Rivista "IBC" XVII, 2009, 2
Dossier: Fermo immagine sulla pianura - 'Artisti e Territorio' (2006-2009)
territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
La nostra regione è una conca della terra con una scarsa pendenza verso il mare, e con pianure così piatte che la linea d'orizzonte non arriva mai lontano. Viaggiando nelle campagne tra il Po e la via Emilia ci si sente sempre piantati nel rasoterra, e se mai vedete qualche rialzo del terreno in lontananza potete star sicuri che è l'argine d'un corso d'acqua, oppure un contro-argine che spesso delimita una zona di pioppeti. Ogni tanto un campanile spunta nelle zone aperte, e quello è l'unico segno di elevazione che potete vedere per chilometri e chilometri. Spesso succede che arrivando in un paesino protetto da un argine, soltanto quell'ascesa di pochi metri vi dà l'emozione di salire in alto e gettare un'occhiata più lontano, nella piattezza assoluta del paesaggio che avete attorno.
In ogni direzione vedrete campi di grano e di colture orticole a perdita d'occhio, di solito tutti squadrati ad angoli retti e con superfici pressoché uguali. Sparse lungo le strade o in mezzo ai campi, vedrete cascine che hanno la forma d'una grande capanna a base rettangolare, con la porta nel mezzo e spesso una lunetta sopra la porta per dare luce all'interno. Sono case disadorne, ma belle nella loro geometria essenziale, con uno stile riconoscibile da lontano, che varia di provincia in provincia. Gli stradelli che delimitano gli appezzamenti attorno alle case sono tutti dritti e intersecati ad angoli retti, e costeggiati da un fossato che chiude il fronte dei campi, dove si scarica l'acqua piovana o quella delle irrigazioni.
Bisogna abituarsi a questa rigida geometria dello spazio piatto e invaso da linee rette, a questa monotonia di paesaggi agricoli uniformi, dove non esiste il pittoresco naturale che potete trovare in altri Paesi. Qui da millenni il pittoresco è stato sostituito da una trama di ripartizioni regolari, da delimitazioni geometriche senza divagazioni, che risalgono al primo stanziamento romano su queste terre. E viste dall'alto le nostre pianure mostrano spesso il reticolato dell'antica suddivisione romana, rimasto intatto per venti secoli. Da Piacenza fino a Bologna, e poi giù lungo la via Emilia fino a Rimini, i Romani avevano suddiviso i terreni coltivabili allo stesso modo in cui tracciavano il disegno degli avamposti dove insediarsi, semplicemente dividendo lo spazio in parti uguali attraverso un incrocio di linee rette, con la stessa impostazione urbanistica che trovate a New York e in quasi tutte le città americane. Così, se viaggiate in macchina per strade di campagna, quasi tutto quello che vedete rivela un sistematico ordine lineare che guida l'occhio verso punti fissi. Nelle grandi pianure del Po, l'occhio non si perde mai nello spazio aperto, non è mai colto di sorpresa da conformazioni impreviste del paesaggio, e piuttosto a poco a poco comincia a riconoscere un grande ordine astratto come quello dell'architettura. Vedrete case o cascine sperdute in lontananza, isolate l'una dall'altra, ma dentro un reticolato di strade dritte che le situa nello spazio come su una scacchiera; e soltanto quando un canale o corso d'acqua viene a interrompere la simmetria della scacchiera, troverete una strada che divaga in tracciati curvilinei e irregolari, dandovi improvvisamente un senso di avventura nell'imprevisto.
Questo ordine di tipo urbano e architettonico, con le linee di fuga dei campi e delle strade dritte, crea dovunque un illusionismo prospettico che ha buon gioco sugli orizzonti bassi. Anche nella costruzione delle case, nella disposizione degli alberi, nel modo di segnare l'ingresso a un podere attraverso due pilastri che fanno da soglia, si ripete un ordine dove lo sguardo non può divagare attorno alle cose, ma è continuamente guidato da simmetrie e da vedute prospettiche. Osservate i pioppeti sparsi un po' dovunque, con i pioppi disposti per file diagonali che si intersecano a quadrato, per cui da qualunque parte li guardiate vedrete sempre una regolare linea di fuga dei pioppi. È un altro esempio del modo con cui il nostro paesaggio viene organizzato ormai da secoli, riducendo tutto lo spazio a una scacchiera di trame lineari come quelle dell'architettura, e cancellando tutto l'informe della natura non soggetta al controllo dell'uomo.
