nella valle del fiume Enza, alle fornaci da laterizi, dalle molteplici attività manifatturiere che utilizzavano forza motrice idraulica all'attività cantieristica tradizionale del fiume Po, dalle miniere di zolfo di Romagna alla lavorazione del ferro nella montagna bolognese. Volumi, mostre, filmati che rimpinguano il catalogo delle iniziative IBC, ma che purtroppo hanno contribuito ben poco alla salvaguardia di quei manufatti, di quei ruderi, di quei saperi. Credo che la nostra azione sia stata comunque meritevole: le indagini svolte hanno prodotto conoscenze destinate a trasmettere la memoria, a fissare il ricordo, in alcuni casi a museificarlo, anche se poi le ruspe inesorabilmente hanno cancellato.
Non diversamente le cose sono andate nel resto del paese: anche se non mancano esempi notevoli di salvataggio, i decenni passati hanno soprattutto prodotto diversi e pregevoli iniziative di conoscenza e studio del patrimonio industriale: dalla Lombardia al Piemonte, dal Veneto all'Umbria e alla Sardegna; alcuni musei sono stati fondati e si sono via via consolidati; non si contano le pubblicazioni, le mostre e gli audiovisivi realizzati localmente. Questo ventaglio di iniziative, dal quale molto si può apprendere, è composito, eterogeneo nella qualità e nella diffusione.
Intanto il tempo ha fatto giustizia dei numerosi dibattiti sul "che fare" degli anni Ottanta e Novanta. Oltre ai casi di abbandono e di distruzione, figurano anche - come ho accennato sopra - episodi di positivo recupero e riuso. Dall'officina meccanica trasformata in laboratorio fotografico o pittorico alla fabbrica divenuta museo o auditorio, via via fino al vecchio mulino divenuto abitazione, la gamma delle soluzioni adottate potrebbe essere oggetto di uno studio approfondito che ne analizzi le tipologie.
Tornando all'Emilia-Romagna, oltre al Museo del patrimonio industriale di Bologna - al quale si deve la salvezza non solo di tanti macchinari, ma anche di preziosi documenti di ogni genere - e ad alcune altre iniziative collezionistiche e didattiche settoriali di pregio, come il Museo della ghisa di Longiano, si segnalano molte pubblicazioni, alcune delle quali assai pregevoli, specchio di un metodo che ha preferito l'approfondimento al censimento, l'analisi di realtà circoscritte alla repertoriazione sistematica dell'esistente. In particolare, l'originalità di questi contributi consiste nel mettere al centro dell'attenzione l'insieme delle relazioni che hanno determinato l'esistenza delle architetture, dei siti, delle macchine e degli utensili, non separando gli oggetti dai loro contesti di appartenenza. Un approccio metodologico di grande maturità che colloca in una giusta prospettiva storica le tecniche, gli oggetti, gli edifici, i saperi "alti" e quelli "modesti", ma altrettanto degni di ammirazione e rispetto (penso al caso delle testimonianze, comparate e complementari, degli ingegneri minerari e dei minatori nella ricerca a suo tempo condotta nel bacino solfifero cesenate-pesarese) e che permette di identificare una via di assoluta originalità alla storiografia e alla museografia delle pratiche tecniche, o della cultura materiale.
Pur ritenendo che questo approccio, qui sommariamente descritto, sia determinante per attribuire qualche ragione di merito, se non di primato, alla regione emiliano-romagnola nel quadro nazionale, risulta evidente che qui, come nel resto d'Italia, non si è pervenuti a una definizione accettabilmente rigorosa di patrimonio storico industriale, né si sono stabilite chiare strategie di tutela e valorizzazione.
