Rivista "IBC" XVII, 2009, 3

territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / immagini, mostre e rassegne, pubblicazioni

Le prime tre edizioni della "Festa del racconto" di Carpi nelle fotografie di Giorgio Giliberti.
Il volto di chi legge chi ascolta chi scrive

Paolo Barbaro
[Centro studi e archivio della comunicazione dell'Università di Parma - Sezione fotografia]

Nell'ottobre del 2006, per festeggiare il decimo anno del premio letterario dedicato allo scrittore Arturo Loria, la Biblioteca comunale di Carpi (Modena) organizzava nel centro storico della città la sua prima "Festa del racconto", con incontri tra cittadini e protagonisti internazionali della scena letteraria (www.bibliotecaloria.it). Gli istanti di quei giorni vennero fissati dalle fotografie di Giorgio Giliberti (www.gilibertifotografia.it) e l'anno successivo divennero una mostra.1 Un appuntamento a tre, quello tra città, racconto e fotografo, che si è ripetuto anche nelle due edizioni successive della Festa e che si ripeterà nella quarta, dal 2 al 4 ottobre 2009 (www.festadelracconto.it). Sulle pagine di questo numero, "IBC" presenta ai lettori un diario per immagini di questi tre anni: a introdurlo, il testo dello storico della fotografia Paolo Barbaro, che dal 1978 collabora con il CSAC - Centro studi e archivio della comunicazione dell'Università di Parma.


Le fotografie che Giorgio Giliberti allinea nell'autunno del 2006 [e degli anni successivi, ndr] hanno un'aria falsamente svagata, la capacità di restituire un evento complesso con argomenti solo in apparenza tenui. I modi sono quelli del reportage, ma il fotografo qui non cerca i momenti forti da condensare in una manciata di immagini pesantemente simboliche. Sembra piuttosto perdersi tra le piazze, gli angoli, le file di poltroncine provvisorie da arena estiva, scivolare dietro i palchi più da fiera di paese che da concerto rock, e confondersi nella folla variegata della "Festa del racconto" di Carpi.

Va ricordato che Giliberti fotografa da quasi trent'anni (espone per la prima volta nel 1979), pubblica la sua opera da circa venticinque anni (in direzioni diverse, a volte sembra siano più autori a operare sotto il suo nome), e negli ultimi quindici anni si è dedicato con particolare attenzione a una particolare declinazione della fotografia digitale applicata al racconto di luoghi, architetture, beni culturali in senso ampio: partiva da immagini prive di colore che venivano poi ricostruite spazialmente e cromaticamente con un lavoro lungo e meticoloso, fino a trasfigurarle in immagini completamente proiettive, come sognate, di sapore surrealista ma non estraniate. Piuttosto ritrovate. Lo avevo incontrato, nel corso di una di quelle imprese, e mi ero stupito di vedergli appesa al collo una Leica a telemetro, lo strumento fotografico più analogico, discreto che ci si possa immaginare, quasi una bandiera della fotografia veloce, "rubata" (proprio quella di Henri Cartier-Bresson) e riproduttiva della realtà, in dichiarato contrasto con la "produttività" della fotografia digitale,2 che oltretutto non è, per lui, scorciatoia per accelerare l'operazione fotografica ma mezzo analitico che dilata i tempi della realizzazione e della lettura delle immagini.

Ora, in questa serie carpigiana, Giliberti torna al reportage classicamente in bianco e nero, all'analogico, alla Leica insomma (che non deve però avere mai abbandonato del tutto, e lo si vede dai tagli dinamici delle sue elaborazioni numeriche) e ne dilata l'uso in una particolare declinazione di sequenza. Si capisce bene che le fotografie qui pubblicate sono una scelta entro un lavoro molto più ampio, con un tempo della ripresa particolarmente contratto: si ha l'impressione che tutto accada in un pomeriggio, fino a sera. Le inquadrature sono poi scelte, allineate, scandite, ma senza ricorrere a capitoli definitivi, a scatti perentori. Cerca di restituire la percezione della Festa piuttosto che catalogarla e definirla. Evidentemente l'oggetto stesso della manifestazione, il raccontare che invade la città, determina in larga parte l'operare del fotografo, come anche alcune invenzioni scenico-organizzative: le "poltrone narranti" dislocate per la città sono invenzione di sapore dada e suggeriscono stazioni di ascolto e postazioni di sguardo che Giliberti sperimenta e percorre.