Per giunta da noi non esistono pascoli, dunque non si vedono animali al pascolo, e questi, assieme agli animali da cortile, sono ormai tutti confinati negli allevamenti industriali. Così se vi inoltrate nelle campagne del Po, da Piacenza fino al mare, quello che vedete intorno può darvi persino un senso di vuoto, di fissità stagnante e senza vita, dove non sapete cosa guardare per distrarvi. Ma se vi succede d'incontrare qualche vecchio abitante del luogo, magari un vecchio solitario in bicicletta, oppure qualcuno che sosta sulla porta d'un bar di paese, avrete impressioni diversissime. Provate a parlare con certi vecchi abitanti delle campagne, e scoprirete uno spirito fantastico, una specie di stravaganza congenita che tende alla divagazione comica o sorprendente. Tra l'altro nei bar di campagna qualsiasi conversazione non è altro che una serie di battute buffe, a cui un estraneo può tenere dietro difficilmente, può solo osservarla come un teatrino da cui è escluso.
Sono famosi certi scherzi nei bar di campagna per mettere a disagio gli estranei. Per esempio quello di raccontare una storia assurda e comica, per poi sorprendere l'estraneo che ride con queste frasi: "Perché ride, lei? Crede che non ho detto la verità? Mi prende per un bugiardo o per un pagliaccio?". E gli altri clienti del bar danno ragione all'uomo che protesta, fanno la faccia seria per mostrare che quella storia è proprio vera e non c'è niente da ridere, finché l'estraneo confuso si ritira in buon ordine. Ma cos'è questa tendenza allo scherzo che disorienta gli estranei fino a metterli a disagio? Cos'è questo modo di isolarsi dagli altri, questo umore fantastico che si sostituisce ai convenevoli della socialità?
Se penso ai grandi autori delle nostre parti, Ariosto, Boiardo, Folengo, fino a Zavattini, Delfini, Fellini o anche a Giorgio Manganelli (cresciuto nei dintorni di Parma), mi viene in mente una forma immaginativa che li accomuna, una stravaganza fantastica che non trovo in autori di altre regioni. Non so spiegare questa tendenza, ma so che tradizionalmente si parlava di varie forme di pazzia locale, e c'era la famosa pazzia di Reggio Emilia, la melanconia cupa dei ferraresi, la pazzia ombrosa dei romagnoli. Qui la parola "pazzia" era intesa come stravaganza individuale, ed era quasi una forma di vanto in certi posti. Per esempio dalle parti di Cremona si parlava della matàna degli uomini del Po, e questo genere di pazzia significava un'indipendenza irriducibile, indicava una persona non assoggettata alle regole sociali convenute.
Io credo che un tempo si dicesse la matàna del Po, per dire che la "pazzia" di certuni era ispirata dall'acqua del fiume, dalle sue turbolenze e piene irriducibili entro un letto stabile. E il fiume e le acque della nostra regione sono precisamente l'opposto dell'ordine stabile e geometrico che si vede nelle campagne, sono l'opposto di questo progetto millenario per organizzare tutto l'informe della natura in uno spazio regolamentato da linee rette. Soltanto da pochi decenni gli uomini hanno chiuso tutto il Po in una rigida gabbia di argini pensili, per evitare che divaghi in nuovi percorsi aperti dalle alluvioni, e vada a impaludarsi in bracci morti, laghetti, falde, pantani, o altri sfoghi imprevisti. Ma questo è un contrasto insolubile, perché più il Po diventa chiuso da argini stabili e senza libertà di sfogo, più le sue piene diventano imprevedibili e pericolose.