Per questo abbiamo ritenuto che non fosse né inutile né tardivo avviare un esame, che abbiamo definito "censimento dei censimenti" del patrimonio storico industriale regionale. Ci siamo proposti di effettuare lo spoglio e la repertoriazione del materiale a stampa concernente la conoscenza e la valorizzazione, compreso il materiale "grigio", le tesi di laurea, gli strumenti catalografici a scala nazionale, altre informazioni desumibili dalle fonti più varie (internet, riviste specializzate ecc.). Abbiamo creduto necessario repertoriare le istituzioni, gli enti, le associazioni, gli studiosi in qualche modo impegnati nel settore. Ancora, crediamo di grande utilità la verifica non sistematica ma per tipologie dello stato attuale di siti e manufatti, per tracciare esempi significativi delle vicende del patrimonio: la casistica - come ho già detto sopra - spazia dall'abbandono al riuso.
All'origine di questa ricerca sta la convinzione che la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio debbano oggi essere perseguite con iniziative diverse da quelle che si sarebbero adottate anche solo dieci anni orsono, tanto per le trasformazioni che il patrimonio ha subito, quanto per l'esperienza acquisita e per i mezzi tecnici, informatici in particolare, di cui oggi possiamo disporre. Vogliamo cogliere l'occasione per verificare la bontà di strumenti catalografici e informatici già predisposti e poco utilizzati dal nostro Istituto, o impiegati in altri contesti; per approfondire ricerche a suo tempo avviate su microaree, estendendone la metodologia al territorio, per produrre una documentazione costantemente aggiornata e per renderne capillare la diffusione, come già è avvenuto per il tema delle acque.
Il lavoro è già a buon punto, e in questo numero di "IBC" ne presentiamo lo stato dell'arte. Fedeli all'impostazione del programma stabilito nel 2003, intendiamo giungere al più presto all'immissione in rete delle informazioni di base sui siti e i manufatti industriali presenti in Emilia e Romagna, della bibliografia relativa e dei casi che particolarmente si prestano alla esemplificazione sul recupero e la valorizzazione. In tal senso nel mese di maggio 2005 inizieranno i lavori per l'allestimento della banca dati e la sua messa a disposizione on line nel sito internet dell'IBC.
D'altro lato diamo conto dell'ampio studio sugli zuccherifici e la loro vicenda nella duplice accezione architettonico-paesaggistica e storico-economica, oltre che del successivo approfondimento sulle origini del comparto agro-alimentare, nodo centrale dell'economia regionale, oggetto di recenti attenzioni internazionali e delle nuove realizzazioni museali parmensi (musei del cibo).
In questo quadro così variegato e così irto di problemi, qualche ragione di ottimismo si sta affacciando sulla scena: la presenza sempre più attiva dell'Associazione italiana per il patrimonio archeologico industriale (AIPAI) a livello nazionale e la fondazione, attualmente in corso, della sezione regionale emiliano-romagnola di tale istituzione, sono eventi che aprono nuove prospettive per azioni che, mantenendo la qualità fin qui rispettata, siano più mirate alla conservazione e al recupero. In questa direzione un ruolo centrale avrà il consolidamento dei rapporti dell'IBC con i centri operativi regionali preposti alla salvaguardia dei manufatti di interesse storico, in ottemperanza alle normative di settore e sfruttandone appieno le potenzialità. L'opera di sensibilizzazione e di scambio di informazioni è in corso, e sembra di cogliere segnali positivi da parte dei servizi e degli enti regionali coinvolti (attività edilizia, riqualificazione urbana, ERVET).
L'Assessorato alla programmazione territoriale ha mostrato interesse a fare uso della banca dati che l'IBC ha in corso di realizzazione, per orientare le scelte di programmazione degli investimenti provenienti dalle leggi di settore (le leggi regionali 19/1998, 16/2002 e altre), in collaborazione con gli enti locali. Inoltre la collaudata collaborazione con il Museo del patrimonio industriale di Bologna apre le porte a un intervento più autorevole e più consapevole nella conoscenza e valorizzazione delle storiche attività industriali, oltre a una migliore diffusione delle informazioni circa lo stato di avanzamento dei lavori, grazie alla sinergia tra "IBC" e "Scuolaofficina". La collaborazione con il museo infine ci permette l'apertura di un dialogo proficuo con quegli imprenditori che sono già consapevoli dell'importanza storica degli archivi delle rispettive aziende, della memoria di chi in esse ha lavorato e si sono dimostrati favorevoli alla valorizzazione e pubblicizzazione di tale patrimonio.