Spesso le inquadrature hanno un montaggio interno o rimandano l'una all'altra: scansioni di spazi e tempi, a volte dittici intensi come quello con le due amiche tra cui scatta uno sguardo complice, di un'improvvisa e lampante sintonia, come quando un lettore ha l'impressione che chi scrive si rivolga proprio a lui. Poi i vari flussi di racconto. La fotografia non può restituire l'immagine acustica delle parole ma ne rende (assieme a qualche immagine grafica, verbale, alla parola scritta che ogni tanto occhieggia) alcuni effetti di racconto, alcuni riflessi retorici: il gesto dell'attore che recita, dell'oratore che parla, e anche (e su questo, acutamente, Giliberti ritorna spesso) la fisionomia di chi ascolta, di chi legge declamando o in silenzio, di chi si distrae o scivola a lato della miriade di relazioni regolate dalla scrittura narrante di Loria, dal flusso torrenziale di parole che da lì nasce e si dirama negli spazi carpigiani.3 Ci fa pensare, a nostra volta, a quello che sentiamo e facciamo vedere quando ascoltiamo o leggiamo, quando guardiamo e siamo guardati e lo sappiamo, a quando entriamo senza saperlo nel racconto di altri e ne diveniamo personaggi.

A volte la veduta si allarga e la scena inquadrata include ampie porzioni della città, icone urbane ben note (la piazza, il castello dei Pio di scorcio), ma più spesso chiude stretta sui volti. Giliberti allora torna al reportage ma, raccogliendo una delle altre indicazioni della Festa (riscoprire un paesaggio urbano minore, rallentando, uscendo dai flussi della circolazione utilitaria), racconta i lati, i margini, i posti dove la Festa si vede ma non succede nulla, o accade una pausa. Si allontana anche dalla cronaca: non sembra interessarsi ai volti o ai nomi più o meno famosi che si alternano ai microfoni e sui palchi ma rende benissimo la costruzione della distanza tra chi ha la voce e chi la ascolta, tra le piccole comunità recitanti sotto i riflettori e la moltitudine (il pubblico, la doxa) che ci porge un ritratto medio di lettori, ascoltatori, studiosi, studenti, curiosi e di qualche annoiato.

Sicuramente la sua non è un'impresa facile: non c'è uno spazio scenico unitario e spesso la presenza del racconto recitato assume l'aspetto dell'happening un po' casereccio, con la mountain bike appoggiata di fianco; allora la scansione si avvale di ritmi staccati ma efficaci: un gioco di mani che si serrano in un gesto affettuoso o a recintare il proprio corpo immobilizzato dalla convenzione dell'ascolto, la scena urbana che impone scenari dove la lentezza della parola letteraria non ha scampo di fronte alla velocità dell'immagine di consumo che urla dalle vetrine. I volti che popolano Carpi nell'ottobre del 2006 [e degli anni successivi, ndr], che ritroviamo nelle fotografie di Giorgio Giliberti, raccontano invece di una comunità dai rituali tutto sommato miti, di una civiltà che nasce dall'attenzione e dalla riflessione.


Note

(1) Si veda il catalogo: Lettori in festa. Racconto di una città che legge, a cura di A. Prandi, Modena, Poligrafico Mucchi, 2007 (da cui è tratto il testo di Paolo Barbaro: pp. 5-6).

(2) L'autore deriva qui l'opposizione "produzione/riproduzione" dal testo omonimo di László Moholy-Nagy del 1925, pubblicato in Pittura Fotografia Film (Torino, Einaudi, 1987; prima edizione nei Bauhausbuch del 1925) e deve a Vittorio Savi la sua applicazione all'opposizione analogico/digitale.

(3) Per la definizione di immagine acustica: Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Bari, Laterza, 1967 (prima edizione: Ginevra, 1916).

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