"Perché il Po è come una biscia che diventa matta" mi diceva qualche anno fa un vecchio signore solitario, incontrato su una lanca sull'isola Serafini, nei dintorni di Piacenza. E lo stesso signore mi ha anche detto, col solito umore stravagante di queste zone, che lui personalmente si considerava un tarabusino, cioè un uccello che si nasconde nei canneti e nelle lanche. Voleva dire che, come vecchio pensionato, non trovava nessun posto dove andare per sentirsi a proprio agio, dunque veniva a rifugiarsi spesso in riva al fiume. Ma la sua idea che il Po sia come una biscia che impazzisce quando è bloccata nei suoi movimenti naturali, mi fa pensare che dalle nostre parti l'immagine della natura sia sempre stata molto diversa da quella di altri Paesi: cioè non legata alla vegetazione, bensì soltanto alla turbolenza delle acque.
Le nostre pianure dovevano essere quasi già completamente disboscate all'epoca degli stanziamenti romani, dunque non è mai stata la vegetazione a suggerire il culto della natura, e l'assenza completa del pittoresco naturale dipende da quello. Nelle nostre pianure l'immagine della natura è sempre stata legata alle tremende piene del Po, all'esuberanza distruttiva delle acque, all'enorme quantità di falde freatiche dove le acque penetrano facilmente attraverso i terreni argillosi, sbucando all'impensata in polle, stagni, paludi, o risorgive. Fino al secolo scorso c'erano paludi un po' dovunque, il Po continuava ad aprirsi nuovi bracci attraverso le campagne, e la conca delle nostre pianure mostrava più chiaramente il suo volto: come un'isola sospesa su terreni incerti, con fiumi che girano quasi a livello del suolo in percorsi sinuosi e stravaganti, e sempre minacciata nel suo assetto superficiale dalle acque.
Per questo non esiste dalle nostre parti un'idea della natura riposante e idillica come in altri Paesi. Qui le acque mostrano la natura come qualcosa che non è assoggettabile al controllo dell'uomo, come una esuberanza imprevedibile, come una pazzia a cui gli uomini debbono adattarsi. Tutti i vecchi del Po che ho incontrato si vantavano soltanto di questo: di conoscere bene la "pazzia" delle acque, di sapere che il fiume è una "bestia matta" con cui bisogna adattarsi a convivere, concedendogli gli sfoghi necessari altrimenti si altera tutto l'equilibrio ambientale. Ma nel parlare di queste cose mostravano sempre la loro tendenza all'invenzione fantastica, con modi di dire dialettali e bizzarri, con una svagatezza visionaria che lascia stupiti. Come quella del vecchio signore incontrato sull'isola Serafini, il quale, dicendomi che lui si considerava un tarabusino, non faceva che indicarmi l'ispirazione della sua stravaganza di solitario contemplatore delle acque.
Ma adesso poniamo che abbiate percorso tutta la nostra regione, entrando dalla sua porta a nord-ovest, che è Piacenza, poi seguendo il tracciato rettilineo della via Emilia, visitando le antiche città che questa strada attraversa, con una deviazione verso Ferrara, che è la porta a nord-est verso altri territori. Avrete notato che anche nelle città sopravvive un ordine lineare come quello delle campagne, benché spesso turbato da percorsi curvilinei, che di solito indicano dove passa un corso d'acqua ora interrato. Le nostre città erano un tempo ricche di canali e di fiumane, ed erano ancora le acque a perturbare le simmetrie della scacchiera urbana, interrompendo o deviando la fuga di linee prospettiche. Ma bisogna anche dire che a Bologna, Modena, Reggio, Parma, le zone attraversate dalle acque erano per lo più quartieri popolari, artigiani, mercantili; mentre i luoghi nobili erano le strade del centro, con i palazzi patrizi che creano impeccabili linee di fuga, scandite dal ritmo regolare delle finestre all'italiana.
All'opposto dell'Inghilterra, dove le residenze nobiliari sono sempre in campagna e nascoste nel pittoresco naturale, l'insediamento nobiliare nel cuore delle nostre città crea uno scenario accentrato e dispotico, in cui le divagazioni dello sguardo sono sempre bloccate da prospettive fisse. E anche se questo paesaggio urbano è stato alterato da slarghi, chiese, piazze con un ordine spaziale barocco, più bizzarro e imprevedibile, rimane nelle nostre città il senso d'un accentramento dispotico, in cui il potere si associa a un'ostentazione vistosa che preclude ogni altra possibilità contemplativa.