[Massimo Tozzi Fontana]
Il censimento del patrimonio industriale regionale
Lo studio degli spazi produttivi, della loro origine e del loro alternarsi tra dismissione e riconversione, rappresenta uno dei più interessanti elementi di analisi del patrimonio industriale e investe importanti tematiche relative alla interpretazione delle trasformazioni del territorio.
Situati ai margini della città, isolati, dimenticati ed esposti al degrado, questi luoghi costituiscono il tema del progetto in corso presso il Servizio beni architettonici e ambientali dell'IBC, che si colloca a distanza di quindici anni dalla ricerca che l'Ente per la valorizzazione economica del territorio (ERVET) ha condotto su scala regionale, per individuare e analizzare il patrimonio edilizio industriale abbandonato e fornire così materia aggiornata di riflessione alla pianificazione urbanistica. Una sintesi è racchiusa nel volume Fabbriche abbandonate e recupero urbano edito a Bologna nel 1989. In seguito si sono effettuate altre ricognizioni, con finalità e metodologie differenti: si ricordano in particolare le iniziative di Ferrara e di Ravenna, confluite verso la metà degli anni Novanta in altrettante pubblicazioni: Il tempo delle ciminiere, a cura di R. Roda e G. Guerzoni, 2 Voll., Padova, Interbooks, 1992-1993; Viaggio nell'archeologia industriale della provincia di Ravenna, a cura di Italo Zannier, Ravenna, Longo, 1996.
Dalla consultazione della documentazione complessiva disponibile presso l'ERVET, elaborata in collaborazione con l'Istituto di architettura e urbanistica della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Bologna e relativa al censimento degli stabilimenti industriali abbandonati distribuiti in ventinove centri della regione, è dunque iniziata una verifica dello stato attuale di edifici e impianti, il cui obiettivo è la realizzazione di una banca dati attraverso la quale documentare in modo sintetico le vicende significative del patrimonio industriale regionale.
Una prima fase della ricerca riguarda quei luoghi che, dopo un periodo di abbandono, sono stati oggetto di recupero attraverso iniziative dagli esiti differenti. In modo analogo vengono esaminati anche gli edifici in cui il processo di dismissione, giunto al suo epilogo, non è stato seguito da alcun intervento, e quegli spazi produttivi le cui tracce, nel corso degli ultimi decenni, sono andate quasi interamente perdute.
Attraverso questi tre momenti intendiamo rilevare gli elementi necessari alla definizione di un quadro esauriente delle caratteristiche del patrimonio e dei rapporti con il contesto urbano e territoriale in cui si collocano. La ricognizione viene estesa al territorio regionale e coinvolge tanto gli insediamenti più noti quanto quelli meno conosciuti, le vicende più studiate e quelle trascurate, attraverso una indagine che rileva analogie e differenze tra le molteplici situazioni, in un arco temporale che va dall'origine allo sviluppo, dal declino alla dismissione e infine al recupero o alla demolizione dei diversi complessi produttivi.
Oltre alla ricostruzione delle vicende industriali, lo studio intende elaborare una sintesi delle soluzioni adottate nelle diverse circostanze, al termine di ogni singolo percorso produttivo. Il riferimento generale è alle vicende seguite all'abbandono e determinate dalla decisione di intervenire attraverso il recupero o la demolizione dei fabbricati dismessi e dagli strumenti urbanistici utilizzati, dalla valutazione dei differenti criteri operativi e dei relativi esiti. Alcune considerazioni sono rilevabili dal confronto specifico tra situazioni dall'origine comune ma dal destino opposto, come lo zuccherificio di Borgo San Giacomo a Ferrara, stabilimento che, dopo un lungo periodo di abbandono, è stato recuperato e destinato a sede universitaria, ovvero lo zuccherificio di Porta Lame a Bologna che, dopo la dismissione, è stato demolito; solo la ciminiera superstite testimonia della sua passata esistenza.