Ancora adesso potete riconoscere l'antica magnificenza lineare delle strade nobili, percorrendo quei tratti della via Emilia che attraversano Reggio, Modena, o il centro di Bologna. Ciò che ha cambiato questo scenario in modo decisivo è il fatto che le strade nobili hanno seguito fino in fondo il loro destino di centri d'ostentazione, e si sono trasformate in aggregati di banche, di vetrine di lusso, di sfarzo pubblicitario, di esibizioni di ricchezza, dove tutto quello che non allude al profitto ha perso qualsiasi significato.
I centri cittadini sono ora soltanto una sfilata di esposizioni di merci, e chi non ha la frenesia della ricchezza si trova qui come un pesce fuor d'acqua. Divenute aggregati puramente commerciali, senza più canali e corsi d'acqua, assediate da un traffico ossessionante, le nostre città permettono ormai una divagazione dello sguardo soltanto di notte. Soltanto visitandole di notte si ritrova il senso della loro geometria lineare, ma anche le tracce d'una svagatezza fantastica che per secoli è stata un'antitesi e uno sfogo, rispetto all'ordine esterno troppo geometrico, dispotico e artificiale.
Direi che questa via di sfogo ormai appartiene al passato, che la svagatezza fantastica ormai è passata di moda, e che anche dalle nostre parti le nuove generazioni si sono assoggettate a un'idea pubblicitaria di normalità della vita. L'umorismo fantastico dei vecchi è preso dalle nuove generazioni come una stranezza di "gente che non è andata a scuola", perché non somiglia a niente che potete vedere alla televisione. Ed è diventato una specie di irregolarità incomprensibile anche nelle campagne, sempre più invase da industrie che si spandono disordinatamente, imponendo dovunque un regime di vita urbano e pubblicitario.
Se entrate nei bar di campagna, troverete spesso dei vecchi che giocano a carte o leggono il giornale, mentre i giovani stanno a discutere di vacanze, macchine, soldi. I vecchi pensionati vanno in bicicletta e i giovani leoni vanno in macchina. Gli uni pedalano lenti osservando le cose, mentre gli altri filano sull'asfalto degli argini come su una autostrada. Sempre più isolati dal clamore pubblicitario che inneggia soltanto alla gioventù, i vecchi individui più indipendenti e fantasiosi tendono a ritirarsi in luoghi poco frequentati, come una specie animale minacciata dagli uomini e in via di sparizione.
Li potete vedere spesso al tramonto su un argine, a cavallo della loro vecchia bicicletta, straordinariamente assorti in riva al Po, immobili contemplatori delle acque. Sono loro che osservano di giorno in giorno gli sviluppi di una modernizzazione disastrosa, con la cementificazione degli argini che blocca i movimenti del fiume, con l'asfalto che blocca le falde freatiche, con le acque sempre più torbide per i rifiuti scaricati dalle industrie, con il trionfo delle piante infestanti che prosperano nei terreni acidi, con l'arrivo in massa di gabbiani che si nutrono di residui tossici sulle montagne di spazzatura.
Ne ho visti tanti contemplatori del genere, pensionati solitari in bicicletta, vecchi che difendono il loro isolamento con comiche battute dialettali, oppure chiusi nei loro pensieri e senza voglia di rispondere, assorti davanti a uno slargo del fiume. Ma non è soltanto in riva al Po che potete trovare questi contemplatori solitari. Ne troverete anche sulle strade dell'Appennino, sui crinali boscosi della provincia di Piacenza, sui pianori della provincia di Parma, sui passi che portano in Toscana, e nei paesini delle montagne romagnole fino al mare. Ne troverete moltissimi sul delta del Po, nell'intrico di canali della bassa ferrarese, nelle valli d'acqua di Comacchio, sui litorali quasi spopolati al confine veneto, e un po' dovunque fuori dai grandi centri di ostentazione. Sono loro i veri esperti dei luoghi, gli osservatori più attendibili, gli ultimi spiriti fantastici della nostra regione.
["IBC", V, 1997, 3, pp. 25-27; Ma questa è un'altra storia. Voci, vicende e territori della cultura in Emilia-Romagna (1978-2008), a cura di V. Cicala e V. Ferorelli, Bologna, Bononia University Press - Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, 2008, pp. 205-212]
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