Episodi simili emergono oltre che dal raffronto tipologico - è il caso degli zuccherifici - anche da quello relativo alla localizzazione, come nel caso degli opifici distribuiti lungo il Canale Navile a Bologna, alcuni dei quali sono stati recuperati mentre altri, abbandonati da decenni, ancora attendono un intervento che restituisca loro una funzione.
Attraverso un supporto catalografico di lettura immediata, sintesi delle schede elaborate dall'IBC e utilizzate in altri contesti regionali, e un repertorio bibliografico appositamente predisposto, attualmente costituito da oltre cinquecento titoli, saranno ricostruite le singole vicende degli impianti produttivi. Un vasto patrimonio iconografico, costituito da settecento immagini fotografiche, scattate nel 2001 da Gabriele Basilico in occasione del progetto "LR 19/98", coordinato dall'IBC, relativo alla riqualificazione delle aree urbane nella regione, documenterà indirettamente molti casi che sono oggetto della ricerca, mentre altre foto recenti segnaleranno i cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi anni. Grazie infine ai documenti visivi storici provenienti dagli archivi fotografici della regione, sarà possibile informare gli utenti della banca dati sugli opifici non più esistenti.
La banca dati conterrà dunque informazioni riguardanti la storia produttiva, architettonica e urbanistica dei siti industriali, sarà costantemente aggiornata sulla base dei materiali che si renderanno disponibili e al suo interno saranno inseriti approfondimenti di carattere monografico.
[Enrico Chirigu]
La parabola degli zuccherifici in Emilia-Romagna
Il progetto di ricerca in corso presso l'IBC, prima fase di un'indagine che coinvolge, in prospettiva, anche altri segmenti del comparto agroalimentare, ha come obiettivo quello di ricostruire, in modo esauriente, un settore di grandissima rilevanza nell'ambito dell'economia regionale, quello degli zuccherifici.
Le vicende dell'industria saccarifera italiana sono già state trattate in diversi studi, anche recenti, privilegiando tuttavia una visione "dall'alto", guardando cioè, prevalentemente, alle strategie seguite dai gruppi imprenditoriali italiani e stranieri nella creazione delle società, nella fondazione degli stabilimenti e nei rapporti con il potere politico su questioni di vitale importanza per la sopravvivenza delle imprese, come la protezione doganale e l'imposta statale sulla fabbricazione.
Questo approccio macroeconomico, se da un lato consente di seguire lo sviluppo generale del settore, individuando i fattori che contribuirono alla sua nascita e consolidamento, e anche alla crisi che, nel secondo dopoguerra, ne ha decretato un sensibile declino, lascia tuttavia aperti non pochi ambiti di indagine, su cui il lavoro in corso si propone di far luce.
Il primo aspetto è senza dubbio quello della nascita degli zuccherifici, il processo secondo cui le loro ciminiere cominciarono a punteggiare il paesaggio delle periferie cittadine, ma anche delle campagne della nostra regione. Ci si riferisce, in primo luogo, ai rapporti con gli interessi agrari e le loro rappresentanze: i sistemi usati dalle società saccarifere per indurre proprietari e conduttori locali a destinare estensioni più o meno ampie delle proprie terre alla coltivazione della barbabietola da zucchero, e il ruolo di mediazione - anche se non sempre di sostegno - svolto da istituzioni come le cattedre ambulanti di agricoltura, i comizi agrari, i consorzi agrari. Si tratta di un aspetto centrale soprattutto nella fase iniziale, quando cioè, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, l'industria saccarifera scelse l'Emilia-Romagna, accanto al Veneto, come propria terra d'elezione, almeno per quanto riguarda gli aspetti industriali.
Tuttavia altri snodi temporali non possono essere trascurati: ad esempio il periodo della "battaglia del grano" e della contrapposizione fra coltura cerealicola e piante industriali: un dissidio che, tuttavia, fu più apparente che reale, e che già a partire dall'inizio degli anni Trenta si risolse, almeno nella regione emiliana, a favore delle seconde, e dunque anche della coltivazione della barbabietola da zucchero. In questo senso, l'analisi dell'industria saccarifera rappresenta un interessante punto di osservazione per valutare anche le forme di mediazione che, durante il ventennio, il regime fascista mise in atto fra gli interessi del mondo agrario e quelli del mondo industriale, fra i quali il settore saccarifero rappresentava una sorta di "ponte".
Ma una fase di grande rilevanza fu anche quella della ricostruzione all'indomani della seconda guerra mondiale, con il parziale indebolimento della grande proprietà privata, fra cui proprio quella delle industrie zuccheriere; infine il faticoso adattamento alle regole del mercato comunitario, su cui erano presenti concorrenti assai agguerriti.
Un altro filone d'indagine finora poco esplorato, ma pure di estremo interesse, riguarda il significato degli zuccherifici nell'ambito dell'economia locale. Si trattava, com'è noto, di industrie atipiche, che, salvo nel caso in cui fossero presenti impianti destinati alla raffinazione degli zuccheri greggi, non lavoravano a ciclo continuo, ma seguendo invece "campagne" di durata variabile, a seconda dell'andamento dei raccolti, ma comunque relativamente brevi. La forza lavoro impiegata, pure essendo soggetta, durante l'attività, alle forme classiche dell'organizzazione e della disciplina di fabbrica, non vi era vincolata permanentemente. La sopravvivenza stessa degli operai era legata al mantenimento di altri rapporti lavorativi, in prevalenza quelli in agricoltura. Lo sviluppo e il consolidarsi del settore saccarifero deve dunque essere studiato anche in relazione al tessuto economico e professionale esistente, e alla sua capacità di inserirsi in esso sfruttandone le potenzialità esistenti e contribuendo a mantenerne le strutture fondamentali, pur adattandosi al progressivo mutamento della struttura dovuto ai più ampi cambiamenti macroeconomici avvenuti nel paese, soprattutto all'indomani del secondo conflitto mondiale. La "storia sociale" degli zuccherifici, in questo senso, rimane però ancora in buona parte da scrivere.
Proprio a questo scopo è in corso una serie di indagini, condotte presso le camere di commercio e le camere del lavoro dei centri principali in cui sorgevano impianti dell'industria saccarifera, aventi come principale punto di riferimento i materiali a stampa e quelli archivistici, al fine di rintracciare materiali relativi alle vertenze economiche che, ad ogni stagione, si aprivano per la definizione delle condizioni di lavoro e dei livelli salariali.
L'ultimo ambito della ricerca è relativo invece alle problematiche di archeologia industriale, e si svolge in collaborazione stretta con gli altri ricercatori coinvolti nel progetto, cui competono soprattutto le indagini relative allo stato attuale degli insediamenti industriali - nel caso in cui essi siano ancora in attività - e alla documentazione relativa al loro smantellamento o al loro riuso. Accanto a questo lavoro se ne inserisce, come necessaria premessa, un altro, volto in primo luogo alla raccolta di documentazione di carattere storico relativa agli impianti (piante degli edifici, fotografie e altro materiale iconografico), riguardante non solo i "contenitori" ma anche le testimonianze relative al ciclo lavorativo nelle sue varie fasi, tenendo conto del processo di mutamento tecnologico conosciuto dall'industria dello zucchero dalla fine dell'Ottocento fino a tempi recenti.
[Fabio Degli Esposti]
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